Tutti gli articoli di Bettina

IL DIVERTIMENTO (1984)

CONDANNATA AL DIVERTIMENTO
di Enzo Siciliano
(«Corriere della sera», 13 giugno 1984)

È un’idea che mi perseguita e che ogni volta che mi trovo davanti a un buon libro torna a perseguitarmi
con violenza. Vengono scritti romanzi e pubblicati, che in altre stagioni, in altri climi, non solo
avrebbero raccolto consensi, ma avrebbero provocato quella curiosità del pubblico più vasto e quel
parlarne che estende l’interesse di un libro, ne costituisce la memoria, ne conferma la necessità.
Era così. Non è più così. Non si sa chi legga i libri, ma di più, come li legga. In questione non sono le
vendite alte o nulle. Il mercato è dilatato si dice. Indubbiamente. Ma di questa dilatazione manca del
tutto la concreta riprova, il modo in cui essa ricicla i testi o ne conferma l’esistenza. Pasolini sosteneva
che la cattiva letteratura avrebbe finito per uccidere la buona e che questo sarebbe avvenuto in modi
anodini con cui i mezzi di comunicazione di massa avrebbero imposto un pareggiamento della qualità o
la persuasione che nel leggere non si disegnano differenza. Credo che la buona o la cattiva letteratura
siano inscindibili dalla vita e che di entrambe non si possa fare a meno: solo che la seconda via via
muore e la prima no. È ciò che accade proprio per un rapporto di confidenza, o di amore, o di ripulsa
cruda, che quest’ultima sa inventare.
Tali rapporti a me paiono ormai inesistenti. A nessuno interessa più la storia interna di uno scrittore,
perché egli tocchi il risultato che tocca e quale sia il senso di quel risultato. Poiché la sociologia ha
vinto, la qualità di un narratore viene misurata sui millimetri di pubblicità che l’editore gli dedica o
sull’”audience” che raccoglie se va in questo o quel talk show. Un romanzo come quest’ultimo di
Ottieri è una sorpresa: la sua felicità stilistica, il modo incisivo con cui rappresenta una psicologia e i
riflessi in questa psicologia di uno speciale mondo, la Milano intellettuale, costituiscono una novità.
Non che Ottieri sia nuovo alla rappresentazione di quel mondo. La sua protagonista ossessionata da una
forma morbosa di caccia al “divertimento”, replica altre figure già apparse nella letteratura di Ottieri.
Il carcere della coscienza, la malattia che addenta il cuore segreto del nostro essere e lo costringe a
movenze ripetitive e ansiose, tutto questo, Ottieri, negli ultimi quindici anni, lo ha scandagliato e
inventato con vibrante originalità in prosa e in verso. C’era in lui un empito pariniano, in bilico fra
moralità e pura grazia, fra il piacere acre del disegno ispirato a testimonianza sociale e la doglia
insondabile dell’anima.
Questa volta, lo slancio stilistico è superiore, investito com’è da una sensualità fragrante e disperata.
Certe ellissi sintattiche, certo uso dei superlativi danno un fremito strano alla pagina: ne rinnovano la
figurazione; e questo personaggio di donna, Clara, che avidamente va in caccia di ragazzi, afflitta da
vaginismo, divisa dal marito che a suo modo la ama, e salta di tassì in tassì per non perdere nessuna
delle “vernici”d’arte che sa frequentate da “giovani” e s’aggrappa al telefono per chiedere a un’amica
di proporle serate “interessanti” e poi si inchioda su una poltrona in casa sperando di poter buttar giù un
verso o la pagina di un diario “romanzato”, con la sua fissità, con la sua indomata anomalia, col
bisogno d’essere riprovata nel suo esserci da cento cose che si riducono poi a una, questa Clara dicevo,
è un personaggio che non si dimentica. La sua non è semplicemente divina “mondanità”, già cara ad
Ottieri, è piuttosto la proiezione d’una sofferta idea dell’esistenza impastata di un male irrisolvibile e
incomunicabile.
Dicevo della sensualità dello stile: aggiungerò della sua screziata natura, a mezza via fra il parlato e una
scrittura sapientissima, una scrittura che del parlato sa suggere gli umori segreto, gli scarti, e la
pronuncia con la plasticità con cui un attore sa scovare dentro il testo più andante uno sconosciuto
alone. Ed ecco che questa sensualità diventa racconto, diventa una bruciante storia d’amore. Perché
infine Clara si innamora di un ragazzo proletario: uno stuccatore con in quale riesce ad avere un unico
coito, ma da cui disperatamente vorrebbe ricevere tuta la vita che da sempre ha chiesto all’amore di
ricevere. Lo stuccatore cade da una scala, va in ospedale, rischia le gambe, “guarisce ma gli muore il
figlioletto”. niente, la vita non riesce a dar nulla a Clara, e Clara resta impigliata al suo anelante
destino, restituita al suo essere pura richiesta.
Assai ricco e striato di molte bellezze e di precise percezioni dell’animo, questo romanzo che eco potrà
avere nei lettori che incontrerà? Quanti di loro cercheranno di capire il suo significato, il segno del
destino individuale e collettivo che si è inciso? Un romanzo così felice non è scritto per essere dannato
al breve resoconto recensorio. La vitalità che vi è racchiusa, come la protagonista che vi agisce, chiede
altra vita.

BELLI O DANNATI
di Franco Cordelli
(«Paese Sera », 8 giugno 1984)

Del suo ultimo romanzo “Il divertimento” (Bompiani), abbiamo già parlato la scorsa settimana, in
questa rubrica. Ci torniamo sopra per due motivi. Primo, perché la narrativa italiana è morta, e
un’eccezione fa doppiamente piacere, è giusto sostenerla con vigore. Secondo, per un motivo interno al
libro: nella fase iniziale la protagonista entra in scena con passo spedito, piglio contemporaneo, allure pazzesca, frigida, seducente, ad alto voltaggio (ci ha ricordato, un poco, la compianta Francesca
Alinovi; come forse sarebbe stata se avesse compiuto quarant’anni). Poi, quel passo rallenta, si
appesantisce; comincia ad assomigliare troppo a quello di tutte le altre creature inventate da Ottieri.
Invece, intorno a pagina cento, a metà libro, c’è un colpo d’ala, qualcosa di violento, oseremmo dire
una specie di “erezione” stilistica (poiché l’impotenza era il tema fino a quel punto dominante).
L’eroina, un’intellettuale, una poetessa e frequentatrice del mondo, si innamora di uno stuccatore.
Questo “incontro con il popolo”, così inattuale, diventa la più toccante storia d’amore degli ultimi anni.

BOCCA PROFONDA
d i Enzo Golino
(«la Repubblica –Cultura », 28 luglio 1984 )
La protagonista dell’ultimo romanzo di Ottiero Ottieri è una vorace consumatrice di uomini, una specie
di meccanismo mandibolare che gira in folle. Chi è il nemico che Ottiero Ottieri rappresenta in ogni
suo libro, il mostro che assedia i suoi personaggi? È il sentimento d’irrealtà che corrode gesti, azioni,
pensieri e li trasforma in angoscia, li priva di autenticità, li svuota di senno. Di pagina in pagina –
narrativa, teatro, cinema, poesia, saggistica – Ottieri ha eretto un piccolo monumento letterario a quel
nemico, a quel mostro, ne ha raccontato i disastri che provoca a tutti i livelli delle classi sociali e a
qualunque latitudine geografica del nostro paese. Anche in questo romanzo “Il divertimento”
(Bompiani, pagg. 185, lire 15.000), Ottieri si conferma eccellente diagnostico della nevrosi
contemporanea. Clara, infatti, la protagonista, è un altro acquisto della galleria di alienati, depressi,
schizoidi allestita da Ottieri con l’oculata perversione del collezionista e la sapienza maniacale del
connoisseur. Trentanovenne, affetta da una vaginite che non ha mai voluto curare, separata da Claudio,
un marito più giovane e a lui affettivamente ancora legata, sempre in cerca di occasioni propizie
all’incontro di uomini dei quali programmaticamente innamorarsi, Clara ha i sintomi e le sindromi di
un fenomeno sociale. E tuttavia non è soltanto il prodotto costruito nel laboratorio di un autore dotato
di immaginazione sociologica: la somma delle attività consone alla sua tipologia –per esempio le
orrende poesie e il diario romanzato che scrive, la spasmodica ricerca della distrazione, la dipendenza
mondana nei confronti di un’amica sadica e scaltra– lascerebbe tracce superficiali nel lettore, un
identikit da rotocalco, uno spruzzo di “rosa” alla Harmony… E così pure la sua ninfomania orale -Clara
può soltanto baciare i maschi di cui si invaghisce poiché la vaginite ostacola il piacere erotico
dell’amplesso- sarebbe nient’altro che un episodio statistico, indice più o meno morboso di un
determinato caso clinico.
Vuota come una canna. Ma è proprio il nemico che Ottieri evoca nei suoi libri –la perdita del senso di
realtà– a proiettare quei segmenti appena accennati del profilo di Clara in una dimensione più ampia,
accrescendo lo spessore del personaggio. In uno dei colloqui con l’ex marito, prodigo di soldi e di
consigli, Clara si sente dire: “Il tuo male è il vuoto, tu sei vuota, come una canna… Vivi fuori del
principio della realtà”. Ecco, è questo vuoto il pieno del suo esistere nel romanzo, la sua efficacia
estetica, la sua lievitazione simbolica.
Clara consuma gli uomini, giovani e belli, come la società che la circonda consuma denaro, ruoli,
individui, idee. Le inadeguatezze psicologiche che costellano il suo modo di essere sono una spia del
suo bovarismo, così come il bovarismo è una incarnazione specifica della società dei consumi. La
voracità di Clara è l’emblema più visibile di questa identificazione: una bocca in continuo movimento
tra uomini da baciare, parole inutili da pronunciare, bicchieri di pompelmo e Coca-Cola da rovesciare
in gola con frequenza impressionante; un meccanismo mandibolare che gira in folle, come una
figurazione iperrealista alla Warhol, alla Hockney.
Per la sua parte Clara riflette la società che Ottieri, un Parini postmoderno, disegna con mano abile e
leggera. È il mondo milanese del “made in Italy”, modelli e modelle, professionisti rampanti,
intellettuali e artisti dalle eccelse velleità, il grande sarto egocentrico, chiacchieroni di successo e,
naturalmente, la droga. Un carosello sociale che si potrebbe definire all’insegna di una slogan bifronte:
bovarismo, malattia infantile del consumismo; consumismo, malattia infantile del bovarismo. Dove il
consumo riguarda, sì, le merci, ma soprattutto il tempo e i sentimenti.
Fra gli uomini che attraggono Clara mentre sguscia da un vernissage a un party, da una boutique a un
bar nelle strade di una Milano scenograficamente allusa, fondale di fatue allucinazioni, Claudio,
Giuliano e Pietro mi sembrano i più plausibili. Sono facce di un poliedro a cui Ottiero delega il compito
di rappresentare l’eterno mascolino sociale. Claudio svolge con dignitosa gelosia la sua funzione di
grillo parlante nei risentiti commenti alle sbandate della ex moglie; Giuliano vive la sua depressione
sprofondato nell’humour tragico come in una cuccia materna: manichino metafisico dell’atonia, si
risveglia soltanto alla lettura della Gazzetta dello Sport mentre rilutta alle missionarie strapazzate di
Clara che vuole a tutti i costi redimerlo e guarirlo; Pietro, un giovane proletario che ha saputo elevarsi
(manovale, imbianchino, stuccatore) regala a Clara una notte d’amore intensissima e per lei insolita: la
loro frequentazione diviene assidua perché Pietro si rompe le gambe cadendo da una scala e Clara va
spesso a trovarlo in ospedale.
Non credo sia il caso di sorprendersi della presenza, in tale contesto, di un personaggio d’estrazione
popolare come Pietro: il cosiddetto “popolo” Ottieri l’aveva già raccontato, senza sbavature populiste,
nei romanzi di fabbrica. Mi ha disturbato invece il dialogare di un gruppetto di degenti nella corsia
dell’“ospedalone” dei poveri dov’è ricoverato Pietro. Vi avverto una forzatura tematica e stilistica,
estranea alla compattezza del romanzo, nel mimare la sentenziosità popolana, la cultura naturale di chi
non ha studiato, l’autodidattismo ruspante. A questa smagliatura vistosa si aggiungono minimi guasti
che non saprei se attribuire a vezzi gergali o a mancanza di una buona revisione editoriale.
Parole come “rilasciamento” e “legamento” in luogo di “rilassamento” e “legame”; espressioni a dire
poco bizzarre come “rifletté persino a non uscire, a non telefonare a Lisa, ad andare a letto presto”, o
anche “ma un fato dietro la schiena la spingeva”, stonano in una prosa dal ritmo incalzante lucidissimo,
risultato espressivo di uno sguardo sulla realtà assai captante e incisivo nel cogliere impercettibili
slittamenti fattuali e mentali, lo scorrere del tempo, tramutandoli in scrittura letteraria.
Il consumo del tempo, l’ossessione del tempo: Clara ne subisce lo spasimo, vi si tuffa con
un’accelerazione dolorosa, e al feticcio della Festa immola sera dopo sera tutta l’energia di un io
esploso che si dissemina e dissipa con pervicacia autodistruttiva. Paura d’invecchiare, rimozione della
bruttezza e della morte, e altri connotati della società affluente, inscrivono su questo personaggio
graffiti faustiani: il divertimento è un tentativo di resistere al tempo, invade tutti gli spazi dell’esistenza,
l’identità stessa di Clara. Ma il gioco del divertimento inscenato da Clara è, appunto, una tautologia,
una ripetizione senza differenza, un gioco degradato a routine, un surrogato stanco del ludus che è la
sostanza dell’homo ludens di Huizinga. E sulla base di questa invenzione narrativa il romanzo assume
l’avvincente forma di un vortice a cui si adegua anche l’invenzione conclusiva.
Amore per il sosia Clara si imbatte in un uomo, sosia dell’ex marito. Se ne innamora fino al delirio. Lo
cerca fra la gente ma si nega l’incontro a tu per tu, parla con chi lo conosce per rubare notizie su di lui.
Divertimento e sofferenza, e la gioia narcisistica dell’attesa, si annodano in questo gioco imperniato
sulla figura del tempo bloccato: da Claudio al sosia di Claudio il circolo si chiude, gira come un vortice
su se stesso. L’attimo è l’oggetto ansioso che Clara non riesce a fermare. Ed è la somma di tanti attimi
a bloccare Clara –una vita tutta al presente– in un ciclo di coatte e alienanti ripetizioni, disperatamente
protese a inseguire il mito dell’eterna giovinezza. Un misto che qui trova il suo ennesimo stampo
epocale in una sorta di teoria della classe agiata, in una funebre celebrazione della folla solitaria a cui
Ottieri ha impresso il sigillo della sua creatività più felice, della sua scettica ed elegante moralità.

