Tutti gli articoli di Bettina

Autografo n. 49, anno 2013, Le linee gotiche di Ottieri. Percorsi testuali

Indice del numero
Saggi
Carla Benedetti, L’ansia, la grazia, l’aforisma (note su Il pensiero perverso di Ottiero Ottieri).
Cristina Nesi, Due culture, due città: La linea gotica
Claudia Bonsi: dal Taccuino Industriale a La Linea gotica di Ottiero Ottieri, un viaggio testuale.
Anna Modena, La sposa infinita.
Anna Antonello, “Parole per vivere, guai per scrivere”: dal Diario di Pozzuoli a Donnarumma all’assalto.
Mattia Fontana: “Da solo, una vita di massa”.
Fabrizio Di Maio: Repubblicidio. La politica nelle ultime opere di Ottieri.

Inediti e rari
Anna Antonello, Claudia Bonsi, Dai diari di Ottiero Ottieri.

Archivio della memoria
Nico Naldini, Silvana Ottiero Pier Paolo

Vetrina
Anna Antonello, Claudia Bonsi, Dolce vita, vita industriale, vita assurda. Le carte di Ottiero Ottieri al Fondo Manoscritti di Pavia.

Margini
Ottiero Ottieri, La linea gotica. Taccuino 1848-1958 (Giuseppe Lupo).
Alberto Cadioli, Le diverse pagine. Il testo letterario tra scrittore, editore, lettore. (Maria Antonietta Grignani).
Adriano Olivetti, Ai lavoratori. Discorsi agli operai di Pozzuoli e Ivrea presentati da Luciano Gallino. (Duccio Tongiorgi)
Marco Pivato. Il miracolo scippato. Le quattro occasioni sprecate della scienza italiana negli anni sessanta. (Carlo Varotti)

I venditori di Milano, Edizioni Clichy, 2013, a cura di Luca Scarlini

I venditori di Milano, Edizioni Clichy, a cura di Luca Scarlini.
Anno 1960: Ottiero Ottieri pubblica la commedia I venditori di Milano  e la porta in scena al Teatro Girolamo nel marzo di quell’anno per la regia di Virginio Puecher, protagonisti Mario Mariani, Mario Maranzana e Anna Nogara.
L’opera, da allora non più riproposta, ha ancora a che fare con quell’ambiente industriale e d’ufficio in cui l’autore era penetrato con Donnarumma, spostandosi però con decisione ai piani alti, quelli dirigenziali. Il luogo principe della vendita, che avvia inesorabile la smaterializzazione del capitale ma anche dell’opera umana, e di cui Ottieri è straordinario individuatore e anticipatore, oltre che un “micidiale” osservatore del tratto umano, degli umori e della psicologia che dalle parole e dai gesti promana.

Luca Scarlini, Il mistero non si sgomina mai, L’Indice dei libri del mese, n.12, 2010

