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2009 > Opere scelte (Meridiani, Mondadori)

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Il “Meridiano” dedicato a Ottiero Ottieri, a cura di Giuseppe Montesano, Cristina Nesi, Maria Pace Ottieri, propone sei opere, scelte tra le molte del suo catalogo, tra prosa e poesia, mischiando generi e forme, nel cuore di una ricerca stilistica personalissima. Sfilano quindi: Donnarumma all’assalto, La linea gotica, L’irrealtà quotidiana, Contessa, Il poema osceno e Cery, titoli che vanno dal 1959 al 1999, delineando un quarantennio di una presenza, appartata eppure nitidissima, nella letteratura italiana postbellica.

MEMORIE DELL’INCOSCIENZA (1954)

UN ESORDIO
di Renzo Tian
(«Il Messaggero», 21 maggio 1954)

Nel primo romanzo di Ottiero Ottieri Memorie dell’incoscienza (comparso nella collezione dei
“Gettoni” di Einaudi),  c’è sicuramente una novità, che lo differenzia da molte opere di suoi coetanei: è
una novità non di contenuto, ma di tono e, vorremmo dire, di maniera di considerare il problema del
narrare. Il tema del romanzo è tutt’altro che nuovo: Ottieri ci parla di quel periodo di crisi morale e
spirituale che coincise con i grandi mutamenti operatisi in Italia fra il 1943 e il 1945, e sceglie come
protagonista un ventenne che impersona lo stato di disorientamento e di confusione in cui si trovarono
molti giovani in quell’epoca tormentata. Una libertà che per certuni aveva le sembianze del disordine e
dell’anarchia fece vacillare più di una coscienza: e Ottieri cerca di dirci con franchezza la storia di certi
errori e di certe illusioni che prima di essere condannati hanno bisogno di essere intesi a fondo.  Ma,
attenzione, questo non è che uno sfondo e uno sfondo non sempre troppo nitido.  Accanto all’analisi
delle reazioni suscitate dagli eventi storici, pubblici, corre parallela la storia privata delle vicende
sentimentali di Lorenzo e qui ci sembra che Ottieri dia la prova migliore delle sue possibilità. Il mondo
dei sentimenti dell’adolescenza, con i suoi trasporti e le sue crisi; il senso di isolamento e di solitudine,
la pena profonda e il desiderio di morte che possono nascere da un amore tenace e mal corrisposto; il
rovello, la disperazione e la paura che si insediano nell’anima al seguito di questi mali – son questi i
temi capaci di ispirare all’Ottieri delle pagine felici e a fargli delineare dei veri e viventi personaggi
femminili.  Perciò, pur con gli inevitabili difetti di un libro scritto a ventitre anni e rifatto a ventisette, ci
sembra di poter indicare l’originalità di queste Memorie nell’atteggiamento dello scrittore di fronte alle
cose che ha da narrare: un atteggiamento di umiltà, di rinuncia a voler forzare la mano e dominare a
ogni momento la scena. In troppi nostri romanzi moderni si sente una persona invadente: quella
dell’autore che non sa rinunciare a starsene anche lui sul palcoscenico dove stanno recitando i suoi
personaggi.  Se l’espressione “mestiere di scrittore” ha ancora un senso Ottieri ha dimostrato (magari
attraverso certi suoi sbagli) che quel mestiere lo conosce e che ha la sua parola da dire nella narrativa
contemporanea.

MEMORIE DELL’ INCOSCIENZA
di Giacinto Spagnoletti
(«La Gazzetta di Parma», 2 ottobre 1954)