I DUE AMORI (1983)

VISITA A UN ALTRO INFERNO:LA CLINICA
di Ferdinando Camon
(«il Giorno», 19 giugno 1983)

Uno dei più interessanti problemi della cultura di questi anni è Ottiero Ottieri. È stato, forse, il più
grande esponente della cosiddetta “narrativa industriale”, è stato, forse, il più grande narratore della
cosiddetta “malattia mentale”, è stato, forse, il più attendibile descrittore di alcuni luoghi deputati della
sofferenza psichica e sociale del nostro tempo (il Sud, la fabbrica, la clinica….), quello che costituisce
un problema critico è la sua unità. È noto che Lacan, al termine di ogni seduta, anche se il paziente
aveva parlato delle cose più disparate, diceva che c’era dell’unità, “Il ya de l’un”. Ebbene credo che
dobbiamo arrivare alla stessa conclusione con Ottiero Ottieri: c’è dell’unità tra i tempi stretti della
fabbrica e la crisi del meridionale Donnarumma, l’incoscienza, la clinica per malattie mentali, il vuoto
dell’ozio, la droga. Sto cercando, con queste espressioni, di trasformare in concetti i titoli dei suoi libri
più famosi: “Tempi stretti”, “Donnarumma all’assalto”,”Memorie dell’incoscienza”, “Il campo di
concentrazione”, “I divini mondani”, “I due amori”.
“I due amori” è uscito in questi giorni. Come ogni libro di Ottiero Ottieri, è fortemente provocatorio,
perfino ricattatorio, e non si può parlarne senza confliggere con l’autore. L’autore è convinto di aver
scritto un libro su un doppio amore, è convinto cioè che ciò che lo spingeva a scrivere fosse la voglia di
far luce sulla coesistenza di due amori nel suo protagonista. Credo che si inganni. La sua mozione a
scrivere è la scoperta di una nuova mappa della sofferenza psichica: la droga, cioè, come si dice in
gergo, “la pera”.
La ricognizione intellettuale di Ottiero Ottieri sui mali del tempo ha le sue tappe nella scoperta di
sempre nuovi luoghi dove la sofferenza si concentra. È per questo, credo,che la sua narrativa non
precipita mai verso soluzioni positive. O, che è lo stesso: è per questo che la sua personale
peregrinazione di clinica in clinica e di analisi in analisi non è approdata a quello, che con termine
altamente improprio, il mondo dei cosiddetti sani chiama guarigione.
“Io sono stanco che si parli di me e della malattia”, si sfoga ogni tanto Ottiero Ottieri: “vorrei che si
parlasse di me e della guarigione”. Vorrebbe, ma non vuole. Forse- io ne sono ormai convinto- la sua è
una di quelle tipiche “analisi interminabili” di cui parlava Freud. La malattia è a suo modo altamente
rivelativa e illuminante, e Ottieri la fissa da un quarto di secolo e ne è ormai abbagliato. La sua
eccezionale rilevanza nel panorama del nostro tempo sta appunto nel costituire questa “summa” del
disturbo psichico, sentito come la destinazione finale degli altri disturbi, economico, sociale, morale.
Ed è ancora per questa caratteristica – essere l’antenna che capta i mali del tempo- che Ottieri rifiuta
pervicacemente di diventare il narratore della psicoanalisi. Psicoanalisi è terapia. Ottieri- che pure ha
fatto un quindicennio di psicoanalisi, prima freudiana, poi junghiana- è il narratore della malattia e non
della terapia.
Tuttavia non è un narratore statico. La mappa della malattia gli si presenta come infinita e diversificata,
e nella sua ricognizione egli è giunto ora, con questo libro (I due amori, Einaudi), alla zona della droga.
Se vogliamo, la sanità di Ottieri sta appunto qui: nel riuscire a esportare a oggettivare, a contemplare e
a descrivere lo star male. Non è poco. Il protagonista di questo libro è un giornalista diviso tra l’amore
per la moglie Caterina e l’amore per una ragazza drogata, Tullia, che lui incontra nella clinica
Serenissima, dove va per svolgere un’inchiesta. Ma proprio il cuore di questo progetto (raccontare la
compresenza di due amori, spiegarla, farla capire) è ciò che manca nel corpo narrativo. “I due amori”
sono in realtà due libri che potevano essere pubblicati distinti; uno ruota attorno al tema dell’amore
coniugale, l’altro attorno al tema del – non so come chiamarlo- amore malato, amore in clinica.
Nessuno dei due interferisce con l’altro, se non per piccole reazioni e brevi scatti. Ciò che stavolta ha
mosso e turbato Ottieri è la clinica di disintossicazione. Essa gli appare come un nuovo inferno che va
ad aggiungersi a quelli già visitati (il lavoro, l’emarginazione, l’alienazione, gli psicofarmaci…) e lui
vuole tanto sottolineare il carattere infernale della clinica per tossicodipendenti che a un certo punto è
tentato di scrivere sopra la porta “lasciate ogni speranza o voi ch’ entrate”. Nella nuova clinica lo
interessano tutti gli eventi, “di dosi, overdosi di cicci Spadol, di ero, di flash, di trip”ecc. E soprattutto
“la pera”: “i mille modi di mangiarla, divorarla, tagliarla, abusarne, volerle bene, amarla, temerla,
morirne, viverne, affidare a lei il preciso senso della morte e della vita:” La pera è il massimo di
ribellione e il massimo di abiezione di questo nuovo girone infernale, il girone della pera.
Il profano si attende a questo punto che questo sia un romanzo psicologico, che contenga la chiave
psicologica della nuova sofferenza. Non è così. Non è mai così, in Ottieri. C’è romanzo psicologico fin
che siamo al di qua della malattia: la psicologia è accompagnamento, grado per grado dei cambiamenti
della psiche nella sfera della normalità. Di là, nella sfera della sofferenza assoluta e perenne, la lancetta
oscilla continuamente a cavallo del segno che separa il valore massimo dallo zero: la bilancia è rotta.
La disperazione confina con il nirvana, il paradiso col suicidio. Tutto questo è un libro nel libro. L’altro
è quello dell’amore coniugale. I due libri sono così mal cuciti che si vedono le smagliature anche
tecniche nella confezione: c’è un salto, per esempio, da pagina 6 a pagina 57, che credo sconcerti ogni
lettore; e nei dialoghi, nella serie di botte e risposte, più di una volta (pag. 64, pagina 138), è saltata una
battuta. Il libro si chiude con un abbozzo di spiegazione psicoanalitica della contemporaneità dei due
amori. Il libro è altrove: il vero, nuovo e interessante libro che è dentro il libro è il romanzo dell’amore
dentro la clinica. Mi auguro che un giorno venga estratto e pubblicato a sé.

ORGASMI D’AMORE E DI NOIA
di Maria Corti
(«La Repubblica», 1983)

Ottiero Ottieri non è uno scrittore imprevedibile, anzi è diaristicamente iterativo, ossessivo; sicché ogni
sua opera prepara in qualche modo il lettore alla seguente. Ciò si poteva già dire negli anni Cinquanta
allorchè, partito da una sorta di romanzo-cronaca (Memorie dell’incoscienza, del ’54), passato per gli
interni delle grandi fabbriche (Tempi Stretti del ’57), Ottieri arrivò a una specifica fabbrica del Sud
(Donnarumma all’assalto, del ’59). La tendenza diaristico-mimetica, attuata anche con la resa del
linguaggio e della fraseologia di specifici ambienti, lo guidò nella scrittura di I venditori di Milano del
’60, commedia satirica su commercianti e tecnici di Lombardia, e dei Divini Mondani del ’68, specchio
di certi ambienti biograficamente ben frequentati da quel solitario mondano che è Ottieri.
La critica in passato parlò per lui di sperimentalismo tematico e lo accostò (vedi il Novecento di
Romano Luperini) a Davi, Parise e al primo Volponi. A un certo momento ecco che Ottieri, in
conformità con il mutarsi della propria biografia interiore ed esteriore, sposta l’obiettivo dal mondo
industriale, socialmente ed eticamente malato, all’universo della malattia psichica; dunque daccapo, in
concomitanza con la realtà autobiografica. E qui si può riscontrare nei libri il persistere della struttura
diaristico-mimetica cui si è accennato sopra. Ottieri abbandona l’industria, sposa la clinica psichiatrica.
Nascono vari testi, fra cui Il campo di concentrazione del ’72, diario di una fase depressiva; La corda
corta del ’78, dove il protagonista è in una clinica e infine il recentissimo I due amori (Einaudi, pag
157, lire 15000) dove il protagonista non è, ma va in una clinica per un servizio giornalistico.
Quest’ultimo libro ha qualcosa di più della clinica in comune con La corda corta: l’erotismo,
l’ambiguità un po’ perversa e soprattutto il linguaggio specifico dell’ambiente dei drogati che nella
Corda Corta -andiamo indietro di più di cinque anni- aveva giustificato una sorta si glossario finale con
la spiegazione dei termini tecnici (flash come momento di breve durata del piacere prodotto
dall’endovena, roba, farfalla, butter, ecc.). Naturalmente nell’ultimo libro si ha anche l’aggiornamento
dei farmaci; non si parla più di metadone, come droga curativa, ma di stadol.
Messaggio ambiguo
Si è voluto fin qui schizzare la preistoria esterna, le ascendenze del libro, legarlo ai progenitori di
natura scrittoria. Di che cosa tratta I due amori?
La fabula o storia sottesa è facilmente schematizzabile: un giornalista di nome Carlo va in una clinica
piena di disintossicandi per un’inchiesta e penetra nel gioco combinatorio di drogati, drogate, medici,
infermieri, baristi. Da una fase iniziale in cui il protagonista è tutto sommato abbastanza estraneo e
autonomo, si passa a un progressivo coinvolgimento. E man mano che si crea un singolare rapporto con
una giovanissima drogata di nome Tullia, viene sottilmente a mutare l’altro rapporto, con l’amata
moglie Caterina, finché la ragazza sostituisce nella convivenza la moglie: non però al livello dei
processi interiori, per cui il libro si chiude con un ritorno memoriale all’amore con Caterina,
incredibilmente perduto. Sia detto subito che a pare nostro questo non è fra i libri migliori di Ottieri.
L’ambiguità del protagonista diventa, cosa che non dovrebbe, un’ambiguità del romanzo: che
messaggio vuol mandarci Ottieri al di là della descrizione, oggi abbastanza risaputa in tutte le sue
varianti, del mondo dei drogati? Quale diversa, certo più ingenua ma più originale tensione c’era in
quei libretti della letteratura alternativa degli anni ’77-’79 scritti da giovani autonomi e no (vedi
Alfabeta, n. 5, settembre 1979), in preda alla droga: documenti soltanto, certo, ma quanto più
traumatizzanti […].
Come una lucida spada
C’è molta presenza di orgasmi amorosi, nel libro, però Ottieri ci scusi, ne ricava una certa dose di noia;
queste continue trame sessuali fra Caterina e Carlo sono al giorno d’oggi vagamente stucchevoli. Come
sono banali l’identificazione, per Tullia, del maturo giornalista Carlo col padre, la parentela drogaterrorismo,
o la registrazione dei diversi effetti della droga leggera e pesante. Le virtù scrittorie di
Ottieri compaiono meglio là dove in minuscoli episodi egli si identifica scopertamente con il
protagonista: “Una vocazione inquisitoria, indagatrice, una curiosità che gli dava la vita era nata in lui
dalla giovinezza e adesso si era addirittura incancrenita”.
Ancora i pregi del libro si rinvengono in improvvise accensioni dell’immaginazione stilistica: “Come
mi svegliai la mattina?” Come una spada lucidissima pronta a bucare il muro della quotidianità, senza
mai perdere di vista il filo del taglio.” Oppure nello sguardo attento a cogliere un particolare, magari
degli animali: “la ragazza gli accarezzava più della testa, i capelli; il ragazzo stava fermo e serio come
una bestia.” O nella resa del godimento insieme effimero ed eterno dato dalla droga, magari destinato a
concludersi con il relax eterno, o nella ripresa quasi filmica dell’ansia panica del drogato. Interessante
la registrazione del gergo dei drogati, ma più per lo storico della lingua che per il critico letterario, in
quanto pervasa da una specie di intento didascalico che artisticamente la sgonfia. Ottieri si crea
artificialmente delle domande per poi rispondere a livello quasi didattico: “E che cosa vuol dire
skinpopping? Fece altrettanto serio. Intramuscolo. “Certo Ottieri è un autore intelligente, i suoi libri si
leggono fino alla fine, cosa che oggi capita raramente; si vorrebbe che non vivesse di rendita e facesse
meglio fruttare la sua “vocazione inquisitoria”. Che egli sia uno scrittore lo prova l’ideazione del
personaggio di Carlo con la sua dose di perversione sottile, celata sotto parvenze di filantropia,
generata a sua volta da sfere etiche ma intellettuali, priva, quindi, di ogni divinazione.

