POSSONO GUARDARE LA MORTE GLI OCCHI DELLA VITA?
di Giovanni Giudici
(«l’Unità », 21 maggio 1997 – Il Salone del libro)
A ognuno il suo Anno Mille. A noi toccherà il Duemila che, nella presente cultura laico-scientistica,
non dovrebbe dare luogo a quei fenomeni di panico collettivo e, insieme, di mistico fervore che
precedettero la scadenza del precedente Millennio. In compenso si riapre il discorso su un tema che da
sempre ha sollecitato la riflessione di tutte le culture umaniste in ogni fase della loro storia: se sia, cioè,
proprio da escludere la possibilità che, dopo la morte, un’altra vita ci attende (alla questione è dedicato
il Salone del Libro che si apre domani a Torino). A dispetto di ogni ricorrente velleità suicida, l’homo
sapiens non si rassegna facilmente all’idea di una morte oltre la quale ci sia proprio quell’assoluto
Nulla, che pur tanto seduce i filosofi come Sergio Givone e gli studiosi come Carlo Ossola (adesso
Curatore di una preziosa raccolta di “Antiche memorie del nulla” per le Edizioni di Storia e
Letteratura).
Ogni religione ansiosa di proseliti ha cercato, in effetti, di persuaderci del contrario: della “seconda
vita” che, nell’ortodossia cattolica, inizierebbe appunto dalla “morte corporale” (da interpretare, per i
“Giusti”, come evento gaudioso) ai vari “paradisi” ebraico-cristiano, islamico, induista, buddhista che
dovrebbero ripagarci delle acerbità di questo mondo. Non tutti i “paradisi” sono uguali: all’austera
letizia intellettuale di alcuni (“non è un posto, ma una condizione” si dice giustamente del paradiso
cristiano) fa riscontro la promessa materialistico-edonistica di altri paradisi.
L’uomo di oggi vive almeno una decina di anni in più rispetto ai suoi genitori e magari quindici o venti
rispetto ai suoi nonni o bisnonni: ma quale che sia l’età in cui la morte lo strappi agli affetti terreni
tenderà sempre a considerare prematuro quel fatale evento. Perché? Si possono offrire diverse risposte:
la più probabile è che nel patrimonio caratteriologico della Specie insista, insopprimibile, una domanda
di futuro alla quale il pensiero di tutti i secoli ha cercato una qualche, più o meno appagante, risposta.
Una risposta consolatoria? Non tanto consolatoria (io direi!) quanto strettamente funzionale agli assetti
e istituzioni della vita associata: all’Etica, al Diritto, alle distinzioni dialettiche di giustizia/ ingiustizia,
bene/ male; a tutto quanto, insomma, possa in qualche modo mitigare o correggere la legge dell’homo
homini lupus.
All’idea di Futuro si collega dunque la stessa idea di religione (“religio”) come patto sociale e
riconoscimento di un comune destino umano e, indirettamente, anche quella di concezione del mondo
che le ideologie liberistico-scientistiche hanno cercato in questo secolo di erodere, irridere e sacrificare
sull’altare di nuove divinità: il Mercato, il Consumo.
Ma è a questo punto che l’interrogativo se si sia o meno “immortali” sposta le sue ragioni dal piano
genericamente culturale a un piano politico. Ma, ancora e sempre a questo punto, sarebbe erroneo,
secondo me, porre il problema nei termini, tradizionalmente fideistici, di “credere” o “non credere” in
base a una dimostrabile “verità”, o almeno, plausibilità del “creduto”: per il semplice fatto che la sua
“indimostrabilità” lo metterebbe fuori della portata di un approccio inevitabilmente “antropomorfico”
(quello che ci rende problematica la concezione stessa della Divinità).
Paradossalmente potremmo sfidare ogni umana logica (ed etica) ammettendo di “voler credere” in
alcunché di “non vero”. Fino a tanto può estendersi, del resto e magari in versi, la nostra
immaginazione: O gloria del pensiero/ Credere in ciò che non sia vero
L’IDEA stressa di immortalità (come “nostalgia di futuro” o altro che dir si voglia) partecipa di un
vizio antropomorfico: umane essendo, o comunque relative all’uomo, le dimensioni stesse di spazio e
tempo, in cui la vicenda Vita/Morte si colloca.
E altrettanto potrebbe volersi dire del ricorrente e forse apotropaico discorso sulla “Morte” che è la
parente stretta dell’Immortalità (un esempio ne è “De Morte”, l’eccellente libro di Ottiero Ottieri).
Tant’è vero che, anche nel parlare di immortalità, ci dimentichiamo che stiamo parlando secondo
un’ottica anch’essa antropomorfica: ne parliamo, infatti, da vivi; e con la tentazione di riuscire in
qualche modo a parlare da morti di una vita che non sarà stata più nostra. Ho pensato spesso a certi
versi del poeta americano John Berryman in cui egli immagina di incontrare in qualche “dove”
dell’aldilà gli amici poeti della vita terrena, con essi rimembrando i tempi in cui insieme ambivano a
quella che nel canto XI del “Purgatorio”, Dante chiama “eccellenza” e che nell’inglese diventa
eminence, ma (aggiungendo) “were dissatisfied with that/ and needed more”). La poesia finisce lì e il
Poeta (morto suicida nel 1972) non ci dice se il “qualcosa di più” di chi dichiara il bisogno fosse stato
raggiunto nel suo immaginario aldilà. Nel “Paradiso” di Dante sembrerebbe invece (stando al detto di
re Salomone) che nel giorno del Giudizio gli Spiriti beati ritroveranno “la carne gloriosa o santa” che
avevano sulla terra. E perciò fan festa “ben mostrar disio dÈ corpi morti:/ fosse non pur lor, ma per le
mamme,/ per li padri e per li altri che lor son cari/ anzi che fosser sempiterne fiamme”… ma non è
anche questo un antropomorfico guardare alla morte con gli occhi della vita? e non potrebbe essere
forse la sola possibile “immortalità” del contrario?