Col lungo gomitolo che è venuto sdipanandosi della memoria degli anni di guerra, la nostra narrativa,
specie quella sperimentale e giovanile, da tempo sta fabbricando una variopinta tela della quale si vede
ogni volta un angolo, balenante trama, disegni e colori differenti. … Il più calzante esempio, forse il
meglio distinguibile tra i tanti, ce l’offre il romanzo di Ottiero Ottieri Memorie dell’incoscienza
(Einaudi, 1954), il primo libro dell’autore trentenne. L’opera, anche materialmente risulta composta in
due tempi (1947 e 1951) affidata quindi a due precisi momenti di redazione che hanno il vantaggio di
coincidere con due momenti storicamente dissimili, ma si mantiene ciò nonostante, fra realtà e fantasia,
su un piano di evocazione unica. È questo il suo merito. E che l’elemento documentario cui avrebbe
dovuto appoggiarsi la narrazione, sia precipitato, anzi per meglio dire abilmente fatto cadere, dietro
l’ossatura del racconto, indica la maturazione intervenuta fra le due stesure e in fondo il sopravvento
dell’artista sulle velleità anche giustificabili del cronista, come oggi si direbbe, dell’autore di
memoriali. L’intento di giungere, attraverso la disamina d’uno stato d’animo d’adolescente inquieto al
giudizio di un’epoca – quella beninteso trascorsa dal 25 luglio ai grossi contraccolpi drammatici della
sconfitta – ha potuto, ancora una volta essere lucidamente evitato, con la grande soddisfazione di
metterci di fronte a un romanzo dove di quell’esperienza si avverte l’eco profonda, sorda talvolta, senza
l’alone moralistico a cui troppi documenti del genere ci hanno abituato.
Ma con tutto il peso e il fastidio della documentazione psicologica che quei trapassi, quelle
contraddizioni e vaghe rivolte comportavano, si poteva fare romanzo a patto che si mantenessero ben
nette e distinte le due serie di “verità” aggallanti: quella di ieri e quella di oggi. Che non venissero
mescolate in un’unica comoda congettura, valida in sede romanzesca e in sede storica. In una nota
giustificativa l’autore, per esempio, dà al termine “incoscienza” un significato particolare e chiama in
causa la psicologia del profondo, indicando nell’incoscienza del suo personaggio “non tanto la
spericolatezza, quanto un’assoluta immaturità psicologica, un male senza colpa, eppure capace delle
conseguenze più disastrose.” E allargando il campo d’osservazione aggiunge: “Tacciare qualcuno o un
intero gruppo di uomini di incoscienza non è propriamente maledirlo, ma respingerlo entro confini
assai stretti, relegarlo e toglierlo quella ingenua potenza che crede esibizionisticamente di avere”. Di
qui poi la conseguenza che, “in questo libro, il fascismo, l’impulso suicida, l’affetto fra fratello e
sorella, o vari e meschini modi di vedere il mondo in alcuni personaggi, sono mossi direttamente dai
fili di un inconscio individuale o collettivo”.
Dunque, come dicevamo, l’autore si è reso conto della necessità di espellere il personaggio dalla sua
storia attuale, teorizzandoci su, ma avremmo preferito nemmeno un rigo di teoria e una maggiore verità
di impostazione nell’ambito dello stesso personaggio troppo pencolante talvolta verso le sue ossessioni
politiche e amorose (sia pure immaturamente percepite) per dirsene ancora immune: il suo racconto si
svolge tra continue comode, sottili indulgenze non solo morali ma sentimentali, psicologiche. Ed è a
forza di tortuose scalfitture inflittesi che ritroviamo alla fine lo stesso irreale giovinetto che conosciamo
all’inizio, durante le torride giornate dell’estate romana.
Nulla ha potuto cambiarlo, e neanche la morte della sorella limpidamente descritta (il finale riecheggia
però stranamente la classica dolente chiusa di Un addio alle armi). Perduto questo gioco sul
personaggio, per fortuna all’autore rimanevano gli altri, da lui più sentiti e magistralmente condotti.
L’atmosfera dell’ozio in campagna, fra le pareti della villa abitata dalla sorella e dagli ufficiali tedeschi,
le calde, pregnanti descrizioni del paesaggio di Roma e di Chiusi inserite negli stati d’animo più
dissimili del protagonista, le figure femminili, soprattutto queste che non si dimenticheranno
facilmente: Katja, Elena, Rita, Isabella. Ed il romanzo vive per tutto ciò e meno per le ansie scontate
del giovane eroe.
Si capisce quanto sia stato difficile per il giovane autore staccarsi da tanta materia e riosservarla:
laddove occorreva uno strappo deciso egli invece ha lasciato sul terreno della rappresentazione mille
fili di impiccio, stregoneschi feticci di una vocazione letteraria forse troppo dottrinalmente compiaciuta
di psicologia.
Ma badando alle qualità di scrittura con cui molto più spesso ha ravvivato il suo racconto – alle pagine
dolorose e riposanti di cui si è detto, alle figure riuscite – non si potrà non riconoscergli un posto, tra i
meno casuali, negli ultimi acquisti della nostra narrativa.

2002 > Un’irata sensazione di peggioramento (Guanda)

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Milano-Torino e ritorno: un tratto di autostrada che si snoda tra le risaie, un nastro d’asfalto percorso con angoscia e orrore, altre volte con flebile speranza, dallo scrittore Pietro Mura, alcolista in preda a ricorrenti crisi depressive, intellettuale impaziente, duro con se stesso e con la realtà politico-economica che lo circonda. A un estremo dell’anello la “capitale immorale” Milano, governata unicamente dall’”anima” del commercio e del profitto, oppressa da cieli plumbei e uniformi, stagnante. Dall’altro invece Torino, cieli alti e luminosi, in cui trova un nuovo medico e la speranza di una nuova cura, nella quale riconosce anche una possibile storia d’amore. Su questo percorso di andate e ritorni, ossessivamente circolare, si snoda la vicenda esile e intensa di una guarigione forse impossibile, che a volte pare addirittura non necessaria, tanta è invece l’urgenza che il racconto attribuisce alla ricerca delle radici della malattia.