DI CHI È LA COLPA (1979)

LA CITTA’ SUL DIVANO DELLO PSICOANALISTA
di Ernesto Ferrero
(«La Stampa», 4maggio 1979)

La strategia creativa di Ottiero Ottieri ha attraversato con bella mobilità molti generi: il romanzo, il
saggio, la commedia, il diario, il poema narrativo, per approdare ora a questi dialoghi dieci, per
l’esattezza, e tutti omogenei. Coerentemente con le sue inclinazioni di osservatore del costume, goloso
di “tutte le visioni del mondo”, Ottieri non vi dibatte astratte questioni universali sulla natura umana,
come vuole la illustre tradizione dell’operetta morale, ma parte ancora una volta per una ricognizione di
quel garbuglio vere e simulate, esibizionismi e angosce, rovelli e scioccherie, smarrimenti e inganni in
cui siamo abituati a muoverci.
Abolendo le descrizioni ambientali e i tempi morti dell’azione, sottendendo le psicologie al gioco quasi
elettronico delle battute, Ottieri vuol concentrarsi sul puro piacere di inseguire qualche verità sia pure
provvisoria e sgradevole. Lo strumento rivelatore sarà la lente del paradosso, con le sue aggregazioni
verbali, le sottigliezze sofistiche, gli affondo ironici e autoironici. Le voci recitanti sono quelle della
Milano ricca e colta che ama ancora esibirsi nelle Capannine versiliesi e affolla i divani degli analisti
con stizza crescente: il playboy patito del footing, la pittrice concettuale che in cambio di velleità di
suicidio cerca la rissa con un Telefono Amico, il giovane artista e la giovane sindacalista che
sublimano un amplesso mancato con una partita di scherma sull’impegno dell’intellettuale verso le
masse, varie coppie di scrittori ansiosi che cercano di armonizzare arte e vita.
Tutta una società senza padri che invano si affanna a spremere certezze e consigli da quelli che per
professione fanno finta di aver capito tutto, e che invece, delusa nelle sue aspettative si aggrappa,
disperatamente, alle tavole ormai fradice del monologo radical-chic. È difficile che tra i sicuri e gli
insicuri si instauri un dialogo autentico: tutti stanno catafratti nel loro ruolo. Il poeta-scrittore-sociologo
nel suo masochismo di imbranato, gli altri, gli uomini di mondo, i maestri di traffici e di concretezza,
gli psicoanalisti e gli amministratori, non arrischiano mai il loro potere e il loro sapere in un soccorso
autentico: lo vendono e subito lo ritraggono con feroce impassibilità corporativa. Il privato non si salda
mai nel collettivo: di qui il continuo rincorrersi e lasciarsi di queste monadi. Nel gran ciarlare che qui si
fa di Dio, Marx e Freud, di viaggi frenetici, metropoli inabitabili, amori precari, ideologie ed economie,
di coazione a ripetere, istinto di morte e psicosomatica, è il dramma dell’insicurezza che si recita
malgrado ogni possibile lusinga del discorso. E tuttavia il piacere dell’intelligenza conferisce
all’intreccio delle voci un sostanziale ottimismo, l’allegria di un’indagine in perpetuo divenire. Ottieri
sa bene che l’unica salvezza consiste proprio nel continuare a osservare e rappresentare questa “società
turbolenta e statica”. Ci sono più intuizioni in questa sua effervescente musica da camera che nei
marchingegni colossal di una sinfonia.

INTERIORS DI OTTIERI
di Giovanni Raboni
(«La Stampa -Tuttolibri», 21 aprile 1979)

Sbaglierò ma ho l’impressione che il romanzo italiano, dopo l’inattesa quanto felice prova d’esistenza
fornita lo scorso anno, sia tornato, nella presenta stagione, al suo consueto e prevalente regime di
latitanza e che al suo posto si vada affermando un genere narrativo o paranarrativo tutto sommato più
congeniale alle nostre lettere, vale a dire quello della breve prosa fantastica o morale.
In effetti, se il solo romanzo davvero emozionante e “nuovo” uscito in questi mesi è Il giorno del
giudizio di Salvatore Satta (cioè l’opera unica e postuma di uno scrittore “irregolare”, non
professionale), sono invece relativamente numerosi i titoli inscrivibili nella vasta e vaga categoria sopra
accennata: dai cento “romanzi in due pagine” di Giorio Manganelli alle cinquanta miniature narrative
di Raffaele La Capria; dai racconti vecchi e nuovi di Giuseppe Pontiggia a questi dieci “dialoghi “ di
Ottieri. E perché non ricordare, nello stesso clima, anche la sorprendente freschezza delle vecchie
prose, testé ripubblicate, di Leonardo Sinisgalli.
Ma veniamo a Ottieri. Se volessimo fare una battuta potremmo dire che dopo averci dato, con il
poemetto La corda corta, il suo Giorno, Ottieri ci dà ora le sue Operette Morali. E, in verità, una certa
acre e desolata limpidità che si respira in queste pagine non può non rimandare a qualche grande
esempio della meditazione leopardiana. Ma attenzione: Ottieri non ci chiama tanto a riflettere sulla
condizione dell’uomo nel mondo, quanto sulla condizione dell’uomo e della società. Il destino e il
tormento dei suoi personaggi non si situano nel vuoto tra nascita e morte, ma nell’abisso momentaneo e
notturno che si spalanca tra libertà e coazione o in quello che la loro malattia li induce a credere tale. I
suoi dialoghi (alcuni dei quali si allargano a vere e proprie invenzioni teatrali, invitandoci a non
dimenticare lo specifico precedente costituito dalla commedia I venditori di Milano, scritta e data alle
scene da Ottieri venti anni fa, mentre altri hanno il ritmo astratto e serrato della finzione platonica), i
suoi dialoghi, dicevo, girano con ossessiva coerenza e al tempo stesso con ammirevole varietà di
strumentazione, su un unico perno il rapporto (di ribaltamento o similitudine, rispecchiamento o
contagio) tra nevrosi personale e nevrosi collettiva, su uno sfondo che è sempre quello dell’alta
borghesia più o meno esplicitamente intellettuale della “capitale del nord”.
Qualche esempio. Nel dittico formato da Lo scrittore e il play-boy e Il campo di distrazione i “divini
mondani” che ammazzano il tempo in una famosa Oasi versiliese sono così presi da una loro eterna
disputa, volta a volta metafisica e cruenta, sul nulla, da non accorgersi che a poche centinaia di metri un
tornado ha veramente “prodotto” il nulla. Nel dialogo-monologo Mondo X Voce amica una pittrice
tentata di suicidio è alle prese con il massiccio silenzio “di quell’ottimo pâté fra psicoanalisi e
cattolicesimo” che viene servito, appunto, da istituzioni come quelle ricordate nel titolo. Ne Il giovane
artista e la giovane sindacalista un coito impossibile fa da filo conduttore a un atroce e spassoso
dibattito sui temi dell’impegno e della responsabilità dell’intellettuale di fronte alle masse. In Che fai
stasera? uno scrittore discute dei suoi problemi (tra cui quello centrale di riuscire a scrivere un libro
migliore del libro che ha già scritto e che tutti, con suo grande dispetto, si ostinano a considerare il suo
capolavoro) con lo psicoanalista o santone che gli fa da guida; e la conversazione, già esilarante di per
sé, è resa ancora più pepata dal fatto che lo scrittore si chiama Dante, la guida, ovviamente Virgilio, e il
capolavoro detestato dall’autore si intitola Commedia […].
Mi sembra che stia succedendo a Ottieri quel che succede a certi grandi vini: con il passare degli anni,
la sua intelligenza e la sua scrittura diventano sempre più secche, più essenziali, senza tuttavia perdere
nulla della sua sostanza nutritiva. Dopo aver scritto diversi libri importanti, da Tempi Stretti (1957) a Il
campo di concentrazione (1972), Ottieri ne sta scrivendo, ora una serie di mirabilmente agili e lievi,
ventilati e come prosciugati dall’ironia e dalla disperazione (o forse, dall’ironia della disperazione). E
così, oltretutto, riesce a raggiungere un grado davvero insolito, con i tempi che corrono, di leggibilità.
Da questo punto di vista Di chi è la colpa è addirittura esemplare: un libro inflessibile e brillante,
tragico e divertentissimo.

LA CORDA CORTA (1978)

IL DISTACCO DAL MALE
di Gian Carlo Ferretti
(«L’Unità», 15 maggio 1978)

Dopo un’esperienza narrativa di impostazione tendenzialmente “realistica”, Ottiero Ottieri conduce
ormai da tempo un discorso tutto interno a una problematica “psicoanalitica”, con opere che sfuggono
spesso a ogni classificazione di genere. Come quest’ultima, del resto, La corda corta, che il risvolto
definisce “romanzo in versi” e al tempo stesso “poemetto narrativo”.
Un giovane ricco e colto (questa la “trama “essenziale), con una moglie, un’amante e altri amori, vive
la sua nevrosi e il suo alcolismo tra una casa di cura lombarda, un ospedale parigino e rari intervalli; ma
chi racconta e commenta è l’amante stessa, che gli si rivolge come un”io” a un “tu”. Si viene
sviluppando così un fitto reticolo di rapporti clinici e amorosi, non privo degli echi (tenui ma profondi)
del mondo di fuori: un reticolo di rapporti in cui sembra consumarsi lentamente l’esistenza giovane e
malata del protagonista, dominato da una sostanziale incapacità (psicologica e intellettuale) a
realizzarsi, da una costante e insoddisfatta tendenza a “proiettarsi” nel destino degli “altri”. Finché,
dopo violente terapie e autoanalisi sottili, “lucido come una foglia lavata dopo la pioggia”, egli si sente
“pronto alla vita” e “timoniere di se stesso nella vitale procella”. Ma è veramente in questo, e in questo
finale, il senso dell’opera di Ottieri? La sua vera e forte carica di novità viene anzitutto da
un’impostazione satirica, da un distacco ironico e critico nei confronti dei fatti e dei personaggi narrati.
Distacco dalla malattia e dai suoi (quasi paradossali) privilegi: la nevrosi come condizione di
isolamento protetto e deresponsabilizzato, con i suoi rituali quotidiani, nella clinica di lusso; e
nell’ospedale comune, la condizione comunque privilegiata dell’ammalato colto e diverso tra i diversi.
Ma ecco che (ulteriore e più intimo elemento di novità), dentro questo discorso ironico e talora quasi
divertito, la tragedia e l’angoscia e il dolore della malattia, la “corda corta” della “dipendenza”
dall’alcool, la coscienza insomma del male rimane acuta, con la coscienza dell’inanità di ogni medicina
e di ogni fuggevole sollievo, e anche con un sottinteso richiamo a non credere in una troppo facile
guarigione (nel momento stesso in cui, ironicamente, appunto, il malato torna a sentirsi come
verdissima foglia, improvvisamente purificato e mondo). C’è un passo in cui questo discorso nel
discorso trova un’emblematica sintesi: dove Ottieri analizza il rapporto tra “il male” e “la compiacenza
del male”, come un rapporto inscindibile di cui bisogna tuttavia saper vedere criticamente i due
momenti. Perché allora, Ottieri può parlare a ragione (in una sua intervista) di un “allontanamento dai
temi della malattia nervosa e mentale”, di “un salto fuori da una specie di affogamento” e quindi di
nuove e ulteriori prospettive della sua ricerca di scrittore? Per la forza di quel distacco, di quella
coscienza critica, che si esercita attivamente sia al livello della demistificazione ironica, sia al livello
del lucido disvelamento. La satira è quindi tutta funzionale a un discorso interamente articolato e
pregnante, ricco di piani, classico e al tempo stesso sperimentale, costruito con un linguaggio in cui il
termine letterario colto si alterna al termine medico.
La originale struttura poetica in cui questo discorso si realizza è di derivazione dichiaratamente
pariniana, nel movimento generale e nelle cadenze. E lo stesso “tu” protagonista, in fondo, è un giovin
signore rovesciato, attraversato cioè da angosce e consapevolezze che ne fanno un inedito e ironico
drammatico personaggio della nostra letteratura e del nostro tempo.

L’IRONIA DELLA DISPERAZIONE
di Geno Pampaloni
(«Il Giornale Nuovo», 19 aprile 1978)

La “corda corta” come quella che rischia di strozzare il cane legato al piolo, è “la dipendenza”:una
corda, peraltro,strettamente intrecciata. Essa fa dipendere infatti il malato mentale o psichico dalla
malattia e insieme dalla cura, dal terrore che gli ispira la casa di cura e insieme dal rifugio che sente in
essa, e poi dai compagni di cura, e poi dalla nostalgia del mondo dei “sani”, e poi dalla propria ansia
che lo spinge senza requie a cercare “con ansia rimedi contro l’ansia”. La dipendenza si identifica
quindi con il male, “la costrizione che uccide lasciando vivere”, “la malattia mortale di cui non si
muore” (Ottiero Ottieri, La corda corta, Bompiani, 1978).
È un tema questo che Ottieri svolge da molti anni e che sinora aveva trovato l’espressione artistica
mente più convincente ne Il campo di concentrazione (1972). Quel tema lo scrittore usa scandirlo in
due ritmi o momenti diversi e complementari:come condizione del vivere entro una società in crisi (con
quel tanto dunque di teorizzazione e di “saggismo” che comporta la riflessione sulla struttura “uomo”);
e come situazione, autobiografica o comunque narrativa che si oggettiva in ambienti e personaggi.
L’intreccio di quei due ritmi è poi complicato e arricchito dall’autoironia, dalla satira, dalla secca
crudeltà figurativa e da profonde, dilaganti e ossessive anche se non effuse, risonanze di pena.
I risultati sono suggestivi. L’originalità delle soluzioni stilistiche si pone in rapporto diretto con la
singolarità amara dell’esperienza vissuta. Rapporto diretto ma tutt’altro che univoco: sfida intellettuale,
rivalsa semantica, riscatto, ma anche complicità, fascinazione e appunto “dipendenza”.
L’Ottieri cercò una volta di definirlo come “realismo clinico”: ma in questa formula, più riassuntiva
che definitoria, ritroviamo di nuovo tutte le sfaccettature di cui si è detto. Ne La corda corta il
momento narrativo prevale su quello saggistico: ma lo presuppone, lo intride e in certo senso lo fa suo
con apprezzabile fluidità. Almeno in due brani: nell’intero primo capitolo (“Alle Betulle”) e nella
straordinaria suite che ci descrive la ripugnante cura del vomito imposta per creare nel malato la
repulsione dell’alcool (da “Entra la coppia sicaria” di p. 101 sino alla fine di p. 112), mi sembra che
Ottieri sia riuscito come poche altre volte a esprimersi e comunicare.
Il romanzo ha la forma di poemetto in versi (come del resto già Il Pensiero Perverso del ’71). Il
linguaggio è duttile e icastico e così aggiornato nel gergo psichiatrico che l’autore ha sentito il bisogno
di apporvi un piccolo glossario. Ma le vere novità sono altre. Il protagonista non è più “io”, ma “tu”, al
quale si rivolge “io”, figura femminile simile alla protagonista del libro precedente Contessa. Questo
“tu” è una sorta di compromesso tra la prima e la terza persona: e consente all’Ottieri di trascorrere,
quasi in un giuoco continuo di sottintese dissolvenze, dall’oggettivazione all’intimità,
dall’identificazione di sé al distacco, dall’esistenziale al figurativo, dalla memoria
autobiografica all’Ecole du regard. Egli giuoca così su due tavoli: quello dell’agognata asciuttezza
linguistica (“la scrittura ridotta all’essenza della propria insostituibilità semantica”1967) e insieme su
quello dell’infinita ambiguità chiaroscurale della confessione. La qualità forse più originale di Ottieri è
di essere uno scrittore che con lo stesso gesto colpisce e si arrende, aggredisce e si abbandona. La sua
satira ha nel retrofondo l’elegia della satira.
L’altra novità è che, come nella Contessa, il punto di riferimento era il dannunziano Piacere; qui il
punto di riferimento è il D’Annunzio delle Laudi. Facciamo pure tutta la parte che si voglia all’ironia,
al pastiche, al raffinato doppio giuoco ottieriano con il kitsch. Ma questo libro è per molti aspetti una
Leus aegrae mentis, una Laus anxiae vitae. E se da un lato lo scrittore lancia il suo corrosivo
disincantato “realismo clinico” tanto contro la sacralità della malattia, quanto contro quella della
scienza, e tutto sommato si tiene in sottile equilibrio tra disperazione e verbiage, dall’altro lato lascia
trasparire anche un’ombra di epos, un nucleo tragico intatto dall’ironia, in quel deserto angoscioso
“terzo mondo” che è “il mondo della disturbata mente “, in quella “attesa di vita-divenuta col farmacovita”
Anche l’umiliante “dipendenza” anche la schiera degli “impiegati dell’infelicità”, anche le terapie
del vomito hanno una gloria, una possibile classicità, una possibile retorica. La poesia e anche la poesia
della malattia, non ha come dicono, “molti livelli”, non ha
confini.