Ottiero Ottieri torna con un opportuno “Meridiano” a lui dedicato e ben curato, con un’introduzione di Giuseppe Montesano (Il poeta osceno), che propone sei opere, scelte tra le molte del suo catalogo, tra prosa e poesia, mischiando generi e forme, nel cuore di una ricerca stilistica personalissima e decisamente à bout de souffle. Sfilano quindi: Donnarumma all’assalto, La linea gotica, L’irrealtà quotidiana, Contessa, Il poema osceno e Cery, titoli che vanno dal 1959 al 1999, delineando un quarantennio di una presenza, appartata eppure nitidissima, nelle lettere italiane postbelliche.
Questo è d’altra parte l’ossimoro che scandisce la ricezione critica dell’autore, come la bibliografia finale consente di verificare puntualmente. I titoli di giornali e riviste ribadiscono spesso questa idea di una figura peculiare. Si va dall’idea di “un alieno tra noi”, che compare in un pezzo di Giovanni Raboni (“Corriere della Sera”, 2004, anticipazione di un testo poi uscito come prefazione a L’irrealtà quotidiana), al “fuor d’ogni regola” avanzato da Enzo Siciliano (“la Repubblica”, 1996), per arrivare a un intervento di Carla Benedetti, Ottieri, notissimo sconosciuto (“La Rivista dei Libri”, gennaio 2000), in cui risuona una definizione di Michel Butor adottata dall’autore stesso: insomma un intero armamentario di figure della differenza, del lontano, dell’altro da sé. Nel percorso nazionale novecentesco, evidentemente, l’autore delle proprie nevrosi è assai meno diffuso che altrove; tanto stupore non si sarebbe dato in Francia, dove molti hanno declinato la loro identità “patografica” (un termine adottato in un suo scritto da Emanuele Trevi), con figure a diverso titolo sintoniche con Ottieri, come Nicolas Genka (L’epimostro) o Pierre Guyotat (di cui ora Medusa manda finalmente in libreria la prima traduzione italiana, quella del Coma). Da noi cercare di scrivere in questa direzione sembra suscitare sospetto (basti pensare al destino per lungo tempo di Dino Campana o alla tardiva ricezione di un autore del calibro di Emanuele Carnevali), altrove è pratica accettata più facilmente, come spiega l’esistenza del meraviglioso Musèe de l’Art Brut di Losanna, in cui si conservano opere di persone che hanno per i più diversi motivi, come avrebbe detto Schopenhauer, “interrotto il rosario apparentemente immutabile dei giorni”.
Il primo romanzo del volume, che fece inserire lo scrittore nel filone della cosiddetta “letteratura industriale”, risulta in questo senso profetico: nato dal diario del lavoro come psicotecnico nello stabilimento Olivetti di Pozzuoli, Donnarumma gioca con notevole intuizione sulla psicologia della vita d’industria, raccontando le aspettative dei moltissimi aspiranti operai che si presentano a sostenere un colloquio attitudinale di cui non capiscono il senso, ma che deciderà in un tempo brevissimo del destino loro e della loro famiglia, suscitando reazioni anche violente. L’andamento segue la struttura dei giorni di fabbrica, secondo il meccanismo di un diario tenuto, in tempo reale, nel 1955; le domande, secondo gli aggiornati manuali americani, spaziano da un argomento all’altro, innescando sequenze memorabili, come quella che vede in imbarazzo un ammiratore di Esther Williams, che non riesce a ricordare il nome della sua beniamina. La moderna psicotecnica risulta infine per chi la pratica “immorale”, perché “potrebbe essere neutra, ma si colora del luogo dove si svolge”, visto che “selezione scientifica e disoccupazione si negano”. I vetri scintillanti delle nuove imprese Olivetti “dal volto umano”, che vorrebbero interrompere gli esiti più tremendi dello sfruttamento, si colorano quindi di nuovi e più sofisticati mezzi di coercizione, che fanno deflagrare il disagio. Forse proprio questa capacità di insistere sugli elementi meno prevedibili del dialogo all’interno dell’alienante luogo di lavoro spiega il meccanismo di una scrittura che alterna occasioni narrative e riflessioni sociologiche.
Il passo diaristico sottoposto poi a numerose rivisitazioni, in un montaggio assai sofisticato e complesso, emerge in modo definitivo in La linea gotica (1962), memorabile immersione nel magma memoriale, nella scansione cronologica di dieci anni, dal 1948 al 1958. Tornano qui i momenti topici di una vita: l’abbandono della famiglia nobile, il tentativo di “andare verso il popolo”, avvicinandosi ai partiti della sinistra e la concezione sempre più chiara della propria relazione con la nevrosi, nel lento inizio di un’analisi complessa. Un appunto del 1949 dichiara il campo di gioco in modo chiaro, preciso. “Nella camera della pensione, autocontrollo e follia. Timore di non essere amato. Bisogno di aiuto. Una follia che sta sempre a guardarsi, lasciando fuori un margine di coscienza e controllo. Smanie, come a diciotto anni, regolate da una specie di occhio interno, di termostato, sopra le acque. Cose che nessuno deve sapere, né vedere”. Lo scacco della terapia impossibile, l’entrata e uscita dalle cliniche, i medicinali, le tecniche, i dottori diventano i protagonisti assoluti di un terremotato teatro dell’identità, in cui niente è dato per scontato.
Nel 1966 giunge il passaggio a una saggistica pungente, che tesaurizza occasioni narrative, con il notevolissimo L’irrealtà quotidiana, cuore di una riflessione amara e lucida sull’esistenza come specifica forma di inesistenza, in una sintesi spesso di grande incisività, in cui il fantasma del suicidio si agita con kierkegaardiana precisione. Modelli di interpretazione filosofici e psicoanalitici si rincorrono nei giudizi, talvolta straniti, dei recensori, anche se al libro toccherà l’onore del Premio Viareggio per la saggistica.
Manca in questa antologia i Divini mondani (1968), epopea del presenzialismo italico, mirabile macchina celibe linguistica, in cui molto si capisce della passione per il teatro dell’autore (di cui si ricorda la commedia I venditori di Milano, uscita da Einaudi nel 1960) e che prelude alle strutture dialogiche degli ultimi libri. Il libro si propone come una strepitosa scorribanda nei salotti milanesi, tra racconti di vacanze esclusive e amori provvisori, incisi con la nitidezza di un coevo quadro mondano di David Hockney. Queste pagine illustrano un teatro metafisico, in cui va in scena (come accade anche nei titoli seguenti antologizzati) il racconto esclusivo di una difficoltà di relazione con il reale. Nei suoi giovanili studi di specializzazione con Mario Praz, il giovane Ottieri era stato da lui richiesto di tradurre una pièce fondamentale del teatro giacobita, La tragedia dell’ateo di Cyril Tourneur; qui alberga il personaggio tipico di questa produzione: il malcontento, colui che vive in una dimensione diversa della vita, che mal riesce a dare interpretazioni dei segni comuni a quelle degli altri.
