CONDANNATA AL DIVERTIMENTO
di Enzo Siciliano
(«Corriere della sera», 13 giugno 1984)
È un’idea che mi perseguita e che ogni volta che mi trovo davanti a un buon libro torna a perseguitarmi
con violenza. Vengono scritti romanzi e pubblicati, che in altre stagioni, in altri climi, non solo
avrebbero raccolto consensi, ma avrebbero provocato quella curiosità del pubblico più vasto e quel
parlarne che estende l’interesse di un libro, ne costituisce la memoria, ne conferma la necessità.
Era così. Non è più così. Non si sa chi legga i libri, ma di più, come li legga. In questione non sono le
vendite alte o nulle. Il mercato è dilatato si dice. Indubbiamente. Ma di questa dilatazione manca del
tutto la concreta riprova, il modo in cui essa ricicla i testi o ne conferma l’esistenza. Pasolini sosteneva
che la cattiva letteratura avrebbe finito per uccidere la buona e che questo sarebbe avvenuto in modi
anodini con cui i mezzi di comunicazione di massa avrebbero imposto un pareggiamento della qualità o
la persuasione che nel leggere non si disegnano differenza. Credo che la buona o la cattiva letteratura
siano inscindibili dalla vita e che di entrambe non si possa fare a meno: solo che la seconda via via
muore e la prima no. È ciò che accade proprio per un rapporto di confidenza, o di amore, o di ripulsa
cruda, che quest’ultima sa inventare.
Tali rapporti a me paiono ormai inesistenti. A nessuno interessa più la storia interna di uno scrittore,
perché egli tocchi il risultato che tocca e quale sia il senso di quel risultato. Poiché la sociologia ha
vinto, la qualità di un narratore viene misurata sui millimetri di pubblicità che l’editore gli dedica o
sull’”audience” che raccoglie se va in questo o quel talk show. Un romanzo come quest’ultimo di
Ottieri è una sorpresa: la sua felicità stilistica, il modo incisivo con cui rappresenta una psicologia e i
riflessi in questa psicologia di uno speciale mondo, la Milano intellettuale, costituiscono una novità.
Non che Ottieri sia nuovo alla rappresentazione di quel mondo. La sua protagonista ossessionata da una
forma morbosa di caccia al “divertimento”, replica altre figure già apparse nella letteratura di Ottieri.
Il carcere della coscienza, la malattia che addenta il cuore segreto del nostro essere e lo costringe a
movenze ripetitive e ansiose, tutto questo, Ottieri, negli ultimi quindici anni, lo ha scandagliato e
inventato con vibrante originalità in prosa e in verso. C’era in lui un empito pariniano, in bilico fra
moralità e pura grazia, fra il piacere acre del disegno ispirato a testimonianza sociale e la doglia
insondabile dell’anima.
Questa volta, lo slancio stilistico è superiore, investito com’è da una sensualità fragrante e disperata.
Certe ellissi sintattiche, certo uso dei superlativi danno un fremito strano alla pagina: ne rinnovano la
figurazione; e questo personaggio di donna, Clara, che avidamente va in caccia di ragazzi, afflitta da
vaginismo, divisa dal marito che a suo modo la ama, e salta di tassì in tassì per non perdere nessuna
delle “vernici”d’arte che sa frequentate da “giovani” e s’aggrappa al telefono per chiedere a un’amica
di proporle serate “interessanti” e poi si inchioda su una poltrona in casa sperando di poter buttar giù un
verso o la pagina di un diario “romanzato”, con la sua fissità, con la sua indomata anomalia, col
bisogno d’essere riprovata nel suo esserci da cento cose che si riducono poi a una, questa Clara dicevo,
è un personaggio che non si dimentica. La sua non è semplicemente divina “mondanità”, già cara ad
Ottieri, è piuttosto la proiezione d’una sofferta idea dell’esistenza impastata di un male irrisolvibile e
incomunicabile.
Dicevo della sensualità dello stile: aggiungerò della sua screziata natura, a mezza via fra il parlato e una
scrittura sapientissima, una scrittura che del parlato sa suggere gli umori segreto, gli scarti, e la
pronuncia con la plasticità con cui un attore sa scovare dentro il testo più andante uno sconosciuto
alone. Ed ecco che questa sensualità diventa racconto, diventa una bruciante storia d’amore. Perché
infine Clara si innamora di un ragazzo proletario: uno stuccatore con in quale riesce ad avere un unico
coito, ma da cui disperatamente vorrebbe ricevere tuta la vita che da sempre ha chiesto all’amore di
ricevere. Lo stuccatore cade da una scala, va in ospedale, rischia le gambe, “guarisce ma gli muore il
figlioletto”. niente, la vita non riesce a dar nulla a Clara, e Clara resta impigliata al suo anelante
destino, restituita al suo essere pura richiesta.
Assai ricco e striato di molte bellezze e di precise percezioni dell’animo, questo romanzo che eco potrà
avere nei lettori che incontrerà? Quanti di loro cercheranno di capire il suo significato, il segno del
destino individuale e collettivo che si è inciso? Un romanzo così felice non è scritto per essere dannato
al breve resoconto recensorio. La vitalità che vi è racchiusa, come la protagonista che vi agisce, chiede
altra vita.