CONTESSA (1976)

TRE DOMANDE A OTTIERO OTTIERI A PROPOSITO DEL SUO ROMANZO “CONTESSA”
di Paolo Ruffilli
(«Il Resto del Carlino», martedì 17 febbraio 1976)

D. È uscito presso l’editore Bompiani, il suo nuovo romanzo Contessa. Il libro si colloca nell’area
dei suoi interessi psicoanalitici: in che senso e con quali novità rispetto alle sue prove precedenti?
R. Il libro si colloca nell’area dei miei interessi psicopatologici . La psicoanalisi ne è strumento
importantissimo, tanto è vero che “psicoanalitico” viene a denominare “psicopatologico”, anche tra i
più avvertiti, ma non tra gli addetti ai lavori. Aggiungo da addetto, forse malgré moi, a lavori, che il
mio romanzo echeggia una analisi di tipo junghiano e non freudiano. Ora, si è stabilito di chiamare
psicologia analitica quella junghiana e psicoanalisi quella freudiana. La psicoterapia del profondo, è
vero, è sempre la stessa, perché presuppone l’inconscio, ma fra metodo freudiano, metodo junghiano e
altri metodi le differenze sono profonde. Sempre, si intende, per gli addetti ai lavori o per quelli che
subiscono gli addetti ai lavori….(i pazienti). Inoltre il mio romanzo non si esaurisce, credo, nell’ambito
di un’”analisi”. Abbraccia il mondo di tutta una clinica psichiatrica e quello che vi è fuori, sia pure in
riflesso a tale mondo. È il problema della psichiatria nuova e vecchia, di questa disciplina che sta
prendendo un posto privilegiato fra le varie scienze umane. E non c’è dubbio che la psichiatria sia
divenuta cultura e tenda a sostituire la filosofia tradizionale.
D. Mi pare di poter osservare che, nel suo lungo itinerario narrativo, (dalla cronaca del
dopoguerra in provincia Memorie dell’incoscienza del 1954, alla tematica industriale di Tempi Stretti
del 1957 e Donnarumma all’assalto, del 1959, fino alla indagine psicoanalitica dei romanzi più noti,
lei ha raffinato a tal punto la sua ricerca linguistica da sfiorare la “sofisticazione”. Cosa ne pensa,
anche in riferimento a quest’ultima prova?
R. Questa “sofisticazione” è per me un’importantissima presa di coscienza. Stava nel mio
preconscio e Ruffilli l’ha portata a piena luce. Ne do una controprova: sto tentando di scrivere un
racconto nuovo, ma in versi, per affrontare una ricerca linguistica nuova, dove io sono rozzo, dove
devo imparare il mestiere. E da tempo ho in mente di girare un film, sulle orme di Pasolini, sempre
appunto per affrontare metodi espressivi per me più bradi, cioè meno sofisticati. Sento benissimo il
pericolo della “sofisticazione” che oscilla fra un eccesso di esperienza, un rococò, un meta-realismo, un
iper-realismo. In prosa narrativa, in questo momento, non ho in mente niente e mi fa un certo ribrezzo
immaginare una “super-prosa”. Le ragioni profonde della “sofisticazione”sono da ricercare e si
possono ricercare: fatto sta che la sofisticazione se può nauseare il lettore come lo zucchero sul miele,
nausea prima di tutto me. Ringrazio lei per aver tirato fuori questa parola coscienza.
D. Mi pare che al di là della problematica specifica (la condizione del dopoguerra, il mondo
industriale, la borghesia arricchita, la nevrosi dell’uomo moderno), il suo interesse sia sempre stato
rivolto alle situazioni della vita contemporanea. Ma perché questo interesse si è concentrato sulla
psicopatologia?
R. Forse per ragioni autobiografiche (da cui bisogna uscire), forse perché invecchiando, o come
invecchio io, si diventa monomaniaci. D’altra parte,quando cominciai ad occuparmi di problemi operai,
mi si accusò di monomania, di operaismo. Mi si diceva: guarda che al mondo non esistono gli operai
soltanto. Altrettanto hanno problemi umani e di classe, per esempio, i venditori. Me lo diceva Adriano
Olivetti, attratto e infastidito dalla mia monomania. Ma se non fossi stato monomaniaco, non avrei
forzato le serrature che chiudono gli operai dentro l’officina. Mi auguro che la monomania di oggi,
oltre ad avere qualcosa di patologico, abbia qualcosa di esplorativo.

CAMPO DI CONCENTRAZIONE (1972)

IL LAICO OTTIERI
di Geno Pampaloni
(«Il Corriere della Sera», 2 marzo 1972)

Il campo di concentrazione è il diario di un periodo trascorso da “Io”, cioè dall’autore, in una clinica
psichiatrica svizzera. La domanda prima e pregiudiziale che il lettore si pone riguarda il modo di
leggerlo, il grado e il tipo della sua libertà di fronte ad esso. Si deve catalogare questo diario tra i
documentari, accettare la malattia come protagonista, inclinare alla pietà, vestirsi di più o meno
cristiano rispetto e in definitiva considerarlo talmente sui generis come opera letteraria da escluderlo
dalla letteratura e restituirlo agli specialisti dell’analisi, freudiani o junghiani che siano, perché ne
traggano prezioso materiale di studio? Sarebbe questo un giudizio o un non giudizio iniquo che farebbe
torto all’Ottieri proprio nel momento in cui ci dà il più bello, a me sembra, dei suoi libri. D’altra parte a
leggere questo diario come un romanzo, attenti crocianamente al “sentimento” e alla “forma”,
assumendo la malattia di “io” come contenuto occasionale, pretesto fantastico, non si toglie al libro il
suo valore specifico, la sua disperata storicità, appiattendo a “letteratura” quello che è nero dramma
reale e non si pecca contro lo spirito rifiutando di prendere
sul serio la sua sofferenza?
Devo dire che il libro mi sembra abbastanza forte da riuscire a imporre che la domanda rimanga senza
risposta; e a non privilegiare nessuna categoria di destinatari. Porta dentro di sé, lucidamente, la sua
poesia insieme con la sua pena. Il tema della letteratura, o meglio, del ruolo dello scrivere dello
scrivere, nell’universo della malattia è uno dei temi centrali del libro. Esso si sviluppa su due livelli. Il
primo è comune a molti intellettuali: scrivere come contrapposizione al vivere, “modo di fuggire la
realtà”, “diga” per evitare il confronto diretto con le cose, “zattera solitaria”:Il secondo è più
tormentoso e profondo,
ed è, al contrario del primo, una forma necessitata e coinvolta del vivere: “scrivere per sopravvivere”
“come sta attaccato al cornicione l’operaio che è scivolato giù dal tetto”, e “continuamente sotto la
mannaia di un’attesa” scrivere “della impossibilità di scrivere d’altro”, una letteratura “pagata cara”. È
chiaro che questo è il livello autentico: e la letteratura come fuga dalla realtà può significare estetismo,
la letteratura come prigione e destino dell’essere ha in sé tutto il dolore della verità, ed è quindi una
forma assoluta di laicismo. Il campo di concentrazione è un libro laico sotto molti riguardi: nel suo
laicismo anzi, si riflettono tanto i suoi meriti quanto i suoi limiti, difficilmente separabili dagli altri.
Il primo e dominante laicismo è dichiarato verso la malattia. Il malato di mente, in queste pagine, non
ha niente di mitologico; non è sfiorato mai, da quella che un tempo si diceva l’ala del mistero; non è, in
nessun senso, un eroe, una vittima, un figlio degli Inferi. L’inferno se lo porta con sé, come un bagaglio
scomodo, o sarebbe meglio dire gli inferni, giacché al suo inferno sono consustanziali la ripetizione, il
ritorno, la monotonia delle repliche. Questo diario della malattia non ha nulla di morboso: il malato si
annoia, la noia è insieme la malattia e la cura. Le immagini che l’Ottieri adopera sono acute, talora
sofisticate, ma tutte quotidiane, intellettualmente percepibili, senza alone. Il male mentale è paragonato
al carico malmesso di una nave: “una stiva che sbanda”, “Come sulla Luna manca la gravità, ogni
passo misura una distanza che non è quella terrena”. La solitudine del malato è come “una rivoluzione
cui manca il fronte avverso”, “lo sparo di un fucile contro un cielo che non ha selvaggina”.
Egli passa il tempo a meditare, medita, peraltro “Non per saggezza, ma per malattia”. Il suo dolore è
insieme “metafisico e domestico”. L disperazione è “un lavoro”, “soffrire è l’attività più naturale” egli
è “un impiegato dell’infelicità”. Questo spogliare il malato di ogni possibile retorica, presentarcelo
nudo nel suo modesto, sgradevole compito di soffrire come un semplice habituè della sofferenza, è la
novità del libro e in questo senso la sua forza di persuasione è incontenibile.
Laico, il diario dell’Ottieri, anche nei confronti di “Io”: “Io” non è un caso è “Io”. Vengono registrati
sintomi, ricadute, ossessioni, infantilismi, confessioni nel loro contesto piagato e talora meschino,
senza compiacimenti e senza condanne. L’autore non perde mai neanche di fronte all’orrore e alla
disperazione, la sua vena pettegola, la sua intelligenza mondana. Non si identifica mai fino in fondo
con la sua malattia, non ha mai tentazioni sacrificali, rimane in suo potere come un ostaggio
raziocinante e ostile, A poco a poco la malattia diviene ai nostri occhi qualcosa di compatto e neutro,
un mostruoso cibreo, un confuso rumore di fondo, cui danno ritmo e misura l’intelligenza dello
scrittore, la sua vigilanza, il suo paziente agguato. Non c’è, nel diario, né il ripugnante, né l’eroico, ma
una inconsueta materia vitale in cui siamo infatti tutti a riconoscerci. Laica è la descrizione della
clinica. .. Il laicismo, infine presidia i sentimenti. Questo è un diario senza Dio, senza amore, senza la
minima traccia di trascendenza. Il malato di mente, nella clinica svizzera, tollerante, promiscua si è
definito “Prigioniero della sua libertà”. Ma c’è un’altra e più grave prigionia. Tutto si svolge entro la
vita, entro i confini spietati e deserti del dilemma felicità-infelicità, quiete-tormento, angosciasoddisfazione.
È questo un libro ove si parla talvolta di suicidio ma non compare mai l’ombra della
morte. Il paesaggio è tutto sole, calcinato, piatto, terribile per la speranza che vi manca più che per la
pena che lo occupa.
La sua misura, onestamente confessata, è di fiato breve. Cristianamente, e anche poeticamente,
l’assoluzione, l’apparente salvezza, è inglobata entro una condanna, una assenza. Da dove nasce, allora,
posti così duramente i suoi limiti, il fascino indubbio di questo libro? Dalla forza dell’intelligenza in
lotta contro la voragine e il buio: e dal lirismo che nasce in questo spasimo, nelle impreviste pieghe
della pazienza. L’Ottieri nega al malato, ossessionato dal presente, il conforto della nostalgia. Ma poi
esce in questa cadenza quasi ungarettiana: “Si sta qui (in clinica) anche per cercare dove tornare”. E
come negare una disperata poesia a questo bellissimo sussulto di pena: “È quasi ora di cena, anche
questa giornata sta passando. Desidero diventare amico del tempo?”