Gli ultimi tre libri portano l’analisi e l’autobiografia al centro assoluto del discorso, mentre le terapie si susseguono e il sesso si libera nell’immaginazione. Il ritratto in piedi di Contessa (1975), in cui si parla della nevrosi in termini shakespeariani con un lemma preciso come “distraction”, fatale avocazione da sé, si scioglie nella vivacissima dinamica del Poema osceno (1996), lirica immersione in un’iconografia tremenda e gloriosa, che si struttura per dialoghi dalla risonanza quasi platonica, tra identità che divengono attive risonanze di una drammaturgia del pensiero, nella certezza che al centro resti “il mistero, di nuovo, di nuovo. / Il mistero non si sgomina mai. / Spesso attrae”. Cery (1999) chiude il giro narrando ancora una volta di cliniche e di disintossicazione alcolica, di analisi, di pillole, di momenti di una quotidianità turbata, asservita a quello che genialmente viene chiamato il “plusdolore”, frutto dell’ansia di non essere capiti da chi si ama. Molti hanno individuato una matrice del fare di Ottieri in una dimensione da “pittore materico”, e proprio questa, infine, è la sensazione rileggendo questa quarantennale sequenza di sogni e incubi del vivere, in cui le stesse immagini tornano mutate, cambiando sempre di forma, o spogliandosi, come il famoso albero di Mondrian che da realistico diventava sempre più astratto, sotto la lente di un obiettivo spietato.

Francesco Erbani, Le lettere segrete di Ottieri nella fabbrica di Olivetti, La Repubblica, 06 agosto 2013

Francesco Erbani, Le lettere segrete di Ottieri nella fabbrica di Olivetti, La Repubblica, 06 agosto 2013

Le lettere segrete di Ottieri nella fabbrica di Olivetti. Ottiero e Adriano. Lo scrittore e l’ imprenditore. Un altro nodo – una serie di documenti inediti – arricchisce la trama di un tessuto fra i più pregiati nella storia culturale e non solo culturale del Novecento. Nel 1953 lo scrittore Ottiero Ottieri viene assunto all’ Olivetti, l’ azienda di Ivrea che Adriano ha ereditato dal padre Camillo. Un’ impresa che fa tanti profitti, innova, ma dove si ritiene che il proprio compito sia quello di accrescere il patrimonio complessivo del territorio circostante, in termini di partecipazione democratica e di cultura. Di cultura tecnico-scientifica e umanistica insieme. In quegli uffici lavorano Geno Pampaloni, Paolo Volponi, Giovanni Giudici, Franco Fortini. Ci sono già il Movimento di Comunità e le Edizioni di Comunità (oggi risorte, grazie al nipote di Adriano, Beniamino de’ Liguori). Il nodo che ora si aggiunge sono il diario e gli appunti inediti che Ottieri e, dopo la sua morte nel 2002, la moglie Silvana Mauri e la figlia Maria Pace donarono al Fondo manoscritti di Pavia istituito da Maria Corti e adesso diretto da Maria Antonietta Grignani. Parte di quei testi, per la cura di Anna Antonello e di Claudia Bonsi, compaiono in un numero della rivista Autografo (che Grignani dirige insieme ad Angelo Stella), pubblicata da Interlinea e interamente dedicata all’autore di Donnarumma all’ assalto (1959). Vengono alla luce brani di un diario che in parte Ottieri riscrive e riversa in Linea gotica (1962), ma anche minute di lettere che forse lo scrittore non ha mai spedito (una a Italo Calvino del 1954, per esempio). Ottieri si andrà affermando, fra gli anni Cinquanta e Sessanta, come il campione di una letteratura che guarda al mondo dell’industria e che si affranca da un’ idea di romanzo ancorata all’ ambiente contadino sia peri materiali narrativi, sia per la lingua, sia per un repertorio ideologico intriso di populismo. Dopo la laurea in Lettere e una serie di collaborazioni giornalistiche, Ottieri lascia Roma e va a Milano. «Cerca un lavoro il meno letterario possibile», racconta la figlia Maria Pace nella nota biografica del Meridiano Mondadori dedicato a suo padre. Lo attrae l’ ambiente della fabbrica, della grande fabbrica, non gli basta la mediazione dei partiti della sinistra. Entra alla Mondadori, ma non è soddisfatto. Prova con la Necchi. Nel 1953 conosce Olivetti. È «l’ altro mio padre che mi ha salvato la vita / e l’ arte», scrive in un poema intitolato Il padre, lungamente citato da Maria Pace. «Lo vidi un mattino che correggeva / le sue bozze in uno stanzino. / Egli non era un mecenate, / ma un intellettuale, come quelli / che amava e molto pagava». Del 1953 è il primo documento che qui sotto anticipiamo. Una lettera a Olivetti, chissà se mai spedita, in risposta all’assunzione. Ottieri, che allora ha 29 anni, viene incaricato di selezionare i giovani laureati che fanno domanda per entrare nella fabbrica di Ivrea. È un dirigente dell’ufficio personale. Ma dalla lettera all’ ingegnere si capisce che la sua intenzione è ancora più radicale: vuole avere un «diretto contatto con la vita e la tecnologia dell’ officina vera e propria». È un’ aspirazione che forse resta tale. Dal marzo del 1955 viene trasferito nella nuova fabbrica dell’ Olivetti a Pozzuoli, lo stabilimento progettato da Luigi Cosenza su un’ altura affacciata verso il mare e circondato dai giardini disegnati da Pietro Porcinai. Uno dei tanti edifici, forse il più riuscito, a cui Olivetti affida la simbologia concreta delle sue idee. Ne parla Ottieri in uno dei documenti che pubblichiamo, ma quelle pareti, quei terrazzi e quelle vetrate sono la scena in cui lui ambienta Donnarumma all’ assalto, il romanzo che racconta l’ impatto fra la razionalità industriale e il mondo di contadini e di pescatori meridionali che con quella razionalità devono convivere. È uno dei passaggi cruciali dell’ ideologia olivettiana. Ma Ottieri non può, da scrittore, che cercare il punto di frizione fra quelle due logiche facendone derivare uno dei romanzi che, attestato sulle pendici della letteratura, guarda al panorama di un’ Italia che cambia trascinando però contraddizioni mai curate.