Su tutto si fa strada in modo impercettibile ma inesorabile, la sensazione che la follia e l’ossessione appartengano prima di tutto al mondo e alla cronaca, che ci siano ragioni politiche e sociali più forti ancora di quelle interiori, che violenza e caos siano soli il lascito amaro di un paese illiberale, di logiche di mercato inumane eppure apparentemente da tutti condivise. E’ l’ultimo libro di Ottieri, un libro estremo e forse terribile: nella precisione meticolosa con cui scandaglia il male del suo protagonista, nella scrittura aspra e affilata che detta i ritmi compulsivi della circolarità e della dipendenza, riconosciamo non solo il suo disagio interiore ma anche il nostro difficile sopravvivere in un paese in cui la barbarie si presenta con il volto dell’ovvio, dell’inevitabile; e la sua analisi è spietatamente verticale, giunge al cuore della banalità, della fatica individuale e collettiva, ne esplora i silenzi e le paure, lascia quasi con terrore che ne emergano le contraddizioni e ci consegna infine il profilo livido di una quotidianità allucinata.

1999 > Cery (Guanda)

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La necessità, la sofferta urgenza che scandisce le pagine di questo libro è la lucida consapevolezza che la depressione provoca la massima delle sofferenze mentali ed è al contempo, anche sofferenza fisica e come tale viene pienamente vissuta da chi ne è colpito. Ma c’è anche altro, una sorpresa che nasce fuori dalla pagina, nella lettura di un libro così intenso e partecipe: lo stupore di chi è “normale” nell’accorgersi che non c’è compiacimento del dolore in chi si porta dentro il ‘male oscuro’, al contrario, c’è la voglia, la fretta di guarire cui fa eco un insopprimibile desiderio di vivere.

Ad accompagnare il lettore in questo territorio di confine è il protagonista del libro, un intellettuale milanese di mezza età, alcolista, che si trova ‘rinchiuso’ in un ospedale svizzero per seguire un programma che lo liberi e che lo aiuti a placare l’ansia, l’angoscia cui egli applica la solita autocura sbagliata e quindi tragica, l’alcol.Intorno a lui ci sono i medici e gli altri pazienti, soprattutto donne, specialmente le donne che su di lui esercitano attrazione. Della loro vita vorrebbe sapere tutto: i desideri, gli amori, le delusioni e un istinto che non può domare lo spinge a iniziare un gioco di seduzione che segnerà l’inizio di una serie di imprevisti amorosi.

1998 > Una tragedia milanese (Guanda)

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Milano, una città dal cielo finto, dove il lavoro stabilisce i ritmi e le forme della vita di tutti e dove le ideologie dono “puri scontri di interessi economici”. E’ su questo sfondo che si rincorrono che si muovono i personaggi, tragici e grotteschi, di “Una tragedia milanese”. La figura centrale è Antonio, il professore, un amoroso chirurgo estetico, anziano, ma ancora attraente. E intorno ci sono tutti gli altri, uomini e donne che entrano ed escono velocemente dalla scena intrecciando tra loro fitti dialoghi, quasi in forma di teatro. Tutti sembrano obbedire a una sola necessità: parlare per evitare il silenzio, come a volere esorcizzare la paura del tempo che passa.

Discorsi che fluttuano intorno alle cose senza mai riuscire veramente a toccarle, perché questi personaggi stentano a costruire relazioni profonde e sono capaci di stabilire solo contatti rapidi, lievi, sarcastici come il loro parlare. I temi che Ottieri tratta nei suoi libri e che ritroviamo in queste pagine, sono occasioni per riflettere sul rapporto fra sesso, malattia e morte. Ma l’esito più felice di questo romanzo è quello poetico; è nel ritratto, intenso e partecipe che lo scrittore fa di un certo mondo, un mondo su cui incombe una luce livida e malinconica.