MONOLOGO GIROTONDO DI UN MALATO DI NERVI
di Giuliano Gramigna
(«Corriere d’informazione», 1 aprile 1972)

Assaggiato nella forma del romanzo comportamentale, che mette cioè in scena solo i segni esterni
(parole, gesti) con L’impagliatore di sedie, esorcizzato temporaneamente, nel saggio (L’irrealtà
quotidiana), il Grande Tema, il tema viscerale di Ottiero Ottieri, si può dire il suo tema ossessivo è
scoppiato in due libri paralleli e opposti, comparsi nel giro nemmeno di un anno:il poemetto Il pensiero
perverso, cui è andato il Premio Carducci e Il campo di concentrazione da poco uscito presso
Bompiani, che si potrebbe superficialmente definire come il romanzo della depressione e dell’ansia.
Qual è il tema di Ottieri che del resto stava dietro a tutti i libri precedenti, perfino a quelli che meglio lo
mascheravano, come Tempi Stretti o Donnarumma all’assalto che lanciarono Ottieri come uno degli
inventori della “letteratura industriale”?
È la malattia, la malattia del pensiero, o meglio il pensiero come malattia. Il pensiero ossessivo, coatto,
incapace di scegliere, costretto a muoversi maniacalmente in circolo nel dubbio, il pensiero che induce
l’ansia, la depressione, la follia, anzi che è esso stesso l’ansia, la depressione e la follia. Ma poi si rende
giustizia a Ottieri scrittore e uomo, parlando in questo caso di tema? E non tanto per il suo carattere
obbligativo (nessun vero tema è, per autentico scrittore, libero) ma soprattutto perché sembra limitare il
discorso ai livelli ben noti della semplice “letteratura”: quando prendendo in mano Il campo di
concentrazione il lettore dovrà rassegnarsi a buttarsi alle spalle quei livelli tutto sommato confortanti, a
ignorarli a muoversi in territori nuovi e sotto parecchi riguardi inamabili: e non intendo certo dire che
essi siano nuovi e inamabili solo perché il lettore si trova davanti al monologo ininterrotto di un
paziente affetto da malattia psicologica, che si confessa e insieme non si confessa affatto.
Non è documento – Un rimando è inevitabile alle poesie del Pensiero Perverso, delle quali si parlò
qualche tempo fa su queste stesse colonne. Quella riuscita poetica, di grande bellezza e di carattere
eccezionale, stava in ciò: nel trasportare completamente nella letteratura il diario versificato di
un’esperienza psicopatologica, senza alterarne minimamente la concretezza, senza gonfiarla mai a
simbolo. Che cosa dire rispetto a Il campo di concentrazione che ripete in prosa e prosegue
quell’esperienza anche se colta in un momento clinicamente più angosciante, durante otto o nove mesi
di un ricovero in clinica, fuori dall’Italia, se non che ci si trova di fronte a un testo che si colloca subito,
naturalmente, fuori dalla letteratura?
In effetti, anche se volesse, Il campo di concentrazione non potrebbe essere un documento patologico
vero e proprio, per il carattere fugace, irraggiungibile di ciò che dovrebbe raccontare: “Tali giorni
mentre si vivono non si possono scrivere, quando si sono vissuti non si possono ricordare. Perciò è
difficile offrire una descrizione della disperazione. Forse impossibile […]”. Questo oggetto che ci
troviamo fra mani non è dunque né romanzo, né diario, né documento, insomma non è letteratura; ma è
tuttavia qualcosa che è stato scritto: è dunque una scrittura e riporta il lettore (ma anche l’autore) alla
realtà fondamentale che sta di là da ogni letteratura, all’atto primordiale dello scrivere fuori da ogni
riferimento a forme letterarie o culturali determinate, a generi, a finalità, etc.
Nell’imbuto – Il malato O. sprofondando nelle valli della depressione, o nel nefasto imbuto della
disperazione (“colora di nero il mondo e lo restringe ad un imbuto nel cui punto più stretto sta il
disperato”) ::”Scrivo unicamente per sopravvivere, scrivo per scrivere…per essere nella realtà e nello
stesso tempo per estrarmi dalla realtà….”. “Non ho più in mente nessun libro nuovo, scrivo del nulla
[…]”. Il punto di forza del libro che Ottieri ha abbracciato intrepidamente, è la sua monotonia, il girare
intorno allo stesso perno, confitto dal pensiero ossessivo. Ma parlando di intrepidezza si ricade nella
letteratura, si sottintende un artificio letterario, un calcolo. La clinica è “il campo di concentrazione”,
formula felicissima, non solo perché propone il carcere come alternativa alla follia, ma perché costringe
terapeuticamente il malato a fissarsi sulla sua malattia, sulla sua sofferenza. Ed ecco il malato O.
almanaccare senza tregua se debba o meno telefonare all’amica milanese N., entrare in ansia se riceve
(o se non riceve) lettere da lei; corteggiare un altro ospite della clinica T. B. di cui invidia la
disinvoltura; architettare contatti mondani fuori della casa di cura e insieme temerli; domandarsi che
cosa pensi di lui la sua nuova conoscenza Caterina; rimpiangere la clinica italiana nella quale si sentiva
al centro degli interessi;rimuginare se debba o no tornare a casa in Italia; o superare giorno per giorno
l’angoscia del risveglio, del farsi la barba, dell’abbandonare il letto per gli scoscendimenti della
depressione o l’imbuto dell’angoscia. Queste strazianti inezie si ripetono ora per ora, giorno per giorno,
con una feroce monotonia e insieme con un’inesausta capacità di ferire: e il risultato sorprendente è che
il libro, compatto in tale ripetizione, finisce per essere ad ogni istante diverso. Il lettore non sta davanti
allo scrittore con il pietoso distacco, la curiosità un po’ morbosa, da giardino zoologico, del sano che
getti un’occhiata nella “fossa dei serpenti”: niente di bassamente patetico, di sensazionale, di
“commovente” in queste pagine, la cui miserabilità non chiede compassione. Questa scrittura non
lascia al lettore lo spazio per distinguersi, per sentirsi altro, ma nello stesso tempo non sollecita una
partecipazione viziosa, esteriore, di raccapriccio o di pietà; essa va a battere una zona interna, che
riguarda tutti, senza distinzione di sano o di malato. Perciò non è un libro del quale si possa indicare
questa o quella zona, questa o quella riuscita: va ingerito globalmente. Non so se a Ottieri piacerà che Il
campo di concentrazione si collochi fuori dalla letteratura, nella scrittura: per me è l’elogio maggiore
che si possa fare al suo libro.

IL PENSIERO PERVERSO (1971)

SATURA, IL PENSIERO PERVERSO, LA BELTA’
di Pier Paolo Pasolini,
(«Nuovi Argomenti», gennaio-marzo 1971)

Quel maledetto timore degli altri! Quel maledetto bisogno di possedere qualche crisma, sorprendente e
insieme atteso dagli altri!
Ottieri ha destinato il suo libro di versi agli altri: mentre doveva essere un libro non destinato a
nessuno, avrebbe fatto certo un capolavoro: ha fatto tuttavia un libro bellissimo, lo dico esplicitamente
e subito, un libro bellissimo. Ma questo è poco rispetto alla scienza o conoscenza che Ottieri possiede
su quel qualcosa che è la sua vita. Scienza in cui rientra il sapere che è proprio la forza di non essere
vili che manca: e che è proprio da ciò che nasce questo libro. Il primo colpo di sterzo (per usare la
terminologia di “difesa” tipica dell’autore) che Ottieri compie rispetto alla propria verità, è lo
scherzarci sopra. Ciò gli consente di distaccarsi da sé e di prendere le debite distanze dal proprio essere.
Da ciò l’armamentario lessicale di difesa, appunto. Il momento più delicato della confessione è
“corretto” da un richiamo alla complicità col lettore, utente anche lui delle allocuzioni rassicuranti del
linguaggio quotidiano, oggi per eccellenza tecnicizzante. Il timido sorriso che affiora negli occhi del
professore quando cita “tecnicismi” di altri campi, quelli più comuni: o che almeno comuni appaiono
agli altri, mentre per lui sono comunque specialistici e quindi da citare tra virgolette. Tutto il libro di
Ottieri è scritto con quell’angoscioso sorriso che cola dagli occhi.
Il secondo colpo di sterzo è l’adozione del lessico di una tecnica speciale, proprio riguardante il suo
caso, cioè il lessico psicoanalitico. Il terzo colpo di sterzo è l’adozione di un certo sentimento letterario
del “pastiche”, che si aggiunge alla scoperta della tecnica della poesia, dello scrivere in versi.
Il quarto colpo di sterzo è la dichiarazione di neutralità nei rapporti fra il proprio male e il proprio
lettore: neutralità che si manifesta come arbitrarietà. Invadendo motu proprio un campo finora non suo,
quello della poesia in versi. Ottieri vi si aggira con l’aria libera e disponibile di chi non ha ancora
alcuna tessera o patente in tasca, cercando accoglienza e perdono- ma con leggerezza e con
preventivata rassegnazione in caso di rifiuto. Ottieri ha fatto oggetto della propria poesia qualcosa che
per definizione può essere forse descritto, ma certo non espresso. Non credo che nemmeno al suo
psicoanalista questo libro potrebbe essere particolarmente utile: esso cioè non aggiungerebbe nulla a
quanto del paziente si può sapere: ciò che è fenomeno rimane fenomeno, ciò che è sintomo rimane
sintomo. La scienza ha fatto un catalogo, uno schedario e un sistema di tale fenomenologia: il cui
mistero resta ontologico e continua a spiegarsi solo se riferito alla fenomenologia della salute. La
poesia, a meno a dedurlo dal libro di Ottieri, può fare la stessa cosa: può esprimere meglio della
scienza, da una parte, e naturalmente peggio, dall’altra, gli stessi fatti, lasciandoli alla loro sostanziale
inesprimibilità. Come ogni contemplazione, però anche quella della poesia è piacevole: Ottieri ha dato
alla sua poesia lo stesso grado di piacevolezza che ha la scienza quando contempla. Anche il fatto
stesso che sia l’interessato, cioè la vittima, a contemplare il proprio male, non fa altro che aggiungere
piacere al piacere. Se Ottieri per caso- consciamente, com’è probabile, o forse inconsciamente- si era
proposto di non fare pietà, c’è riuscito. Anzi, si è reso oggetto di un interesse estremamente piacevole.
Naturalmente, tale piacere della contemplazione deve averlo provato anche lui, mentre scriveva del
proprio male: perciò l’ironia di cui parlavo prima, se è prima di tutto una difesa, finisce
coll’identificarsi con un’altra specie di ironia, che chiamerei primaria e che è la caratteristica non
velleitaria del grande spirito borghese, che è razionalistico, e quindi ottimista e felice. L’angoscioso
libro di Ottieri è un libro allegro; più allegro della stessa “Satura” di Montale. Perché l’ironia “sporca”
della borghesia, ossia quella esercitata unicamente sugli altri, nel libro di Ottieri è del tutto assente.
Essa è esercitata unicamente sull’autor: e non ha importanza se egli ha prima di tutto assente:e non ha
importanza se egli ha prima di tutto esercitato su di sé per anestetizzarsi e rendersi presentabile in
società:perché, in conclusione, tale fine è andato perduto di vista, e ne è rimasta solo l’ironia buona e
innocente – quella appunto delle grandi opere della classicità borghese. Il piccolo ambiente che
determina socialmente il momento “perverso” del male di Ottieri (male nato in un ambiente ancora più
piccolo e provinciale, reso però cosmico dallo stato infantile), è quello tipico che determina, anzi, vuole
e pretende tale ironia: ma alla fine, nel caso di Ottieri, questa “captatio benevolentiae” finisce piuttosto
coll’essere un atto d’accusa contro la complicità ambientale. Proprio nel momento in cui Ottieri tende
le mani disperatamente dal suo letto per invocare l’attenzione o la stima o la benedizione dei potenti (di
qualsiasi specie), egli resta più solo, con quel terribile sorriso che non gli si spegne negli occhi.
Inoltre, piano piano, la scienza – quella scienza della propria vita di intellettuale costretto da una grave
nevrosi dell’ozio – il letto, la poltrona, la tapparella da cui filtra la luce, il garage, il weekend – si
impone proprio in quanto scienza. Piano piano il libro acquista l’autorità di un’opera di morale,
empirica fin che si vuole, ma sempre obiettiva ed “esatta”. Ogni atto o oggetto nominato è “reale”:
proprio come quando uno scienziato vero dà un esempio e si riferisce a un caso. Anzi, ancora di più.
Ogni verso o ogni periodo del libro potrebbe essere una massima, che si riferisce alla cultura da cui
nasce, insostituibile come la dichiarazione di un testimone. È vero che tutto quello che Ottieri dice,
attraverso la sua scienza morale, ci è in gran parte noto: tuttavia ci interessa come scolari che nella
propria materia imparano qualcosa da qualcuno che ne sa più di loro. È l’esperienza. Un’esperienza
specializzata che ha trovato il modo di esprimersi brillantemente e con ispirata proprietà: e quindi
attraverso nessi continuamente nuovi, piacevolmente sorprendenti. La chiarezza è appunto quella di
uno scrittore morale di massime: ma ciò non esclude l’improvvisazione più folle, anche se sempre
corretta da quello speciale spirito ludico che il conversare mondano. Chi parla è sempre un competente.
Ed è strano come la buona educazione borghese, che impedisce la generosità dell’errore,
l’inopportunità del chiamare le cose col loro nome (a meno di non nominarle tra virgolette) la voglia di
aggredire frontalmente il dolore, la tentazione di far sapere la propria malattia mortale e degradante per
evitare pettegolezzi – è strano che tale buona educazione abbia potuto coincidere con l’oggettività della poesia, e il suo allontanamento dalla materia assomigli o si identifichi con quello della grazia da cui
Ottieri si sente negletto.