convegno Le linee gotiche di Ottieri, Pavia, 2012

Nel decennale della scomparsa dello scrittore si è tenuto il 18 ottobre 2012 il convegno Le linee gotiche di Ottieri organizzato dal Centro Manoscritti di Pavia.
Accanto a noti critici e studiosi “ottieriani” come Carla Benedetti e Cristina Nesi, sono intervenuti giovani come Mattia Fontana e Claudia Bonsi e Anna Antonello a cui si deve il completamento della schedatura del Fondo Ottieri, conservato presso il Centro Manoscritti, donato nel corso degli anni da Ottieri stesso, quindi dagli eredi.
Un saggio di Anna Modena tratta il rapporto con la moglie, Silvana Mauri, la sposa infinta del Diario di un seduttore passivo.

Gli interventi sono raccolti nel numero monografico di Autografo 49, interlinea edizioni, uscito nell’ottobre 2013. E Silvana appare anche, con Ottiero e Pier Paolo, nell’Archivio della memoria, affidato alla penna di Nico Naldini.
Vi si affianca il lavoro di Fabrizio Di Maio, nel corso della giornata dedicata a La letteratura fuori di sé. Sociologia, ideologia e psicoanalisi nell’esperienza letteraria, in occasione della pubblicazione delle Opere Scelte nei Meridiani Mondadori, il 18 marzo 2010.

UNA IRATA SENSAZIONE DI PEGGIORAMENTO (2002)

UN CASO CLINICO CHE FA TREMARE
di Giuliano Gramigna
(«Corriere della Sera», 23 giugno 2002)

Come la talpa proverbiale (marxiana, shakespeariana?), Ottiero Ottieri è impegnato ostinatamente a
scavare nel suo cumulo di materia psichica: eccone il prodotto più recente, Una irata sensazione di
peggioramento, romanzo pubblicato da Guanda (184 pagine, euro 13,50). In effetti, “scavare” è il
verbo meno adatto a definire la qualità del suo lavoro narrativo, gli effetti sul lettore. Ottieri è il nostro
scrittore contemporaneo che con più perspicacia, anche teorica, e novità abbia maneggiato
letterariamente il tema della nevrosi, riproducendo nel cursus narrativo la qualità autentica
dell’inconscio, la fluidità. Il nevrotico, mi è capitato di dire, è greve, lamentoso, monotono; la nevrosi,
o se si vuole l’inconscio in atto, fluida, inventiva, mai identica a se stessa.
Così, anche questa Irata sensazione di peggioramento, come altri libri di Ottieri, da Contessa, a La
psicoterapeuta bellissima, a Cery è il referto di un’avventura analitica, ma trasforma la propria
ripetitività fattuale, clinica nell’invenzione di un ritmo strutturale, insomma letterario. Si licet, se Freud
ha preso in prestito dalla letteratura la forma romanzesca del caso, Ottieri –il paragone non disgrada per
eccesso– assume necessariamente il “caso clinico” come macrocellula del proprio narrare.
“Io sono molto più famoso come nevrotico che come letterato” annota Ottieri nel suo libro,
naturalmente prendendosi gioco del lettore prima che di sé: verità apparente che maschera o svela la
realtà sostanziale, il rapporto particolare fra materia autobiografica e storia narrata: “io sono quel lui
che si stravolge e soffre nelle pagine” – e che qui sarà la “terza persona” Pietro Mura, scrittore in
pendolarismo terapeutico fra Milano e Torino, per via di una depressione, o forse paranoia, speziata da
un dongiovannismo fantastico e frenetico, che lo spinge verso l’assistenza dell’analista, Caterina, e la
fidanzata di costui, Oliva, seducente poetessa (in erba); ma meglio sarebbe dire verso tutte le donne di
tv e pubblicità.
Non conta fare un’analisi clinica circostanziata del caso Mura, piuttosto proiettare il caso sullo schermo
del romanzo (Ottieri richiama a sé e il lettore alla romanzocentrica disciplina” quando la storia
minaccia di sfuggirgli di mano). “Ma come narrare fatti, azioni per di più con dialoghi brillantissimi,
sorprendenti, esplosivi – per noi che siamo così attaccati alle Idee?” Il narratore si duplica, anzi triplica,
in se stesso, in Pietro Mura e in chi deve ascoltare, seguire sotto la macchina romanzesca il flusso
dell’inconscio. Perché, malgrado i felici intrecci fra fasi patologiche, follie erotiche, polemiche
politiche spietate nell’ultimo terzo del libro, come peraltro tipicamente in altre opere di Ottieri, è quello
che si muove, che corre via, a designare il vero soggetto di Una irata sensazione di peggioramento.
Ho scritto al principio che “scavare” è verbo troppo pesante, prevaricatore: non si scava nell’inconscio,
come la talpa nel mucchio di terriccio. Trovo incidentalmente in una pagina del libro due verbi più
confacenti al movimento, al fluire via – carattere compositivo fondamentale di questo Ottieri:
“tremare”, “tremolare” e credo indichino il modo con il quale il narratore presta orecchio al “testo
inconscio” che fluisce sotto (dentro) il racconto per dire così evidente, nel quale Ottieri poi scaraventa
anche il suo gusto del catastrofismo (che sarebbe un altro indizio da convocare utilmente nel discorso
critico su questa narrativa).
Il lettore appena attento non mancherà di notare che il romanzo non si chiude. Non voglio
semplicemente dire che non conclude, a livello di aneddoto romanzesco, di contenuti, la vicenda di
Pietro, di Caterina, di Oliva e tanto meno la questione della “guarigione” (o “peggioramento”) del
protagonista. Voglio dire che l’ultima pagina lascia un buco a livello proprio struttural-linguistico.
Non si tratta di una mera astuzia letteraria, una variante del gidiano “potrebbe continuare”. Quel buco,
quel vuoto sarà una proiezione, nel progetto letterario, della fin troppo famosa degnità analitica circa
l’analisi “interminabile”? Ma le agudezas di Ottieri narratore (di Ottieri nevrotico) sono probabilmente
più acuminate. Il “romanzocentrismo”, la forma ad anello del romanzo incorpora, comprende anche
questa apertura, attraverso cui qualcosa scappa via. Ottieri non offre soddisfazioni troppo facili ai suoi
lettori.