1997 > De morte (Guanda)

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“Il pensiero della morte è un sintomo tipico del pensiero della depressione”, scrive Ottieri all’inizio del libro, “ma il senso della morte è il più indispensabile al senso della vita.” La frase potrebbe essere presa a motto per questa esplorazione di un sentimento individuale e allo stesso tempo di un universo molto ampio di pensiero, di meditazione religiosa, di elaborazione psicologica e filosofica. La malattia attraversata da Ottieri è diventata occasione e necessità di riflessione sul tema della morte, di confronto (impervio e appassionato) con le posizioni della psicoanalisi, della psichiatria, della medicina più avanzata, la “componente scientista”. Che a Ottieri non basta.

“Ogni scheggia di morte rimbalza su Dio”, scrive. Il saggio di Ottieri (che nella seconda parte concede largo spazio a uno svolgimento narrativo, come impone la vocazione dell’autore), comprende a questo punto anche un dialogo con uomini di religione e teologi: e ci invita così a considerare il problema sotto ogni possibile aspetto, ad avvicinarlo sulla base del vissuto e della cultura laica, ma anche in rapporto a quella dimensione metafisica che forse rispecchia il nostro sentire più profondo.

1996 > Il poema osceno (Longanesi)

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Il protagonista è un maturo poeta cui piacciono i ragazzi e le ragazze, un bisessuale insomma, che non vuole scegliere e vive a tutto campo, a 360°. Vuol possedere tutto il mondo e “il mondo è tutto ciò che accade”. Nella prima parte del romanzo convive con Flavio, un giovane intelligente, ma con disturbi della personalità, cioè sessuali; nella seconda con Samantah, una stupenda giovinetta che studia troppo e non trova il tempo per dare gli esami. E’ prolissa nel parlare e gli uomini cercano di zittirla con mezzi appropriati. Il maturo poeta ha il pensiero e il corpo nell’al di qua e nell’al di là. Nella varietà (è onnipotente) e in due fissazioni: il sesso e la propria morte, destinata a venire, presto o tardi. Fustigatore e istigatore, Ottieri diletta e sconvolge, provoca, scandalizza, lusinga e ferisce, dando prova della sua “globale “maturità come narratore e poeta, in un romanzo fluviale, di oltre cinquecento pagine, sapiente intreccio di dialoghi filosofici e versi erotici e civili.

1994 > Il diario del seduttore passivo (Giunti)

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Cinque poemetti: Monica Dreyfuss, Lo psicoterapeuta perfetto malgrado lui, Sotto il mantello della rivalità e dell’autostima e Il seduttore passivo, altrettanti capitoli di un’autobiografia romanzesca in versi , tinti di comicità e dolore. Una voce roca e ilare, stentata e vivace, sempre intonata, che fonde un’esperienza stilistica la cui radice è nella grande satira dell’Occidente, Orazio, Molière, Parini, con la propria capacità di autoanalisi per cui scrivendo esce ed entra dal fuoco delle proprie turbe.

1994 > La psicoterapeuta bellissima (Guanda)

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Una prima parte teatrale, a più voci che si intersecano e si affollano sui temi del rapporto fra sesso, malattia e morte e una seconda, più vasta, in cui riprende tutto il suo spazio quella voce monologante dalla irripetibile misura, comica e drammatica, tenera e sboccata, parodica e serissima che è tipica dell’Ottieri poeta. E’una voce di “pazzia specializzata”, di una pazzia che non soltanto ha metodo nell’accusare “il tremendo, mortale /uppercut del reale”, ma che fa apparire alla fine la ragione come nient’altro che una sua astuzia. Soltanto una pazzia così può può regalare ai lettori versi irresistibili come quelli in cui il protagonista frequenta cene mondane e abbozza avventure erotico-galanti, con le “guardie del corpo”, custodi, carcerieri, infermieri, complici sempre al seguito; o dà indicazioni così minuziosamente pertinenti su che cosa può sostitiuire il vino o su che cosa può annegare il dolore, nel sospetto che ad essere intollerabile non sia il dolore ma “la menoma/sfumatura di gioia”.

1993 > Storia del PSI nel centenario della nascita (Guanda)

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E’ un salto ulteriore nel percorso di Ottieri perché vi si affronta con il tema della cronaca politica, una tappa inattesa e distante dalle precedenti. Se nelle altre opere campeggiava l’immagine di una nevrosi sfibrante, in quest’ultima regnano le figure del partito e del padre. Regnano, scrive Valerio Magrelli nel risvolto di copertina, come l’autorità può regnare in Ottieri, ossia con compassione, ironia, nostalgia. E ancora “Quasi per vasi comunicanti l’ingorgo analitico si risolve in disagio sociale e viceversa, il collasso del partito si traduce in crisi d’identità personale.” Il padre, il secondo poemetto, prolunga questo monologo sghembo e torrenziale, toccando alcuni dei punti più alti mai raggiunti da Ottieri nei suoi versi.