BELLI O DANNATI
di Franco Cordelli
(«Paese Sera », 8 giugno 1984)
Del suo ultimo romanzo “Il divertimento” (Bompiani), abbiamo già parlato la scorsa settimana, in
questa rubrica. Ci torniamo sopra per due motivi. Primo, perché la narrativa italiana è morta, e
un’eccezione fa doppiamente piacere, è giusto sostenerla con vigore. Secondo, per un motivo interno al
libro: nella fase iniziale la protagonista entra in scena con passo spedito, piglio contemporaneo, allure pazzesca, frigida, seducente, ad alto voltaggio (ci ha ricordato, un poco, la compianta Francesca
Alinovi; come forse sarebbe stata se avesse compiuto quarant’anni). Poi, quel passo rallenta, si
appesantisce; comincia ad assomigliare troppo a quello di tutte le altre creature inventate da Ottieri.
Invece, intorno a pagina cento, a metà libro, c’è un colpo d’ala, qualcosa di violento, oseremmo dire
una specie di “erezione” stilistica (poiché l’impotenza era il tema fino a quel punto dominante).
L’eroina, un’intellettuale, una poetessa e frequentatrice del mondo, si innamora di uno stuccatore.
Questo “incontro con il popolo”, così inattuale, diventa la più toccante storia d’amore degli ultimi anni.
BOCCA PROFONDA
d i Enzo Golino
(«la Repubblica –Cultura », 28 luglio 1984 )
La protagonista dell’ultimo romanzo di Ottiero Ottieri è una vorace consumatrice di uomini, una specie
di meccanismo mandibolare che gira in folle. Chi è il nemico che Ottiero Ottieri rappresenta in ogni
suo libro, il mostro che assedia i suoi personaggi? È il sentimento d’irrealtà che corrode gesti, azioni,
pensieri e li trasforma in angoscia, li priva di autenticità, li svuota di senno. Di pagina in pagina –
narrativa, teatro, cinema, poesia, saggistica – Ottieri ha eretto un piccolo monumento letterario a quel
nemico, a quel mostro, ne ha raccontato i disastri che provoca a tutti i livelli delle classi sociali e a
qualunque latitudine geografica del nostro paese. Anche in questo romanzo “Il divertimento”
(Bompiani, pagg. 185, lire 15.000), Ottieri si conferma eccellente diagnostico della nevrosi
contemporanea. Clara, infatti, la protagonista, è un altro acquisto della galleria di alienati, depressi,
schizoidi allestita da Ottieri con l’oculata perversione del collezionista e la sapienza maniacale del
connoisseur. Trentanovenne, affetta da una vaginite che non ha mai voluto curare, separata da Claudio,
un marito più giovane e a lui affettivamente ancora legata, sempre in cerca di occasioni propizie
all’incontro di uomini dei quali programmaticamente innamorarsi, Clara ha i sintomi e le sindromi di
un fenomeno sociale. E tuttavia non è soltanto il prodotto costruito nel laboratorio di un autore dotato
di immaginazione sociologica: la somma delle attività consone alla sua tipologia –per esempio le
orrende poesie e il diario romanzato che scrive, la spasmodica ricerca della distrazione, la dipendenza
mondana nei confronti di un’amica sadica e scaltra– lascerebbe tracce superficiali nel lettore, un
identikit da rotocalco, uno spruzzo di “rosa” alla Harmony… E così pure la sua ninfomania orale -Clara
può soltanto baciare i maschi di cui si invaghisce poiché la vaginite ostacola il piacere erotico
dell’amplesso- sarebbe nient’altro che un episodio statistico, indice più o meno morboso di un
determinato caso clinico.
Vuota come una canna. Ma è proprio il nemico che Ottieri evoca nei suoi libri –la perdita del senso di
realtà– a proiettare quei segmenti appena accennati del profilo di Clara in una dimensione più ampia,
accrescendo lo spessore del personaggio. In uno dei colloqui con l’ex marito, prodigo di soldi e di
consigli, Clara si sente dire: “Il tuo male è il vuoto, tu sei vuota, come una canna… Vivi fuori del
principio della realtà”. Ecco, è questo vuoto il pieno del suo esistere nel romanzo, la sua efficacia
estetica, la sua lievitazione simbolica.
Clara consuma gli uomini, giovani e belli, come la società che la circonda consuma denaro, ruoli,
individui, idee. Le inadeguatezze psicologiche che costellano il suo modo di essere sono una spia del
suo bovarismo, così come il bovarismo è una incarnazione specifica della società dei consumi. La
voracità di Clara è l’emblema più visibile di questa identificazione: una bocca in continuo movimento
tra uomini da baciare, parole inutili da pronunciare, bicchieri di pompelmo e Coca-Cola da rovesciare
in gola con frequenza impressionante; un meccanismo mandibolare che gira in folle, come una
figurazione iperrealista alla Warhol, alla Hockney.