OTTIERI, L’ULTIMO ASSALTO
di Giulio Ferroni
(«l’Unità », 26 luglio 2002)

Ho appena finito di leggere l’ultimo libro di Ottiero Ottieri, Una irata sensazione di peggioramento
(Guanda, pagine 184) e mi appresto a scriverne una recensione per l’Unità, quando mi
giunge fulminea, assurda, casuale, la notizia della morte dell’autore, che della morte parla spesso nel
libro e che tra l’altro già nel 1997 aveva pubblicato un libro intitolato De Morte: fulminea, assurda, mi
prende davvero una sensazione di radicale peggioramento, con lo sgomento di trovarmi di fronte ad
una combinazione micidiale, ad uno di quegli incroci del destino tanto rari quanto ineluttabili, che
rivelano nel modo più sottile e lacerante la crucialità di una lettura nel suo stesso svolgersi, il suo
metterci in causa nel nostro stesso essere nel mondo, in una determinatissima situazione.
Questo libro di Ottieri è del resto uno di quelli che suscitano immediatamente una spinta a riconoscere
una situazione, ad immergersi in un dialogo: che scatenano un’aspirazione allo scambio, che fanno
direttamente percepire la presenza di un autore che parla, che respira e vive, che nella sofferenza
afferma una volontà di vita, cerca e difende un valore per sé e per il mondo. Tanto più raggelante per
chi l’ha appena letto è allora l’immediata notizia della sua morte: si sente troncata per una tremenda
forza esterna quella spinta che aveva guidato l’atto della lettura; e la lettura stessa appena conclusa
appare mutata di senso. Si sente di non poterne più parlare nel modo e nei termini in cui ci si
apprestava a farlo. Le parole del titolo (Una irata sensazione di peggioramento) diventano più
perentorie: l’ira e la rabbia che il libro contiene si riversano su noi che restiamo e siamo trascinati come
da uno sprofondare della realtà e della nostra capacità di comprenderla, dalla sensazione di un
definitivo venir meno dei mezzi stessi per reagire al peggioramento.
Certo, a ripensare all’intera esperienza di Ottieri, alla sua attività di intellettuale e scrittore, al suo anche
doloroso percorso umano, sentiamo di riconoscere il diagramma di una razionalità sconfitta: a un certo
punto della sua vita egli ha condiviso quell’orizzonte “olivettiano” che è stato essenziale per tanti nostri
importanti scrittori (da Volponi a Fortini a Giudici), incontrandosi con un progetto “positivo” di
società, nel tentativo di dirigere il nostro paese, tra anni ’50 e ’60, verso un modello industriale
moderno, razionale, aperto, problematico. Di questo progetto, della situazione in cui si inseriva, degli
acquisti e delle contraddizioni che essa comportava, delle modificazioni che ne conseguivano nel
tessuto sociale, civile e antropologico, egli ha dato una rappresentazione davvero essenziale, intensa,
immaginosa, aggressivamente critica, in alcune delle sue prime opere (memorabili, tra tutte,
Donnarumma all’assalto, 1959, e La linea gotica, 1963), in cui l’esigenza di una razionalità
“progressiva” si scontrava appunto con l’emergere di un sotterraneo malessere, con la verifica
dell’alterarsi del colore e del senso stesso della realtà, con l’avvertimento di un “disumanizzarsi” e
derealizzarsi del mondo, a cui invano reagiva la vitalità, l’energia, la forza autentica di un universo
“popolare” che Ottieri sentiva insieme estraneo e vicino. Ma sullo sguardo sulle contraddizioni dello
“sviluppo” industriale del nostro paese (sguardo che sarebbe interessante confrontare con quello
diverso ma forse convergente di Paolo Volponi) si è sovrapposta assai presto l’esperienza della
sofferenza psichica, che ha condotto Ottieri ad interrogare in modo più violento il volto sempre più
sfuggente della realtà esterna e nello stesso tempo ha dato luogo ad una debordante volontà espressiva,
con un’insistenza ossessiva a cui egli stesso ha affibbiato giocosamente il termine di “graforrea”.
Di questa invadente e scatenata volontà espressiva Una irata sensazione di peggioramento costituisce
come il punto di arrivo, la sintesi ora definitiva, l’accelerazione esaltata, disperata e trionfante nella
ricerca di un’esibizione di sé insieme dolente ed ironica, riservata ed impudica, delicata e aggressiva,
mirante a sconvolgere gli equilibri del mondo visto e vissuto, a scagliarsi contro l’oscena
preponderanza della realtà apparentemente “normale”, contro le sue incorreggibili storture.
Quest’ultimo libro viene dopo una fitta serie di altri libri di Ottieri rivolti a dar voce al personale
malessere psichico e a trasformarlo in occasione di invenzione, di gioco, di manipolazione infinita, di
contatto con le cose e con le persone: libri-pastiche, romanzi poemi e poemetti, il cui culmine è forse
costituito da quel libro totale, zibaldone, menippea interminabile divagazione grottesca e carnevalesca
che è Il poema osceno (1996). Attraverso la tematica della malattia, parlando più direttamente di sé,
Ottieri è venuto a toccare visceralmente la malattia del paese Italia e del mondo l’insieme della sua
opera si rivela allora come un entretien infini, un continente dai mille tentacoli, che registra la malattia
dell’io e quella del mondo, dell’individuo che si muove tra paesaggi urbani, reticoli stradali, luoghi
separati di soggiorno e di cura, cercando l’impossibile salute propria del mondo: e in tanti segni,
imponenti e meschini, tragici e ridicoli, nella malattia propria scopre il volto rovesciato di ciò che è
diventato un paese dominato, dopo tante sconfitte, speranze, dai modelli televisivi e pubblicitari
insidiato da una deformazione che appare condensata nell’aria, che corrode le sue apparenze più
evanescenti ed effimere, come la sua più consistente materia fisica. Ma ho parlato anche di gioco:
Ottieri non si è posto mai come un assorto sacerdote della sofferenza: ha affrontato la malattia e la
scrittura della malattia con un ironico e autoironico spirito beffardo, estraendone paradossi e
combinazioni abnormi; ha liquidato ogni patetismo del dolore, ricavando da quella sua ossessione
scrittoria delle scaglie di desiderio, irresistibili e disinvolte combinazioni erotiche, in un divagante
“dongiovannismo” letterario (e recitando la parte di un don Giovanni eternamente malato, eternamente
sconfitto ed eternamente trionfante: nei suoi libri ultimi lo stesso mondo delle istituzioni mediche e
cliniche è stato investito dall’avvolgente respiro di un eros, che il malato scambia in varia misura con
dottoresse, infermieri, inservienti, degenti). Una irata sensazione di peggioramento narra, in terza
persona, la vicenda di un personaggio in gran parte autobiografico, Pietro Mura, scrittore alcolista con
gravi crisi depressive, romano che abita a Milano, che all’inizio degli anni ’90 si reca periodicamente a
Torino per farsi curare dal dottor Carlo Migliorini, uno psicanalista che gli somministra una sostanza, il
GHB, “l’estasi liquida”, che lo allontana provvisoriamente dall’alcol, ma crea una nuova forma di
dipendenza, a cui si lega il continuo oscillare del malato tra entusiasmo e depressione, ma sempre più
cadendo in quella sensazione di peggioramento che da titolo al libro (peggioramento a cui ironicamente
si oppone il nome stesso del medico, Migliorini). In un sottile gioco di stacchi e di sovrapposizioni tra
la voce del narratore (chi scrive) e quella del personaggio (che spesso vengono a confondersi in un noi
che ingloba in sé anche lettore possibile), il protagonista, “eterno moribondo” che “teneva molto alla
vitalità e alla vita”, si sposta continuamente tra Milano e Torino: e in tutto il corso del romanzo Milano
rappresenta la dissoluzione di ogni razionalità, il trionfo dell’Italia più cieca ed egoista, insieme
sguaiata e plastificata, sotto il dominio di una finzione che ha inquinato anche il colore del suo cielo;
ecco cosa è diventato quel cielo già manzoniano: “Non esiste in nessuna parte del mondo un cielo finto
come quello di Milano. I sindaci che si susseguono lo tinteggiano con scarti di vernici che si fanno
mandare a barili da una fabbrica puzzolente di porto Marghera, che inquina a morte tutta la favolosa
Laguna…”. La Torino distesa e razionale, degli Einaudi e degli Agnelli, promette oasi di pace e
distensione, non solo per i colloqui – duello con Migliorini, ma anche per la relazione che ben presto
Pietro imbastisce con l’assistente del medico, la giovane dottoressa Caterina. Ma nel racconto al
succedersi dei viaggi tra Milano e Torino e al sovrapporsi e scontrarsi delle due città si intreccia un
movimento del tempo: si va e si viene dall’inizio degli anni ’90 a quello del nuovo millennio, con le
varie fasi di vicende pubbliche che hanno portato al trionfo di un ben noto cavaliere e di un mondo
verso cui Pietro (e il narratore) manifestano più volte il loro odio. Questo odio dà luogo ad uno
sprezzante sarcasmo, a rancorosi e pungenti giochi di parole, ad accorate denunce della condizione del
nostro paese: e ce n’è per tutti, anche per molta sinistra, da parte di chi qui si definisce “un gauchista e
un gaddista” (ma tra tutti gli strali spiccano quelli rivolti contro Bossi e Cossiga, con uscite travolgenti
ed esilaranti). Nell’affollarsi della realtà virtuale, nel trionfo indecente del pensiero unico televisivo,
per l’impenitente malato di “casanovismo oculare o dongiovannismo virtuale” resiste solo l’attrazione
delle apparizioni sul video di variegate bellezze femminili: immagini di inappagamento, di eros
inarrivabile, di giovinezza perduta, e insieme di degradazione, di volgarità, di insipida banalità. Pietro è
del resto involto in un groviglio di paradossi e contraddizioni, e lo sa benissimo: vorrebbe invadere il
mondo, amarlo e distruggerlo, amare tutte le donne e cercare la giustizia, l’autenticità, la solidarietà tra
gli esseri che meritano il nome di “umani”. Odio assoluto e amore assoluto: con una interrogazione
continua, più o meno esplicita, sul senso stesso della cura analitica, sulle interferenze tra la cura e i
desideri, tra il modello “positivo” e “migliorativo” proposto dal medico e cercato dal paziente, e il
consumarsi della vita individuale (lo spettro della follia e quello della morte, che più volte insidiano il
personaggio), il peggiorare dell’universo sociale e politico. Sospeso tra peggioramento e rimedio (altra
parola che si affaccia significativamente nel libro), Ottieri testimonia qui con vigore (e con tratti di
corrosione linguistica che fanno pensare ad un Céline quasi disteso, più cordiale, svagato e intenerito)
una profonda passione della realtà e della vita, nella cocciuta (aggettivo suo) speranza di un rimedio
non falso, non illusorio, nella frana dell’esistenza e della realtà. Peccato davvero non aver potuto dirgli
quanto essenziale e quanto importante sia questo libro e tutta la sua opera per chi al peggioramento
tenta comunque di resistere.

CERY (1999)

SULLE VETTE DELLA MONTAGNA INCANTATA. LA MALATTIA COME LIBERTÀ.
L’ULTIMO ROMANZO DI OTTIERO OTTIERI
di Enzo Siciliano
(«la Repubblica–Cultura», 25 agosto 1999)