OTTIERI, PER VIVERE PARLIAMO DI MORTE
di Giovanni Mariotti
Elzeviro – Un saggio “autobiografico”
(«Corriere della Sera », 9 luglio 1997)
Vi sono argomenti di cui si parla molto, e a cui si pensa poco; altri di cui si parla poco, e a cui si pensa
molto. Qualche volta uno di questi argomenti migra da una categoria all’altra. È il caso del sesso: un
tempo apparteneva alla seconda categoria, oggi appartiene alla prima. Qualcuno ha un’opinione
diversa: pensa che la nostra epoca collochi il sesso al centro di tutto, solo perché lo colloca al centro
della sua chiacchiera; ma sbaglia. La situazione del sesso non è certo così fiorente: diciamo che fa
pensare a quella dei giornali: per assicurare la propria diffusione, anche il sesso ha bisogno di gingilli,
di gadget. E la morte? Si direbbe che alla morte sia accaduto il contrario di quello che nel frattempo
accadeva al sesso: c’è stata un’epoca in cui dava l’impressione di appartenere più alla prima categoria
che alla seconda, mentre oggi appartiene di sicuro più alla seconda che alla prima: se ne parla poco,
pochissimo, molto meno di quanto se ne parlasse una volta; è un argomento su cui il galateo impone di
glissare. Questo silenzio è fonte di un equivoco: si pensa che la gente si sia dimenticata della morte,
visto che evita ogni discorso che la riguardi; ma dimenticarsi della morte non è per niente facile, come
sa chi ha superato una certa età. A questi tentativi abbastanza umani di chiudere gli occhi davanti alla
propria fine sembra del tutto estraneo Ottiero Ottieri, che ha appena pubblicato un libro il cui titolo è
quasi un’insolenza: De morte (ed. Guanda, pp. 128, L. 20.000). “Come esiste una maratona della
danza, io sono un maratoneta della morte. Io mi sono orgogliosamente specializzato”: è il primo tocco
di un autoritratto che si svilupperà in filigrana sino alle ultime pagine. Distinguendo con energia il
saggio da altri generi. Montaigne scrisse, nelle poche righe premesse ai suoi Saggi: “dipingo me
stesso…; sono io stesso la materia del mio libro”; lo stesso si potrebbe dire di Ottiero Ottieri, presente
da un capo all’altro di questo suo saggio. Accade spesso di aspettare con impazienza l’incontro con
qualche vecchio o nuovo amico, e di rimanere delusi. Sarebbe stato bello ragionare insieme della vita e
della morte, come ai tempi del liceo; invece si è finito per parlare di qualche mediocre progetto
lavorativo, di vacanze, di ristoranti; e forse l’amico è rimasto deluso per le nostre stesse ragioni. Ogni
discorso che riguardi questioni generali sembra misteriosamente precluso all’età adulta. Proprio per
questo appare stranamente giovanile l’ostinazione con cui Ottieri sullo sfondo di una città (Milano) e di
un ceto (quello borghese) innamorati della propria immagine pratica, si intrattiene con se stesso intorno
ai grandi temi, e cerca qualcuno con cui intrattenersi.
C’è qualcosa di seducente, in questo gentiluomo o hidalgo nevrotico alla ricerca di interlocutori,
intermediari, intercessori che gli parlino e lo accompagnino nella sua estrema avventura: preti, giovani
donne, psichiatri, filosofi o le attraenti infermiere che assicurano il servizio nelle cliniche di lusso. Con
un candore fiducioso di cui io non sarei mai capace, Ottieri si rivolge a figure che custodiscono
istituzionalmente un sapere (religioso, psicologico, filosofico o altro) relativo alla morte. È attirato dai
sistemi, ma i suoi pensieri non hanno niente di sistematico, e si esprimono in modo intermittente,
aforistico. E tuttavia un genere tendenzialmente scultoreo, qual’è l’aforisma, non può appagare la sua
perpetua mobilità e inquietudine: per questo ogni sua frase è seguita da aggiunte, correzioni, messe a
punto. Ne risulta uno stile mosso, mai rotondo, ricco di scatti e di brusche franchezze.
Ho molta comprensione per chi si sforza di dimenticare che la morte esiste, e di non metterla in conto;
ma non ignoro le molte buone ragioni per tuffarsi a capofitto nei pensieri che ruotano intorno a un
avvenimento così rilevante. Ai suoi mentori Ottieri chiede quale intervallo di tempo sia ragionevole
dedicare ogni giorno a quel genere di immersione; non più di un’ora gli rispondono: protratti oltre i
sessanta minuti, i ruminamenti sulla morte si trasformano in sintomi di uno stato depressivo. Ma è una
prescrizione che Ottieri non ha nessuna intenzione di seguire. “Il pensiero della morte”, dice, “è un
sintomo tipico del pensiero della depressione, ma il senso della morte è il più indispensabile al senso
della vita”. Una prova di quest’affermazione può essere il suo libro, che è un saggio sulla morte, e
sprizza vita da ogni poro.