SQUILLANTE ESORDIO IN VERSI. IL PENSIERO PERVERSO,
di Andrea Zanzotto
(«Avanti», 30 maggio 1971)

Nell’ Irrealtà quotidiana Ottieri aveva presentato una summa delle impossibili manovre necessarie a
individuare il processo per cui la psiche perde il sentimento della propria realtà, e a precisare, si questo
processo e della lotta che tende a bloccarlo, il significato sociale oltre a quello “privato”. Il suo
tentativo dava origine a un documento del tutto eccezionale, veramente “Incollocabile”. Questo libro
aveva suscitato un’attenzione abbastanza viva, ma inquietudine e disagio si nascondevano dietro al
cerimoniale esorcistico di una accettazione letterario-mondana culminata con il premio Viareggio 1966
per la saggistica. Appare ora, sulla stessa linea di ricerca, che si differenzia nettamente da quella
dell’Ottieri autore di narrativa, Il pensiero perverso, anch’esso un oggetto bruciante, sghembo rispetto
alla norma delle abitudini psichiche, “alieno” nel senso più profondo: ma, proprio per questo, tale da
chiamare in causa violentemente il lettore. “la derealizzazione precedette il pensiero perverso – quale
devalorizzazione”, “ il pensiero perverso sostituì l’irrealtà – passò il dereismo attraverso il vuoto – prima di approdare all’odierno perverso: “Quel male in senso assoluto che è il patimento “conscio”
dell’erosione di tutti i valori perfino di quelli connessi al sentimento dello schema corporeo, si
manifesta in una fantasmagoria di incarnazioni diverse; il suo nome è una miriade di nomi, è “legione”
come quello del demonio evangelico. “perché vi è una vicenda, nel nulla”. Una delle sue peggiori
modalità è il pensiero perverso: quello che si è stravolto dalla sua funzione logica, prospettivizzante,
nel quadro della realtà psichica, per girare a vuoto su se stesso, nella propria tautologia che trova
inesauribili ragioni nell’affermazione della sua pura presenza, in un risucchio annichilente esercitato a
danno di sentimenti, sesso, azione. Il Narciso pensante consuma tutto il proprio eros nell’impatto con
un limite che è interno a Narciso stesso, la sua vita è la contemplazione del se-stesso cancellato proprio
all’atto di questa contemplazione e pur sempre riapparente oltre essa. “Il paziente non si uccide perché
l’ossessivo – è condannato a restare vivo; – per la buona volontà dell’ossessione stessa – che non
ammette un attimo di non-permanenza”. Il pensiero-nulla, in cui la realtà del paziente si risolve,
celebrerà così il senso della propria onnipotenza che è insieme assoluta impotenza. L’io diviene un
anti-io che si istituisce in dio che è un anti-dio e programma un mondo che è anti-mondo. Il pensiero
ossessivo- perverso è di “natura infinito” e dall’alto di questa infinitudine “buca il lavoro- vizio
dogmatico del mondo – da ogni parte lo sfarina, lo abbatte.” Il suo è un “lavoro straordinario” (qui con
una pluralità di significati in cui l’ironia vira al terrore del “fuori”, “extra”) e “l’acefalo incaudato
tempo puro – ha sconfitto la intenzione”;in questo spazio devitalizzato svaniscono i modesti incentivi, i
pretesti che animano la normalità e che riguardano “il produttore di merci – d’opere di “pensieri” di
spassi.” Nella sua feroce autosufficienza il vortice ossessivo si merita quindi le maiuscole proprie del
divino : “l’Alta Mente” “Colui” “Lui dice”. La storia, la vita vera, che si riportano poi ad una tematica
frequente nell’Ottieri narratore, si presentano qui come fatti irrilevanti, a sua remota distanza. Perfino
lo svolgimento della cura e il suo effettivo decorso terribilmente accidentato, o i movimenti della
corporeità (giacere sul letto, abbandonarsi alla “crisi di nervi”) sono intravisti come in un altrove; lo
stesso psicoanalista non solo non è più un punto di riferimento valido in qualche modo, ma è ridotto a
“flatus voci” (“Giancarlo”). Ci si potrà chiedere se abbia un senso, anzi se possa sussistere, la
trascrizione senza mediazioni, muro a muro, faccia a faccia, di una situazione del genere. È la domanda
che sempre si ripropone quando si ripresentano l’esperienze e il problema del limite: di un limite che è
ben diverso dalla negazione dialettica, la quale costituisce un polo all’interno di un campo che si
rivelerà omogeneo. L’opera stessa non ha più alcuna possibilità di porsi come tale: nata contro ogni
progetto, è sedimento, bava del corporeo, nel senso in cui poteva sentirlo uno come Artaud, è
soprattutto negazione della metafora, se nella metafora è sottintesa la tensione al “passar fuori” per
dominare il fuori nell’arco di un collegamento. Eppure mai come in queste situazioni appare in tutta la
sua necessità lo spazio in cui la metafora dovrebbe istituirsi. Non a caso è la poesia, il “poetico” quello
che qui si impone nel gesto dello scrivere (per la prima volta nella storia di Ottieri): metafora globale,
condizionante, intravista all’inizio, nell’attimo d’intermittenza dell’ossessione e subito rimossa.
In questo clima di antinomia, d’impossibilità, i versi vengono avanti per spinte, per accumulo, sommati
sordamente l’uno all’altro: un tipo di poesia ininterrotta- automatica col segno meno (ben lontana
dall’effervescente delirio di tipo surrealistico) che si trascina dietro le ceneri di una logica, i detriti di
una narrazione e perfino accenni di figure retoriche destituite di ogni funzionalità. Il pensiero perverso
fila il suo torvo ron-ron e il fantasma delle “poetiche” righe mozze appare come maligna allusione
all’incatenamento ritmico, secondo la trasposizione che la dinamica ossessionale può mettere a punto. I
vari “pezzi” in cui il libro è diviso sembrano interrompersi unicamente per stanchezza “fisiologica”,
così come l’ironia viene frustrata, è momentaneamente ammessa solo per essere smascherata nella sua
impotenza.
Il pensiero perverso a differenza di quello sconvolto della schizofrenia, che nelle sue esplosioni
inventive spesso investe il sistema linguistico, non ha nemmeno bisogno di compiere questa
operazione.
Qui la lingua, tanto nella sintassi, quanto nel lessico, non risulta particolarmente mossa (anche se non
mancano coniazioni), viene posseduta nel grigiore, depressa nella durèe ossessionale. Non importerà,
infine, riscontrare in questo libro, la presenza di qualcosa che riguardi direttamente una situazione
generale; così come esso sta al di qua dell’autobiografia, per non dire, del documento nosografico. È
appunto, un oggetto: che porta il neutro del puro accadere, di “ciò che sta acquattato –al di qua
dell’umano”, e insieme l’indizio della sua negazione. Ma chi verrà a contatto con questo oggetto non
potrà sfuggire alle sue intimazioni, tenderà a qualificarsi di fronte ad esso, lungo un personale consenso
o dissenso o raccapriccio, verso l’umano e la storia: E queste intimazioni sono proprie della poesia.

I DIVINI MONDANI (1968)

L’ETICA DELL’”HIGH LIFE”
di Vittorio Spinazzola
(«Vie Nuove», 26 settembre 1968)

Per molti connazionali fu una vera emozione quando alcune settimane fa si sparse la voce che Brigitte
Bardot, la grande Brigitte, si era fulmineamente innamorata di uno sconosciuto italianuzzo, il Luigi
Rizzi di Milano o di Genova. L’idillio finì presto e tempestosamente: ma non prima che la stampa
d’informazione ne avesse divulgato i connotati esemplari del personaggio. Non ha sangue nobile, non è
un campione sportivo né un divo dello spettacolo, si tratta solo di un giovanotto che ha abbastanza soldi
per non far niente fingendo di lavorare, ideologicamente tutto impegnato in quella suprema fatica che è
la battaglia sessuale.
Ecco, una figura del genere introduce abbastanza bene alla lettura dell’ultimo libro di Ottiero Ottieri, I
divini mondani (Bompiani). Esso è dedicato ai dominatori della cronaca rosa: aristocratici con quattro
quarti di sangue blu, ma anche indossatrici di bassa nascita, industriali poco affaccendati coi consigli
d’amministrazione e belle puledre dedite all’arte, mettiamo, o alla sociologia o magari aspiranti alla
carriera cinematografica. Comune a tutti è la convinzione che un’occupazione piacevolmente redditizia
sia indispensabile al prestigio personale. Così vuole l’etica della nuova mondanità internazionale, che
mostra di prenderla rigorosamente sul serio. Il racconto si svolge come una cronaca obiettiva,
impersonale: non c’è trama, solo un succedersi di cocktails, pranzi in piedi, pranzi seduti, pranzi in
piedi seduti, defilès, “cacciate” al fagiano o al cinghiale e tanti tanti brancicamenti con donne. Non ci
sono protagonisti o meglio sono tutti interscambiabili anche se domina il campo un Orazio proprietario
di una fabbrica di apparecchi igienici, tutto proteso a introdurre il bidet nel grande mercato
anglosassone. Il fatto è che in questo mondo fasullo non possono esserci vere e proprie individualità
perché ogni persona, pur liberissima di sé è in realtà schiava di un codice di comportamento non meno
rigido di quelli cui obbedivano i dignitari di corte del Re Sole. Le “creature” vengono sedotte sempre
con la stessa tecnica, le feste vengono condotte secondo identici rituali; infine, tutti parlano allo stesso
modo, secondo le norme di un linguaggio inderogabile. Ottieri reinventa molto felicemente questo
particolare gergo, evitando di cadere nella banalità della caricatura e fermandosi su una caratteristica
essenziale: la presunzione di dir tutto con poche parole eleganti e icastiche, salvo poi rovesciarsi nel
luogo comune o cascare nella tronfiaggine ridicola. Ma la comicità dei Divini Mondani non è solo un
fatto di linguaggio: questo modo di esprimersi è intimamente connaturato al ritmo di vita seguito da
gente, quanto più sfaccendata, tanto più febbrilmente, ansiosamente assorta nel rincorrere i suoi
passatempi. Così il racconto assume l’andamento di un balletto sincopato, eseguito da maschere senza
volto e senza interiora. Magari qualcuno si stupirà che una materia così futile abbia interessato lo
scrittore di La linea gotica e Donnarumma all’assalto, libri tra i più significativi della recente
“letteratura industriale”. E può darsi che I divini mondani vada catalogato tra le opere minori, i
cosiddetti divertimenti d’autore. Certo si tratta di un divertimento riuscito in modo quasi impeccabile.
Ma poi quando mai la futilità è stata un fenomeno poco importante? Personaggi come quelli di cui
parla Ottieri ce li vediamo proposti ogni giorno a modelli di vita. L’ideologia del benessere, del tempo
libero, dell’eterna vacanza ha in loro la più efficace incarnazione mistica. Altro che fantasmi
inoffensivi! Sono una realtà con cui ogni lettore di rotocalchi e fumetti è indotto a fare i conti.

DIVINI MONDANI E GIOVIN SIGNORE
di Mario Soldati
(«Il Giorno», 23 ottobre 1968)

Le nozze di Jackie e di Onassis riconducono naturalmente l’attenzione su “I divini mondani”,
miniromanzo di Ottiero Ottieri, apparso soltanto all’inizio della scorsa estate e subito dimenticato o non
abbastanza apprezzato forse per il pedantesco pregiudizio che “era un libro troppo breve”. Eppure si
tratta, nei suoi limiti, di un’operetta riuscitissima, che ritrae con la “high fidelity” di un registratore ma
anche con la secca ironia di un perfetto montaggio della colonna registrata, quell’ambiente dello
snobismo cosmopolita che, in fondo, i nostri scrittori conoscono poco, giudicando sommariamente o
fingendo di disprezzare, mentre la verità è che lo invidiano e, allo stesso tempo, non lo invidiano
abbastanza per superare la propria invidia e per sobbarcarsi alle pazienti, quotidiane fatiche di
frequentarlo come, per esempio, fece a suo tempo Proust frequentando il Cotè des Guermantes.
“Nella stanza da bagno immensa, del tutto nera, le rubinetterie dorate, una sottile musica si spandeva da
un grammofono vigilato da una ragazza graziosa. Un uomo in camice bianco a mezze maniche stava, le
braccia conserte, davanti allo stipite destro di una porta chiusa sul corridoio;Un’altra donna, in camice
nero, stava davanti allo stipite sinistro della medesima porta; un uomo cinquantenne, in calzoni grigio
scuri rigati e giacca nera, straordinariamente signorile, occupava lo spazio tra il lavandino e la porta, in
piedi. L’autista occupava il vano della finestra. Pietro sedeva sul cesso, brillante, nero…In silenzio,
dalla porta sulla camera, comparve Orazio. Di fronte allo specchio posto sopra il lavandino prese a
schiumarsi il viso con grande minuzia… Solo la impalpabile musica occupava la stanza nera dove tutti
attendevano in un profondissimo silenzio spasmodico… Indicò col dito la signorina del grammofono
comandando: “Avanti”. Esplose un disco in prosa […]”.

L’IRREALTÀ QUOTIDIANA (1966)

L’IRREALTA’ QUOTIDIANA
di Geno Pampaloni
(«Il Resto del Carlino», il 9 luglio 1966)