La storia è ambientata in una clinica svizzera per alcolisti nevrotici.
Il luogo si chiama “Cery” ed è il titolo del libro che un po’ rimanda a certe atmosfere di Mann.
Ogni malato ha la propria “montagna incantata”. Molte “montagne incantate” si somigliano, ma ogni
malato è malato a modo suo. Ottiero Ottieri della malattia ha fatto il tema della propria esistenza di
scrittore: ma ogni suo libro di quel tema non è una replica, quanto una interrogazione che ripropone il
perché una malattia, o quella malattia, possa vivere sulla scena del mondo.
La “montagna incantata” di cui Ottieri ci parla oggi è una clinica svizzera per alcolisti nevrotici. Fra
quelle quinte il malato –un protagonista di romanzo che dice “io”– lotta per affermare la propria
indipendenza sia dal male sia dagli stessi medici che lo curano. Essere malato diventa una
rivendicazione di libertà (di indifferenza?) verso la terapia che dovrebbe curare e guarire.
In Cery (Longanesi, pagg. 150, Lire 22.000) –titolo del libro è appunto il luogo dove sorge la clinica in
questione– il malato, stregato da un alcolismo irrefrenabile, è uno scrittore che, contro ogni strategia di
cura, mette in atto (infantilmente?) una controstrategia di pervicace rivolta.
Mille sotterfugi per accaparrarsi un po’ di whisky, altrettanti stratagemmi per soddisfare un infiammato
erotismo che si risolve in una frenetica verbalizzazione scritta.
“In venti anni, o trenta, attraverso mille cocktail, cene, dopocena, esibizioni e appostamenti
pazientissimi in località famose di mare e montagna, con fatica, sopportazione infinita, attese snervanti
per rimanere ultimo, chiudere ogni ruscelletto d’occasioni nella notte, ho cercato di accostare la
bellezza, di conquistare ogni notte una bella, una bellissima, una sventola. Non ci riuscii mai. Ci davo
dentro ma ci stavo di lato. Non ero mondano, né snob. Frequentavo i luoghi dove più frequenti erano le
belle ed erano per antonomasia i luoghi della mondanità in cui abbondavano i principi e i baroni. Non
fui “mondano”, mai. Sono stato sempre un intellettuale, la mia pazzia fu sempre veicolata sul sesso.
L’alcol mi sosteneva nella faticosissima impresa di Tantalo. Un frutto non lo colsi mai, in quel paradiso
infernale dove avrei dovuto divertirmi. Non mi divertii mai, sempre ossessionato e teso. Non ero un
mondano, ero un semplice maniaco”.
Questa lunga lassa va letta come la proiezione fantastica della forma di una malattia che coinvolge
procédées sociali, mondani, e che divora un individuo mosso a far di tutto per salvare nella propria
mente la distanza naturale dall’oggetto che ogni atto conoscitivo comporta.
Lo scrittore, il protagonista di Cery, sta al mondo per conoscerlo, per sperimentarne il peso, la
consistenza attraverso la vita, la propria anzitutto. Dice: “Scrivo unicamente la realtà, né di ricerca, né
di best seller”.
Niente può esser detto più esplicitamente: “Scrivo unicamente realtà”.
Bene. Questo scrivere realtà (nel romanzo, le lettere di corteggiamento amoroso ed erotico) mostra che
la malattia insorge proprio perché appare impossibile scrivere se non si vive in modo pieno ciò che si
vuole scrivere. Ma questo produce poi un paradosso. La narrazione procede secondo una propria
consecutio. E la vita, come procede? Se si scrive, rispetto alla vita si vive sempre “di lato”. Questa
condizione ammala l’anima, fosse pure lo scrivere, il raccontare una salvezza.
Confondersi con l’esistente, renderlo assoluto, pensare che le applicazioni tecniche lo esauriscano per
intero, svuota l’individuo di se stesso, ha sostenuto Heidegger. L’essere invece è “laggiù”; per sfuggire
a una pania simile bisogna spiare quella lontananza, diventarne consapevoli. Abitare una “montagna
incantata”, una clinica, può aiutare: ma anche questo non esaurisce un bel niente.
È in atto la cura? “Le iniezioni venivano annullate dalle idee, dalle visioni del parterre, da donne
magnifiche che popolavano l’Hotel, da principi causeur e charmeur”. Ma, “ogni immaginazione era un
colpo di martello sul cervello, cielo grigio e buio. Ad ogni colpo saltavo, rimbalzavo e non concepivo
che il martello si affievolisse o cessasse. Come un saltimbanco facevo salti sul lenzuolo bianco, teso,
deserto. Le molle scattavano a ripetizione infinita”. Conoscere capire, capire conoscere: è l’ossessione
della narrativa di Ottieri, di tutta la sua letteratura. Le sue radici, robuste, sono in quella magnifica
stagione del nostro romanzo in cui le ragioni dello stile si sposarono al bisogno prepotente di una
ragione che non fosse più “d’arte” e autoreferenziale, ma storica e conoscitiva, una fede che investisse
di sé una società, fosse pure una fede nichilista, ma dove un concetto della vita agisse in modo
dirompente, assoluto.
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Questo vollero, ad esempio, Moravia o Gadda. Lo vollero anche poeti: Montale o Penna, e il caro, vivo
Attilio Bertolucci. Di quella stagione Ottieri risuscita di libro in libro il lucido volere. Non ci viene a
dire, per esempio, che la storia è un incubo da cui vorrebbe essere libero. Ci mette sotto gli occhi altra
lucidità: la propria disperazione, i crudo della propria mania. “La mattina mi svegliavo presto in preda
ad un orror panico. Ero ancora dentro ad un lenzuolo che dava sul grigio e ad una cotenna sporca.
Chiamavo, gridando, muto, atterrito, mio padre lontano, lui che per primo si atterrò davanti al sorgere
tardivo e al dilagare maturo e franco del mio vizio. Non capiva: non capiva nulla dei miei meandri.
Non avevo altro pensiero che correre al bar”.
La viziosa solitudine in cui si sviluppa un così peculiare scrutinio di se stesso – di se stesso scrittore
intellettuale – cerca parole che siano realtà. Il lettore di Cery può chiedersi di quanti apporti
autobiografici si nutra il racconto. Non ci sono finzioni: il libro può essere letto anche come una
confessione a pelle, in presa diretta. Sarebbe sbagliato, però, leggerlo solo per questo verso.
Non c’è fiction senza invenzione, “senza svolte, risvolti e colpi di scena”. Eppure, anche qui, come
sempre, Ottieri non riesce a sottrarsi, pur scrivendo realtà, “alla caccia infuriata di quella felicità dello
scrivere, e dello stile, dietro cui salta agli occhi la felicità del testo”.
Un’accesa fantasia critica che lavora sul lessico, nelle pieghe della sintassi, che incide talvolta su eventi
di cronaca, anche di cronaca politica, e imbeve di sarcasmo gerghi e volti brucianti di concretezza,
esprime naturalmente la possibilità di una distanza, di un altrove, che con forza spietata ogni narratore
chiede a se stesso. L’esperienza sulla “montagna incantata” è dunque fallimentare dal punto di vista
clinico, il malato torna a casa pari pari come quando ne era uscito, la depressione, la malattia
dell’anima ha come sole guarigione la consapevolezza di sé. Per lo scrittore, quell’esperienza è una
rinnovata riprova che il guadagno della parola, il guadagno espressivo e conoscitivo dello stile, costa
un prezzo illimitato di pena. Scrivere è una coazione a vivere. Ogni scrittore ha da salire sulla propria
“montagna”: ogni scrittore è malato a modo suo. Ciascuno, cioè, non può che vivere la propria felicità e
la propria infelicità, se chiede a se stesso, e non può far diverso, di essere. Dunque, che cosa passa di
storia o di oggettività residuale in Cery?
C’è nel libro una scena molto significativa, raccontata con l’estro insidioso, con l’occhiatura ironica
che è di Ottieri fin da Donnarumma all’assalto. È il ricordo di una convention letteraria, una
premiazione. Parlano bionde e ossute signore che fingono d’aver letto libri, critici privi di incertezze,
pance competenti più che intelligenze competenti, eccetera.
Ricopio alcune battute di questa scena: “Ma lei non è matto” disse Aurora. “Non sono matto perché
sono alcolizzato. Curo la follia con l’alcol. È a nasconderlo che mi vergogno”. “La questione
meridionale tu la nomini, non la consideri letterariamente impura” disse il critico. “Non è impura
perché è vera”. “La verità non esiste” commentò il solito critico letterario. “Esiste, esiste” feci, bevendo
un bicchiere tumultuoso. Ahi! Pensai. Questo è il consueto delirio iperfisico. Avevano finito di cenare.
Avrei dovuto muovermi, incontrare letterati, giovinetti, promesse nevrotiche o vecchi pazzi falliti. Ma
io avevo il sedere incollato alla sedia, per paura. Mi toccava sopportare il segreto della disperazione
privata in luogo pubblico”.
Di una società che vive in soggezione delle proprie parole, che trasforma i concetti in smerciabili
luoghi comuni, che vegeta e non vive, incapace persino di spiumacciare i cuscini su cui si addormenta
la sera, Ottieri lascia parlare l’unica verità possibile, la fatua realtà dell’apparire, ne rivela il trucco, ne
isola l’eco di demenza.
Un moralista? Anche. In più di un’occasione, scrivendo di lui, della sua poesia, ho fatto ricorso a
Parini, all’estro satirico dell’autore del Giorno. È della nostra “Notte” il buio di storia dove viviamo,
che Ottieri seziona la sinistra, obliqua comicità: la oggettiva, la stampa indelebile nelle sue parole.