Per la sua parte Clara riflette la società che Ottieri, un Parini postmoderno, disegna con mano abile e
leggera. È il mondo milanese del “made in Italy”, modelli e modelle, professionisti rampanti,
intellettuali e artisti dalle eccelse velleità, il grande sarto egocentrico, chiacchieroni di successo e,
naturalmente, la droga. Un carosello sociale che si potrebbe definire all’insegna di una slogan bifronte:
bovarismo, malattia infantile del consumismo; consumismo, malattia infantile del bovarismo. Dove il
consumo riguarda, sì, le merci, ma soprattutto il tempo e i sentimenti.
Fra gli uomini che attraggono Clara mentre sguscia da un vernissage a un party, da una boutique a un
bar nelle strade di una Milano scenograficamente allusa, fondale di fatue allucinazioni, Claudio,
Giuliano e Pietro mi sembrano i più plausibili. Sono facce di un poliedro a cui Ottiero delega il compito
di rappresentare l’eterno mascolino sociale. Claudio svolge con dignitosa gelosia la sua funzione di
grillo parlante nei risentiti commenti alle sbandate della ex moglie; Giuliano vive la sua depressione
sprofondato nell’humour tragico come in una cuccia materna: manichino metafisico dell’atonia, si
risveglia soltanto alla lettura della Gazzetta dello Sport mentre rilutta alle missionarie strapazzate di
Clara che vuole a tutti i costi redimerlo e guarirlo; Pietro, un giovane proletario che ha saputo elevarsi
(manovale, imbianchino, stuccatore) regala a Clara una notte d’amore intensissima e per lei insolita: la
loro frequentazione diviene assidua perché Pietro si rompe le gambe cadendo da una scala e Clara va
spesso a trovarlo in ospedale.
Non credo sia il caso di sorprendersi della presenza, in tale contesto, di un personaggio d’estrazione
popolare come Pietro: il cosiddetto “popolo” Ottieri l’aveva già raccontato, senza sbavature populiste,
nei romanzi di fabbrica. Mi ha disturbato invece il dialogare di un gruppetto di degenti nella corsia
dell’“ospedalone” dei poveri dov’è ricoverato Pietro. Vi avverto una forzatura tematica e stilistica,
estranea alla compattezza del romanzo, nel mimare la sentenziosità popolana, la cultura naturale di chi
non ha studiato, l’autodidattismo ruspante. A questa smagliatura vistosa si aggiungono minimi guasti
che non saprei se attribuire a vezzi gergali o a mancanza di una buona revisione editoriale.
Parole come “rilasciamento” e “legamento” in luogo di “rilassamento” e “legame”; espressioni a dire
poco bizzarre come “rifletté persino a non uscire, a non telefonare a Lisa, ad andare a letto presto”, o
anche “ma un fato dietro la schiena la spingeva”, stonano in una prosa dal ritmo incalzante lucidissimo,
risultato espressivo di uno sguardo sulla realtà assai captante e incisivo nel cogliere impercettibili
slittamenti fattuali e mentali, lo scorrere del tempo, tramutandoli in scrittura letteraria.
Il consumo del tempo, l’ossessione del tempo: Clara ne subisce lo spasimo, vi si tuffa con
un’accelerazione dolorosa, e al feticcio della Festa immola sera dopo sera tutta l’energia di un io
esploso che si dissemina e dissipa con pervicacia autodistruttiva. Paura d’invecchiare, rimozione della
bruttezza e della morte, e altri connotati della società affluente, inscrivono su questo personaggio
graffiti faustiani: il divertimento è un tentativo di resistere al tempo, invade tutti gli spazi dell’esistenza,
l’identità stessa di Clara. Ma il gioco del divertimento inscenato da Clara è, appunto, una tautologia,
una ripetizione senza differenza, un gioco degradato a routine, un surrogato stanco del ludus che è la
sostanza dell’homo ludens di Huizinga. E sulla base di questa invenzione narrativa il romanzo assume
l’avvincente forma di un vortice a cui si adegua anche l’invenzione conclusiva.
Amore per il sosia Clara si imbatte in un uomo, sosia dell’ex marito. Se ne innamora fino al delirio. Lo
cerca fra la gente ma si nega l’incontro a tu per tu, parla con chi lo conosce per rubare notizie su di lui.
Divertimento e sofferenza, e la gioia narcisistica dell’attesa, si annodano in questo gioco imperniato
sulla figura del tempo bloccato: da Claudio al sosia di Claudio il circolo si chiude, gira come un vortice
su se stesso. L’attimo è l’oggetto ansioso che Clara non riesce a fermare. Ed è la somma di tanti attimi
a bloccare Clara –una vita tutta al presente– in un ciclo di coatte e alienanti ripetizioni, disperatamente
protese a inseguire il mito dell’eterna giovinezza. Un misto che qui trova il suo ennesimo stampo
epocale in una sorta di teoria della classe agiata, in una funebre celebrazione della folla solitaria a cui
Ottieri ha impresso il sigillo della sua creatività più felice, della sua scettica ed elegante moralità.