Il libro di Ottiero Ottieri (L’irrealtà quotidiana, ed. Bompiani) è probabilmente la novità più rilevante
di questa fiacca stagione letteraria. E, comunque, è la definitiva conferma di uno scrittore acutamente
problematico, il libro che meglio ne esprime la natura complessa, la delicata sottigliezza intellettuale, e
la capacità di incarnare le ambiguità contemporanee con tutto il loro peso esistenziale e culturale. Non
tutte le tappe del lavoro di Ottieri, così ricco di divagazioni e di sperimentazioni, erano state sinora
convincenti: dal primo romanzo ancora post-ermetico (Memorie dell’incoscienza, 1954) al bel romanzo
di fabbrica (Tempi Stretti, 1957) alla diaristica tessuta di sociologia e stretta attorno ai nodi della
società industriale (Donnarumma all’assalto, 1959; La linea gotica, 1962), al racconto di registrazione
comportamentistica (L’impagliatore di sedie, 1964). E, in questi ultimi anni, sinceramente, avevo
creduto che Ottieri si stesse perdendo dietro le mode, che sprecasse il suo ingegno con un po’ di
leggerezza. Ma dopo questo libro devo riconoscere che ha avuto ragione lui, e che le linee del suo
lavoro hanno trovato un esito coerente, Ne L’irrealtà quotidiana, egli ha rifuso tutte le sue esperienze,
le ha radicalizzate, ne ha fatto una vicenda drammatica e reale, come dicono, “romanzesca”.
Vorrei qui notare come, dopo il Croce, le novità di genere letterario non siano mai grandi novità; e non
darei quindi troppo rilievo al fatto, da altri apprezzato, che si possa parlare, a proposito di questo libro,
l’architettura solida e fluente delle sue linee è una delle riprove più concrete della sua riuscita. Anche là
dove appaiono più tecniche, letterariamente più aride, queste pagine tengono sempre il passo, e il
lettore le accompagna. Il “romanzo” che c’è dentro funziona. Più interessante ancora mi sembra notare
che, sempre rimanendo nell’ambito dell’autobiografia, e cioè dell’esperienza diretta, Ottieri è riuscito a
ttrasformare il tema consueto della confessione nel tema dell’indagine. Da un capo all’altro del libro,
con tenacia umiltà e rigore, egli cerca veramente di dirci “chi è”.
Il protagonista del libro, il personaggio che dice “io “, è persona di conoscenza. La sua storia privata e
pubblica non si discosta troppo da quella di infiniti altri personaggi che hanno attraversato, nella nostra
letteratura, gli stessi tempi e le stesse avventure. Lo conosciamo alla perfezione; dall’infanzia difficile
al crollo dei valori nel corso della guerra, al soprassalto della Resistenza, alla rivolta contro i padri,
all’infatuazione socio-marxista, sino al nuovo ingranaggio, affascinante e repulsivo, dell’alienazione. Si
può dire che gran parte della nostra narrativa dell’ultimo ventennio non abbia fatto altro che
raccontarcene la storia. E poiché la fantasia di nessun poeta è riuscito a staccarlo da noi, a dargli un
nome preciso, è divenuto, codesto personaggio, folla un po’anonima, compagno di strada.
Ottieri non tenta neppure di definire poeticamente il suo personaggio, nebbioso e irrinunciabile come
tanti altri. Ma ci fa registrare sul suo conto alcune differenze importanti. Gli lascia, come a tutti i suoi
confratelli, la vocazione di confessarsi, ma porta la confessione fino in fondo, lo fruga con gli strumenti
più aggiornati di ricerca, e arriva al limite di una conoscenza senza indulgenze.
Le pagine iniziali del libro, nelle quali il personaggio è visto immerso Nel suo sentimento di irrealtà,
che gli acuisce la sensibilità e al tempo stesso gli toglie il gusto di vivere; o quelle finali sul “male”, che
egli vive in quanto è sul punto di smarrIrsi, di divenire un puro momento della sorte, lo specchio
disperato e convulso di una realtà nemica, sono tra le più originali del libro, e lasciarono un’emozione
profonda. Il giuoco dei sentimenti, la conoscenza, la stessa vita morale divengono per il personaggio di
Ottieri un itinerario scosceso e misterioso tra gli ineffabili, alle cui rive sciabordano paurose le
vibrazioni di quel “silenzio irrecuperabile” ove il male è presente con la sua selvaggia minaccia.
Inoltre Ottieri non dà al suo personaggio un vero e proprio ideale di vita, non gli affida un messaggio,
non lo piega verso un esito edificante. Il suo problema egli lo limita alla salvezza, alla “salute”
etimologica, che è un valore primario in sé, perché salvaguarda la sua cellula di umanità, unico
contributo possibile all’equilibrio del mondo. Egli gli dà non un ideale ma una cultura e una
metodologia (la compresenza indispensabile di Marx e Freud) e fa le parti molto giuste nel distribuire
la quota intellettuale e la quota intellettuale e la quota esistenziale del suo curriculum.
Per il resto, il suo compito non è esortativo ma diagnostico, ed egli insiste a fare il punto con accanita
precisione, a mettere a confronto il suo personaggio con le forze e le inibizioni che, dall’esterno o
dall’interno, lo condizionano. Il processo coincide con il libro, e non sono lasciati margini per altri
elementi di natura meno controllabile.
Ottieri ci parla, correttamente, delle diverse forme che assume oggi l’esigenza di mutazione dei rapporti
esistenti nella società, ma non dei possibili traguardi o modelli di tale esigenza; ci parla dell’impulso
all’utopia, non di un suo qualsiasi disegno. Questo dichiarato, lucido ed estremista soggettivismo crea
nel libro una dimensione onesta, e nel personaggio una gradevole novità. Rispetto ai suoi innumerevoli
confratelli letterari, questo protagonista di Ottieri è, finalmente, un dichiarato Narciso:individuato,
messo a fuoco; e naturalmente, sofferto. Nel libro di Ottieri ci sono parecchie cose opinabili, e alcune
anche che mi sentirei di respingere. Esso è fondato tutto sul presupposto che il marxismo sia stato
assorbito come una necessità nella nostra cultura, e che la psicoanalisi sia il più moderno strumento
d’analisi sull’uomo. L’arte sembra all’autore “indifesa di fronte alla distruzione
dell’autoconsapevolezza” e viva solo sul filo dell’azzardo della sua lotta con la ragione. Il “male” non è
più di natura morale, ma psichica. Si tratta, in questi casi ed in altri, di argomentazioni molto attuali ma
difficilmente verificabili; e c’è una certa facilità, nell’autore, a liquidare come “retorica” aspetti ancora
largamente problematici del sentimento contemporaneo. C’è detto in breve una certa indulgenza verso
lo snobismo. Tuttavia, alla fine del libro (e questa è un’altra conferma della sua creatività) il nostro
dissenso risulta marginale rispetto alla discussione che Ottieri permette di aprire.
Egli riesce a partecipare, nella sua ricchezza di ambivalenze, a specchio fedele di una cultura come la
nostra, priva di vere linee egemoniche, riesce a partecipare sia del tradizionale storicismo (pur
vivacemente aggiornato), sia delle aperture che l’avanguardia, e lo strutturalismo, offrono oggi al
pensiero estetico e critico. L’irrealtà quotidiana è un libro capace di instaurare un dialogo aperto verso
entrambe le direzioni. Il personaggio di Ottieri non è chiuso nella sua generazione, le sue
contraddizioni investono un arco più ampio nel quale due momenti del nostro tempo, oggi a contrasto,
si possono riconoscere, e in qualche modo incontrare. In sostanza, ci dice lo scrittore, il mondo muta
non soltanto nelle sue determinazioni storiche, ma anche, e forse soprattutto, nella soggettività
dell’uomo che le misura. Il rapporto dell’uomo contemporaneo con la complessa mistificazione del
mondo in cui vive, è un rapporto sempre di dare e avere eternamente ambivalente. La precisione con
cui tale rapporto va studiato e còlto è temperata dall’estrema labilità di ogni misurazione . Il relativismo
contemporaneo è la difesa più attuale contro i rischi dello scetticismo, oltre che contro quelli del
fideismo.
Questi dunque mi sembrano i due punti essenziali che raccomandano L’irrealtà quotidiana come un
libro innovatore: l’immagine che dà, concreta e non letteraria, del Narciso contemporaneo, spogliata di
molte sovrastrutture troppo idealistiche, e l’attualità di un’esperienza che coinvolge nei suoi interessi
due generazioni per molti versi oramai molto distanti l’una dall’altra.
Rimangono poi i meriti più squisitamente letterari di Ottieri. Solo un vero ingegno di scrittore poteva
riuscire nell’ardua prova di oggettivare i dati, estremamente soggettivi, di una fantasia che si misura
non nel proprio momento inventivo ma sull’infelicità e sulla malattia che usurano oggi la società e la
persona.

POCHE ROSE FRA LE SPINE DEL GRUPPO 63
di Andrea Zanzotto
(«La Stampa», 12 novembre 1983)

Intervento al convegno di Palermo su “Letteratura fra consumo e ricerca” dedicato ai vent’anni del
Gruppo 63.
“Soltanto dall’esterno si sarebbe potuto pensare a “un fatto nuovo” quando clamorosamente i giornali
cominciarono ad occuparsi del Gruppo 63 e dei suoi convegni. Come è noto in esso confluirono, in
modo più o meno convinto, molti che operavano già da anni, isolatamente o a piccoli gruppi, alla
ricerca di “fatti nuovi”, non solo in letteratura. E cioè facevano ricollegandosi ad esperienze analoghe
compiute in vari paesi. “Altri, forse più ossessionati dall’idea che nulla era veramente possibile, che si
era entrati nell’era della convenzionalità coatta, della reversibilità tra “autentico e falsetto”, e convinti
che l’isolamento dentro il “terrore di ogni giorno” (di cui doveva risolversi l’ideologia globale
dell’equilibrio del terrore), era il destino di questi decenni, non sentirono alcuna motivazione ad
inserirsi in “gruppi formalizzati”, preferendo un labile eppure assai resistente reticolo di rapporti
personali, semisilenziosi, ammiccanti, piuttosto “depressi”, lavorando tra infiniti dubbi e insieme, come
in stato di necessità, sotto la sferza, come se ne andasse della loro sopravvivenza fisica e quotidiana,
anche nello spostare una virgola.
Certi comportamenti del “Gruppo 63” e dintorni apparvero improntati a giovanile tracotanza, ad un
certo trionfalismo ingenuo, per quanto devoto ad un mito dell’astuzia e della massima autocoscienza
raziocinante, del “saperla più lunga degli altri”.
“Il lavoro teorico del Gruppo apparve comunque vivace, anche se non certo esplosivamente nuovo;
quanto alla bravura nella “fiction”, molti componenti ne avevano già dato prova e ne diedero conferma,
anche scomparsi i gruppi. La questione della conflittualità a proposito di un fantomatico potere
letterario è talmente irrilevante che non val la pena di soffermarcisi.”
“Oggi è ormai chiarissimo ciò che lo era assai meno decenni fa: e allora non si osava dirlo, non si osava
“saperlo”, si temeva di morirne ammettendolo. Oggi è scontato che tutto è immobile e glaciale pur
essendo in ebollizione e sanguinante entro il quadro della sovraccennata reversibilità tra convenzionale
e autentico. Ogni opzione, od optional letterario o culturale, viene ammessa in quanto post-moderna o
a.-moderna, para-moderna, iper o ipo-moderna e per ciò stesso modernissima. Tutto è ammonticchiato
e appiattito su un orizzonte carcerario a somiglianza della sagoma cartonacea, della corazzata felliniana
(nel film E la nave va), ma non per questo meno minaccioso, eppure tutto è sculettante e saliente entro
le prospettive di un teleschermo, come in una sfilata di moda adeguatamente sponsorizzata.
“Da tempo si è dentro quell’”al di là” in cui ortodossia ed eresia si riconoscono nell’identità di una
stessa persona, pur continuando a confliggere. E psichiatra e paziente si scambiano cortesemente i ruoli
in un liscio, che è tale anche quando prende le forme del più assatanato rock. Tutti si sentono sintomi e
ne campano in qualche modo.
“Il libro più violento, sacrificale, intimativo, evidenza e presenza di sintomo che sia apparso in questi
decenni è forse L’irrealtà quotidiana, scritto già nel 1966 da Ottieri, un isolato, un erratico. E doveva
proprio per il suo puzzo essere allontanato.
“Ma il libro sintomo per eccellenza, perché divenuto oserei dire per propria inerzialità, testo in quanto
“oggettalità semovente”, entro i tessuti socio-culturali che lo attendevano, e che esso ha rivelati, è
quello di Eco, Il nome della rosa è l’Ufo, il detector, il “non si sa bene che sintomo”, di cui non si può
saper bene “di che sia sintomo”, ma che lavora, lavora attraverso i continenti. E questo libro non viene
forse in qualche maniera dal Gruppo 63?”

OTTIERO ALL’ASSALTO
di Massimo Onofri
(«Diario della Settimana», 20-26 febbraio 2003)