OTTIERI PROVOCA I RICCHI DA UNA CLINICA SVIZZERA
di Giuseppe Bonura
(«L’Avvenire, 11 settembre 1999»)

Narrativa italiana – “Cery”, sberleffo alla società pasciuta. Di recente si è sviluppata una polemica
interessante. Come mai in Italia non c’è una collana di classici come la “Pléiade” francese? Risposta:
perché l’Italia non ha la tradizione della Francia. Parigi è sempre stata il centro del mondo, in tutti i
sensi. In Italia ci sono mille centri, spesso in conflitto tra loro, e così una collana omogenea come la
“Pléiade” non si può fare. Da noi vige l’anarchia delle scelte individuali, e a nostro avviso è un bene
per la creatività. Ma il nostro discorso mirava ad altro. Mentre il secolo sta per andarsene, è ovvio che
si tenti di sistemarci dentro i classici letterari: maggiori, medi e minori. Qualcuno lamenta, per
esempio, che Volponi non abbia ancora un posto tra i classici del Novecento. È una lamentela
legittima. Ma legittima ci sembra anche una nostra privata lamentela, che riguarda Ottiero Ottieri.
Come mai non c’è Ottieri in qualche collana di classici novecenteschi? Mistero.
Forse è lo stesso Ottieri che non vuole diventare un classico. Forse gli sa di passato, di ingessato, di
marmoreo.
Prendiamo il suo recente, bellissimo romanzo: Cery. Nella bibliografia della terza di copertina manca il
titolo del suo romanzo più impressionante: Campo di concentrazione. È una scelta voluta o una
distrazione? Oppure un colpo masochistico? Propendiamo per questa ipotesi. Ottieri è uno scrittore che
non si cura dei posteri, anche se i posteri (fra cent’anni) lo leggeranno per capire il presente. Ottieri è
un masochista imperterrito. Ed è tante altre cose. È uno scrittore che pensa. È un pensatore che scrive.
Da tanto tempo combatte con l’ansia quotidiana, la nevrosi, l’angoscia, il dolore, la sofferenza.
Intendiamoci, il suo copro deve essere una macchina potente e perfetta se resiste a tutte le batoste che
la psiche gli ha inflitto. Il personaggio che abita tutti i suoi romanzi è un giovin-vecchio signore
moderno, amante dell’alcol e della bellezza muliebre, desideroso di conversazioni alate ma anche
capace di penetranti e urticanti giudizi sulla società capitalistica, alla quale del resto egli appartiene.
Questo giovin-vecchio signore moderno ha una moglie che ama, figli e amicizie, ma preferisce passare
quasi tutto il suo tempo in lussuose cliniche per alcolisti, per disintossicarsi e innamorarsi. La
dipsomania (avidità di bere alcol) è il tema fondamentale dei romanzi di Ottieri. Ma sarebbe un tema
banale se intorno non si aggirassero altri temi. (In una recensione prolissa e opaca di Enzo Siciliano
non ne sono stati enumerati nemmeno uno). L’alcolista che parla nei romanzi di Ottieri è un uomo che
vuole essere la cattiva coscienza della società pasciuta e “sana”. Ma vuole esserlo in modo tragicomico.
Sta qui la singolarità della prosa di Ottieri. Il dolore indicibile si tramuta in euforia della scrittura e dei
comportamenti, in un mozartiano sberleffo.
In Cery, in un’asettica e organizzatissima clinica svizzera, il protagonista è in cura per “non”
disintossicarsi. È una sorta di Charlot ebbro che cerca di sfuggire a una normalità odiosa e oppressiva.
Scrive lettere d’amore alle sue vicine di camera, lettere che peraltro non spedisce, e tanto meno fa
recapitare. Ogni tanto viaggia, in città o nel passato, sempre a scopo terapeutico. La tragicommedia del
protagonista è che sa che ogni tentativo di guarigione è inutile. Ci saranno soltanto tregue, intervalli
brevissimi di serenità. Poi si ricade nell’abisso. Ma intanto, con l’esibizione “naturale” della sua
sofferenza, mette in crisi i cosiddetti sani, che sopportano la sofferenza altrui solo se questi sono
rassegnati e non ribelli. Una volta ci è capitato di dire che Ottieri è una sorta di Céline dei ricchi, e qui
lo ripetiamo. La sua prosa è fatta di sincopi, che divertono e fanno angosciosamente pensare.

UNA TRAGEDIA MILANESE (1998)

METTE PER ISCRITTO IL VUOTO CHE CI DOMINA – “UNA TRAGEDIA MILANESE” L’ULTIMO ROMANZO DELLO SCRITTORE INDAGA IL BUIO MORALE DI UNA VITA PRIVA DI IDEALI
di Ermanno Paccagnini
(«Il Sole-24 ore», 29 marzo 1998)

Licenziato due anni or sono l’opus magnum, ossia le 500 pagine del Poema osceno, Ottieri torna alla
frammentarietà e alla trasversalità stilistica, destreggiandosi tra attraversamento sarcastico-onirico della
realtà e forte urgenza dell’Io. Si riscinde insomma in filoni l’istanza riassuntivamente totalizzante nel
Poema. Ed ecco allora lo sguardo su un milieu sociale fortemente semplificato e tipicizzato, in modo da
maggiormente marcare la rappresentazione: come interesse insomma per l’altro da sé, per l’ambiente
esterno al proprio Io e per una istanza storica e addirittura cronachistica come in questa Tragedia
milanese che, per più aspetti, fa correre il pensiero di Divini mondani, però passati al crogiuolo del
Poema. Oppure, ed è altro aspetto, ecco l’Io introspettivo e interrogativo che si aggira nelle proprie
nevrosi, ma pure nelle riflessioni su momenti o aspetti che per una qualche ragione gli implodono:
come nel De morte dell’aprile 1997, sin dal titolo ricollegantesi al Poema osceno (ne era protagonista
lo scrittore Pietro Muojo) e cadenzato sul dialogo ossessivo con l’“inguaribile male”, dato che “la vita
si celebra sulle sponde della morte”.
Il tutto però non si traduce in semplice bipolarizzazione espressiva, perché anzi in tal senso la scrittura
di Ottieri tende piuttosto a muoversi liberamente in varie soluzioni, ora poematiche e ora da dialogo
pseudofilosofico, ora romanzesche e ora invece di “saggio-romanzo”. Come appunto col De morte,
suddiviso tra una prima parte più riflessiva su morte, peccato, religione, in una tensione tra
accostamento e rimozione di un più deciso affondamento nei problemi della metafisica, e una seconda
con disposizione più propriamente narrativa e dialogico-narrativa. E come con Una tragedia milanese,
che invece opta per una soluzione più ampiamente narrativa, anche se depositata in una struttura
marcatamente dialogica che fa piuttosto pensare a un succedersi di dialoghi inframmezzati da
didascalie: su personaggi, ambienti, situazioni; in cui insomma “tragedia” non viene a indicare non solo
tono e contenuto, ma pure un modo espressivo. Didascalie, va aggiunto, dalla doppia valenza: perché se
talora in esse vale lo sguardo esterno dell’autore, per la maggior parte risultano poi osmotiche ai
personaggi, nel senso di didascalie stilate dall’interno della realtà descritta. Che è la realtà della totale
assenza di senso, vissuta inconsciamente: di un parlare continuo che si traduce in insensato flatus vocis:
in sonorità espresse senza la piena coscienza del loro contenuto, e anzi spesso costruite sull’universo
delle frasi fatte, di provenienza non importa quale (cito a caso da tre diverse tipologie “culturali”: “Me
ne vado laggiù al buio, oltre la siepe”; “Nella malinconia è compresa l’angoscia, quella che somiglia al
marchio rovente di Rovagnati Granbiscotto”; “Senta a destra uno squillo di tromba”; mentre il “come
moderni colombi dal disio chiamati” è da didascalia ironica dell’autore).
La tragedia milanese è infatti un universo di vuoto. Vuotezza di idee e di senso, di atti (anche nel sesso
sublimato o sono eiaculatori precoci) e di parole, peranco anche mal conosciute, ove la maggior
curiosità, stante il segreto della pronuncia, finisce per essere costituita da conversazioni su telefonini.
Tragedia milanese però solo per ambientazione, per via che al centro (in clinica, nella vacanziera villa
in Sardegna o nella “buia e grande casa”) sta Antonio, famoso chirurgo estetico un po’ (tanto)
rincoglionito quanto i personaggi che gli ronzano attorno (play-boy disfatti e logorroici uomini
d’affari), colto in fin di vita dalla coscienza, e dal terrore, di tale vuoto e del suo “buio morale”. La
conseguenza è un universo rappresentato con toni fortemente irritanti e scostanti: perché ciò in cui il
lettore si trova immerso è un universo di parole senza soluzione di continuità su cui i personaggimarionette
fortemente caricati, volutamente caricaturizzati, si appoggiano insensatamente. E da questo
discende pure la stessa struttura del racconto, necessitato a pigiare sul linguaggio e la pronuncia dalla
assenza di interiorità e di psicologie dei protagonisti. Tanto evanescenti e impalpabili, da non saper
cogliere neppure il passare loro accanto di una realtà concreta come la morte.

IL ROMANZO
di Angelo Guglielmi
(«l’Espresso , 14 maggio 1998»)

Milano da odiare Ottiero Ottieri denuncia il libro (e le sue motivazioni) fin dal titolo: “Una tragedia
milanese”. Dunque c’è Milano, “una città concava piena di edifici grigi, priva di paesaggio, di fiume, di
idee”, e c’è la tragedia, quel qualcosa di sinistro che la città esibisce e in cui si esalta. Ed è in questo
autocompiacimento senza rimorso che si accende la furia dell’autore. Milano è una città che possiede
uno straordinario potenziale di energie tuttavia tutto speso a favore della sua degradazione, investito in
irresponsabilità civile e telefonini, in spreco e ottusità morale, ignavia e indifferenza, sesso senza amore
e chiacchiere vacue. Su questa invettiva (che tale è nel cuore di Ottieri) l’autore, se pure in forma di
scrittura narrativa, monta una pièce: mette in scena una serie di quadri in cui rappresenta quella
tragedia. Infatti “Una tragedia milanese” non è propriamente un romanzo: è piuttosto un palcoscenico
su cui alcuni attori, convenzionalmente caratterizzati, si esibiscono in ruoli rigorosamente assegnati.
C’è il grande chirurgo estetico, impegnato a creare bellezze inesistenti e al suo fianco un’amante
diciottenne e una moglie assente; e ci sono un paio di play boy con un corteo di fidanzate e amanti che
intanto possono coesistere (e interscambiarsi) in quanto incapaci di vivere una qualsiasi identità. Tra i
personaggi in scena si sviluppa un dialogo fitto, tanto più roboante quanto più vuoto, che ogni volta si
avventura in riflessioni altre tanto più si fa chiacchiericcio.
Ma ogni pièce vuole una conclusione. E Ottieri non trova di meglio che far impazzire il chirurgo che
nella follia trova la saggezza, trova lo sdegno contro i tanti Pacini Battaglia assunti a simbolo della
città, trova la forza di ribellarsi e urlare: “Che cosa è la vita se ha come unico scopo arricchire e per
arricchire imbrogliare? È più facile capire il cervello delle iene e dei leoni nella savana che queste
scatole nere, false, questi imbrogli continui”.
Non vi è dubbio che un’intensa passione morale attraversa questo libro. Una passione che l’autore ci
chiama a condividere. E forse più che una passione si tratta di una nevrosi (di un disagio incontenibile)
che si accende in Ottieri di fronte alla scena di degradazione che ha di fronte e che infuoca e brucia le
parole (di quel disagio) sottraendole al pericolo dell’espressione retorica e, per contro, conservandole a
una asciutta velenosità. Forse qui e lì ci augureremmo che il fuoco fosse più distruttivo: ma comunque
alte sono le fiamme che scottano.