[…] Mi fermo al 1966 quando viene pubblicato, appunto L’irrealtà quotidiana, di Ottiero Ottieri, tra
tutti questi anomali, forse il campione d’eccentricità: “saggio romanzesco”, come lo definiva il
risvolto di copertina dell’edizione Bompiani, e vincitore per la saggistica del Premio Viareggio dello
stesso anno, ma contro il parere di alcuni giurati che ne contestavano l’ascrizione al suddetto genere
letterario.
UN BUON RITORNO. L’irrealtà quotidiana, con una partecipata introduzione di Giovanni
Raboni, torna in libreria dal 26 febbraio per l’editore Guanda, impegnatissimo in questi ultimi anni
nella pubblicazione di tutte le opere di Ottieri: ed è evento, a un anno e mezzo dalla scomparsa dello
scrittore nato nel 1924, da non lasciarsi sfuggire. Ha ragione Raboni, quando individua a quest’altezza
un “autentico punto di non ritorno” nella storia di Ottieri: “Da quel momento in poi, voglio dire,
nessuno dei suoi libri – dai più apparentemente “narrativi” ai più apparentemente “teorici”, da quelli in
prosa a quelli in versi (quella sua prosa, quella sua versificazione rese diversamente ma in egual misura
inconfondibili da un’insaziabile motilità, da un’inquietudine ritmica e sintattica e microfigurale che non
conosce né concede requie) – sarebbe più stato classificabile dentro un unico genere, tutti avrebbero
condiviso (ciascuno, si intende, a suo modo, con una sua diversa coloritura, o meglio, una sua svolta,
un suo scarto timbrico e tonale) la sorte non meno inebriante che rischiosa d’una doppia o tripla o
multipla appartenenza: racconto, trattato, diario, confessione, pamphlet….-fino, in prospettiva, a un
vero e proprio sgretolamento, a una vera e propria dissoluzione, non programmatica, certo, ma proprio
per questo così effettiva e radicale, di qualsiasi vecchia e finanche, perché no?novissima convenzione
formale”.
E dire che solo tre anni prima Ottiero aveva congedato La linea gotica, che, lavorato su una materia
analoga a quella del già celebrato Donnarumma all’assalto (1959), aveva costituito l’oggetto di
un’appassionata discussione sui rapporti tra letteratura e industria, quelli che molto avevano interessato
il Vittorini e il Calvino del Menabò.
Non solo:il decennio s’era pure aperto nel nome di Alberto Moravia, autore di un romanzo come La
noia (1960) che aveva provocato, quanto a temi come alienazione e depersonalizzazione, un animoso
dibattito. Quel Moravia che nell’ Irrealtà quotidiana, proprio Ottieri convoca tra i suoi interlocutori
privilegiati: insieme al Sartre di L’essere e il nulla (1943). Intendo dire con questo che c’erano tutte le
premesse perché il libro di Ottieri fosse troppo sbrigativamente rubricato, come in parte avvenne,
sull’agenda di quel freudo-marxismo che aveva trovato, o stava per trovare, un successo facile e
popolare nei libri del più commerciale e commercializzabile dei francofortesi, il Marcuse di Eros e
civiltà (1955) e ancor più, di L’uomo a una dimensione (1964).
Non voglio certo sostenere qui che Ottieri non abbia operato sotto il cielo della nobilissima
costellazione novecentesca che ha avuto come sue stelle fisse Marx e Freud: basterebbe pensare solo a
quanto l’abbia occupato, proprio nell’Irrealtà quotidiana, un concetto come quello dell’Entfremdung,
nel parossistico tentativo di trovare un punto di congiunzione tra le alienazione psicologica e quella
sociologica, fatta salva l’intercapedine, tra l’una e l’altra, entro cui si va a collocare proprio il
sentimento d’irrealtà. Né vorrei sottrarre la sua opera alla più generale (e generica) temperie che, in
quegli anni, s’agitava, tra sentimento dell’assurdo e denuncia dell’incomunicabilità, a diagnosticare il
terminale, se non agonico, approdo del personaggio –uomo: perché vi si colloca, questa sua opera, con
esiti tra i più originali.
IL MONDO CHE CAMBIA. Il fatto è però, che L’irrealtà quotidiana è molto altro: per un
discorso serrato che vuole avvalersi, immediatamente, dei più aggiornati risultati delle nuove scienze
sociali. Innanzitutto, una specie di riflessione trascendentale sull’io (corporeo, psichico, culturale,
sociale), che funzioni però, come una peculiarissima camera iperbarica in cui ogni singolo atto
percettivo sia sottoposto a spasmi. Il libro, in effetti, sin dalla prima riga, si congeda da una nozione
meramente cartesiana del pensiero e pare come anticipare, nella rivendicazione della radicale
ambivalenza della mente, nell’individuazione a livello tanto inconscio che conscio d’una vera e propria
bi-logica, certe avventurose e suggestive posizioni di Ignacio Matte Blanco : Il meccanismo (ossessivo)
di questo vecchio dramma della scelta è semplice: appena si decide una via, si finisce anche per
decidere la via opposta. Appena si tocca una cosa o certezza, si rimbalza, per ciò stesso, su un’altra
cosa o certezza che si trova o inventa. Non si è dubbiosi metodicamente ma disperatamente e quindi
non vale la famosa certezza del dubbio; si è dubbiosi in quanto accanitamente ambivalenti e si è
ambivalenti anche verso la propria ambivalenza, Si vogliono due cose sempre ma come volendone una
sola.”
Ecco “Cogito ergo sum”, ma anche (sed etiam) “ergo non sum”. E c’è di più: se è vero che la dialettica
estenuata, estenuante, delle proposizioni (sempre definitorie e mai definitive) delle contraddizioni,
tende a saturare il discorso, mirando utopicamente (distopicamente?) a far coincidere la mente col
cervello. Laddove il termine di saturazione sta semplicemente qui, come ha brillantemente intuito
Raboni, per quello di somatizzazione. Perché questo è stato il tentativo di Ottieri: rapportarsi alla lingua
come se la lingua potesse sovrapporsi al linguaggio del corpo, potesse valere per quel linguaggio, fino a
coincidere con esso. Sta proprio qui, secondo me, al ragione per cui le prove della Neoavanguardia (i
cui adepti sono comunque da contare tra gli interlocutori principali di questo Ottieri) non poterono non
risultargli ludiche, sottratte come sono al dramma gnoseologico ed esistenziale, e consegnate a una
dimensione sostanzialmente formalistica: soprattutto quando “dietro una neo-utopia linguistica”, la
Neoavanguardia rischiava di contrabbandare “una vecchia ansia tanto perfezionistica nel cercare
definizioni del sentimento d’irrealtà, quanto vile nell’affrontare il mondo intimo.” Con Ottieri, occorre
sottolinearlo, siamo subito dentro una regione di perplessa e tormentata filosofia, mai annebbiata dal
volontarismo dell’ideologia, da una tirannia del progetto che potesse fare aggio (come spesso ha fatto
nel Novecento più autistico) sul corpo vivo dell’opera, sulle sue costitutive libertà. Sulla sua più
autentica vocazione autolegislativa: non per niente, l’accanita interrogazione del sentimento d’irrealtà
diventa qui anche una meditazione sul non-essere, sul nulla, sul suicidio, sulla morte. In tal senso, lo
stupefacente e non lontano De morte (1997) affonda senz’altro le sue radici – non solo quanto a temi,
ma anche per la forma in cui è stato concepito – nell’Irrealtà quotidiana.
IL TOTALITARISMO DELL’EGO. Se fossi costretto, però, a indicare uno dei possibili centri di un
libro così poco centrato, non avrei esitazioni: e indicherei il capitolo della quarta pare (Il male)
intitolato L’io e l’io dal 1940 a oggi. Non è difficile ricavarne il capo d’un filo che riannoda L’irrealtà
quotidiana al libro d’esordio di Ottieri, Memorie dell’incoscienza (1954), illuminandolo nella sua più
vera luce egolatrica: mentre lo prolunga verso altri due libri inquietanti, anomali e gravidi d’un tempo
che oltrepassa di molto quello in cui sono stati generati, quali sono Il pensiero perverso (1971) e Il
campo di concentrazione (1972). Tutti insieme, questi libri, aprono un discorso decisivo e per niente
concluso su un altro totalitarismo doloroso del secolo appena trascorso: il totalitarismo dell’Io. Non è
stata, questa feroce tirannia della soggettività, uno dei tratti salienti di quel processo della distruzione
della ragione che Lukàcs voleva ravvisare,già operante, nel razionalismo di Bacone e Galileo fino a
culminare nei campi di sterminio hitleriani? Salvo poi, Lukàcs, cercare salvezza in un altro Leviatano,
ben più pericoloso credo della ratio scientifica: quella ragione dialettica, di matrice hegeliana, cui si
potrebbero imputare, non senza ragione, altri gulag. Ma, anche in questo caso, Ottieri s’è guardato bene dall’assecondare qualsiasi ipotesi di sorti magnifiche e progressive. E contro la tirannia di quella specie
di Re Sole che è stato l’ego novecentesco, ha giocato la sua solitaria carta di regicida, di riottoso e
ostinato monarcòmaco.

L’IMPAGLIATORE DI SEDIE (1964)

HILAROTRAGOEDIA E ROMANZO FILMICO
di Paolo Milano
(«L’Espresso», 12 luglio 1964)

[…] Cineromanzi, se non sbaglio, si chiamano certe narrazioni, di solito molto dozzinali, modellate
sulla trama di un film di gran successo. Il nuovo libro di Ottiero Ottieri (L’impagliatore di sedie,
Bompiani ed.) è l’opposto di un cineromanzo, essendo un romanzo espresso in forma cinematografica.
La “Breve storia” del suo libro, che l’autore ci confida in una prefazione è suppergiù questa.
Lavorando come sceneggiatore “per il più interessante regista italiano”, Ottieri era stato colpito da un
elegante morbo che egli chiama “alienazioe da sceneggiatura”, cioè “dal desiderio di mettersi in
proprio, … di correre l’avventura di quel mestiere poetico-organizzativo, creazionne artistica solitaria
contemporanea all’uso estroverso dell’esistenza degli altri, che è la regia d’autore”.
L’esperienza registica essendogli per il momento negata, e la sua ambizione di narrare essendo
d’altronde sempre viva, Ottieri ha optato per un compromesso: quello di stendere una “sceneggiatura in
una lingua diciamo letteraria,….in modo che le pagine, pur rimanendo tagliate per il cinema, avessero
una loro autonomia” romanzesca. “L’impagliatore di sedie” è il frutto di questa decisione.
La storia è quella di una settimana (lavorativa e sentimentale) di Carlo Armani, dirigente industriale a
Milano, e di un suo week end erotico-mondano a Roma. La donna di Carlo è una signora
presumibilmente affascinante, Teresa, immensamente indecisa sull’abbandono della vita borghese per i
rischi di un amore totale. Su un binario parallelo, negli stessi giorni, corre la vicenda di una segretaria
psiconevrotica, Luciana, che si batte sempre più stancamente contro l’impulso di uccidersi. Uno
psichiatra, alcuni “play-boys” e una “squillo” di alto bordo completano il “cast” poco peregrino.
A me sembra altrettanto difficile giudicare “L’impagliatore di sedie” come film che come romanzo. Le
sequenze cinematograficamente promettenti (tutto il tema, ad esempio, dell’”amore in macchina”, coi
dialoghi dei due amanti invischiati negli ingorghi del traffico, e poi la sosta nel “posteggio erotico”),
sono nient’altro che una cambiale spiccata sull’arte di un eventuale regista.
Mentre le pagine letterarie e descrittive (ad esempio, le varie fasi della disperazione di Luciana) non
riescono veramente romanzesche, poiché l’autore, per dovere cinematografico,vi si limita alle azioni, ai
gesti e alle battute di parlato,abolendo la coscienza, cioè l’anima di ogni romanzo. L’errore di Ottieri,
in questo suo “Impagliatore”, mi pare equivalente a quello dell’ultimo Antonioni, sebbene sia di segno
opposto: Antonioni si illude di poter fare psicologia romanzesca in forma cinematografica, mentre
Ottieri si affanna a strutturare un romanzo nei modi propri del cinema.
E l’impagliatore di sedie? È un personaggio minimo ma simbolico, che appare per qualche istante, un
dolce artigiano, anche lui piagato da una psicosi.

L’INDUSTRIA DIVORZIA DALLA LETTERATURA
di Carlo Salinari
(«Vie Nuove», 6 agosto 1964)

Il recente romanzo di Ottieri (L’impagliatore di sedie, Milano, Bompiani) mi ha interessato molto.
Non tanto per la sua resa artistica che è certamente inferiore a quella di precedenti opere dello stesso
autore, quanto per la ricerca di contenuto e di forma che l’Ottieri vi compie e che, a mio parere, è
suscettibile di notevoli sviluppi. Cominciamo dal contenuto (e il lettore mi scusi questa drastica
schematizzazione di cui mi servo per chiarezza di esposizione). L’Ottieri ci dice nell’introduzione al
libro che egli da qualche tempo si sente sciolto dal “matrimonio fra letteratura e industria” che aveva
celebrato negli anni passati, che anzi “la letteratura legata in maniera diretta ai temi della vita
industriale” dopo essere stata persino di moda gli sembra terminata e che ora si sente attirato da “trame
più intime, individuali e libere dal condizionamento sociologico”, addirittura dai temi eterni
dell’amore, della speranza, dell’amicizia e così via. E appunto un romanzo d’amore vorrebbe essere
questo Impagliatore di sedie, un romanzo d’amore che tuttavia, per la vocazione realistica d’Ottieri,
diventa un romanzo dell’impossibilità dell’amore, in una società alienata, perché l’amore si rivela
“l’inarrivabile traguardo d’un uomo e d’una società utopisticamente guariti”. Il romanzo ci narra così
dieci giorni di vita di alcuni personaggi: Carlo, direttore d’azienda milanese, diviso fra l’efficienza
produttiva, le attrattive della dolce vita (e a Roma egli passa un lungo weekend) e la vaga aspirazione a
un grande amore; Teresa incerta fra l’amore per Carlo e la comoda situazione che le offre il marito;
Luciana che la solitudine, l’incapacità di comunicazione, la mancanza di un amore vero conduce
sull’orlo della pazzia.
Dicevo che il contenuto mi interessa perché io non ho mai creduto che per scrivere un romanzo sulla
civiltà industriale si dovesse necessariamente parlare di una fabbrica, delle sue macchine, del taglio dei
tempi e così via. E non ho mai creduto che per scrivere un romanzo realista fosse indispensabile
rappresentare operai e contadini, scioperi o occupazioni di terre, lotte politiche o sindacali. Non ho mai
creduto, cioè, che l’arte potesse conoscere, con i suoi mezzi, la realtà del nostro tempo prescindendo
dal nesso insolubile che esiste fra eventi collettivi e sentimenti individuali, fra vita sociale e
comportamento privato. Anche una storia d’amore, dunque, può racchiudere, come in un nocciolo, il
significato e le tendenze della nostra epoca: o in senso negativo, con l’impossibilità che essa si realizzi
in un ambiente in cui anche la passione amorosa si muove fra i due estremi dello snob e della follia, o
in un senso positivo con la riconquista di un sentimento autentico, di un rapporto sincero e completo fra
due persone che è obbiettivo non
secondario di quel nuovo umanesimo a cui aspira una gran parte degli uomini. Il libro di Ottieri,
tuttavia, è interessante anche dal punto di vista della forma. Perché ci troviamo di fronte a un testo
letterario che ha l’andamento di una sceneggiatura cinematografica. Naturalmente della sceneggiatura
non ha l’approssimazione linguistica (perché non prevede che la parola sia completata dalla mimica
dell’attore) e, in più di una sceneggiatura, ha una minuta descrizione di ambienti e gesti. Il racconto,
così viene ad essere formato da dialoghi e da lunghe didascalie. Della sceneggiatura, però, ha la
divisione per scene e il passaggio rapido da una scena ad un’altra e talvolta il contrappunto fra varie
scene. E del cinema ha, in molti casi, la tecnica stessa della rappresentazione. Si veda, ad esempio,
questo tentativo di Carlo di voltare a sinistra con la sua macchina: “ma di fronte gli corrono addosso
per punirlo decine di macchine colpendolo coi fari, da dietro lo incalza di lampeggiamenti un torrente
di macchine da cui cominciano a levarsi quei colpettini di claxon che preludono al gran
concerto…Girato di traverso ora è accerchiato. Si impegna con cento occhi per sgomitolare
l’imbroglio. Il guantone bianco di un vigile avanza oltre il parabrezza”. Tuttavia la cosa più importante
è che dal cinema l’Ottieri ha preso la rappresentazione per linee esterne dei personaggi e dei loro
pensieri, la rappresentazione, cioè, solo attraverso le loro parole, i loro gesti, le loro azioni. Una tecnica
del tutto contraria al monologo interiore, sulla quale varrebbe la pena insistere (Ottieri, invece,
annunzia già un romanzo condotto per linee interne).
Perché le grandi tappe del realismo, sia pure nei modi diversi suggeriti dai tempi diversi, hanno sempre
coinciso con ritorni a una tecnica obiettiva: e mai come in questo momento la verifica nell’azione e nel
dialogo del flusso dei sentimenti interni dei vari personaggi potrebbe costituire un argine alle tendenze
irrazionalistiche, alla scomposizione della personalità umana contro le quali deve cominciare a lottare
un’arte veramente d’avanguardia.