OTTIERI E LE ESPERIENZE DI FABBRICA: È INSUPERABILE LA “LINEAGOTICA”?
di Giansiro Ferrata
(«Rinascita», 22 dicembre 1962)
[…] La linea Gotica (Milano, Bompiani), ha proprio una sostanza diaristico-riflessiva a contatto di una
materia profondamente legata al nostro tempo. Ottieri è un “intellettuale” esperto della vita di fabbrica,
per aver lavorato a lungo nel suo cerchio. Narratore forte e preciso in Tempi Stretti, poi in
Donnarumma all’assalto aveva già dato prove del suo interesse per il lavoro industriale, per i problemi
degli uomini dentro o intorno alle fabbriche. Ora ci ha dato un libro che potrebbe chiamarsi, sotto
qualche aspetto, La condizione operaia, ripetendo un titolo famoso di Simone Weil se – oltre un
evidente riguardo per i limiti del proprio campo di prospettiva – non ci fosse qui un più vario contenuto
autobiografico. Il libro ricorda, a volte, in questo senso, il notissimo diario di Alvaro Quasi una vita,
sempre escludendo l’ambizione di gareggiare con altri e accampare qualche motivo di “grandezza”.
“Taccuino 1948-1958” dice il sottotitolo. E quanto all’insegna da lui scelta per il libro Ottieri avverte
nelle prime righe: “una linea gotica, mentale, per me taglia a mezzo l’Italia. Ci vivo a cavallo…Roma è
il mio essere, Milano il mio dover essere….” Significa, come poi vediamo a poco a poco: nato a Chiusi,
fra Toscana e Umbria, cresciuto e anche maturato in modo da sentirsi tuttora un italiano del Centro (su
una linea di tradizione specificata in parte dalle origini nobiliari e provinciali), lo scrittore trova ormai a
Milano l’ambiente tipico per le proprie esperienze di lavoro, per la misura stessa del suo agire e pensare
nei modi più responsabili. Milano diventa qui l’immagine concreta dell’industria, nel rapporto con i
padroni, i dirigenti e gli operai e gli impiegati, i rappresentanti sindacali e gli specialisti in pubbliche
relazioni ecc. ecc.
Un’altra Italia, di là dalla linea gotica personalmente riferibile a Ottieri corrisponde per lui a un
groviglio di radici sue individuali, tra umori, sentimenti, malattie e infine tutti gli elementi più disposti
a riconoscersi nella “letteratura”, sua o di altri. Ma non esiste per fortuna nel libro una stretta
contrapposizione allegorica. L’individuo Ottieri non si rivela escluso, in alcun modo, dagli affetti per
l’Italia del nord, e quando si innamora, o subisce una gravissima malattia e in molte altre occasioni il
suo diario ha una luce intensamente naturale, fuori da qualunque schema. Èsu un piano diverso, è in
una forma molto meno rigida di quella evocata nel titolo (la linea gotica) e resistente invece a forza
d’elasticità, che avviene nel libro una lunga battaglia tra parte e parte del protagonista, senza visibile
conclusione.
La favola d’Achille e la tartaruga
Nelle fabbriche o nelle aziende dove esercita le sue funzioni tecnico-intellettuali, cominciando dalla
pubblicità editoriale e poi entrando in rapporti quotidiani col mondo operaio, l’autore porta sempre un
bisogno di aderenza a “tutti gli aspetti” del trovarsi lì: alla pratica del lavoro, ai motivi che dall’alto o
dal basso influiscono sul lavoro, sulle ideologie, agli atti, ai sentimenti più rappresentativi
nell’ambiente e nel vivo delle sue relazioni.
Mentre durava la guerra, quasi ancora ragazzo, si è distaccato dal fascismo, si è sentito socialista. Nel
’51 non rinnova la tessera del PSI, ma continua a praticare un’ideologia di sinistra, con spiccati
interessi sociologici; resta, anche sentimentalmente, un ribelle al sistema capitalistico, non viene mai
persuaso fino in fondo dalle mediazioni che – nelle forme più “avanzate”- offrono o cercano di attuare
le dirigenze industriali, nell’Italia neocapitalista. La critica di Ottieri si avvicina da questo lato a certe
verifiche del Memoriale di Volponi, non per nulla, tra l’altro, nutrite d’analoghe esperienza nell’Ivrea
olivettiana. È nota la favola d’Achille e della tartaruga. Per quanto corra, Achille, se il movimento
venga inteso come un aggregato di parti scomponibili all’infinito, non raggiungerà mai la tartaruga;
qualche frazione del primitivo distacco, basterà sempre a tenerli separati. Ottieri come Volponi porta a
sentire che il neocapitalismo, per quanto sviluppi l’intento di attrarre a sé il mondo operaio, non potrà
mai ottenere nella misura decisiva un simile effetto. Ma il marxismo trasferito in ”poesia” da Volponi
lascia pur avvertire un’altra distinzione netta, una scelta necessaria (e personalmente già compiuta) tra
lo scopo rivoluzionario e i limiti che vengono frapposti dalle nuove forme capitalistiche, dai
condizionamenti via implicati nella dialettica delle cose e delle forze, degli uomini che le muovono.
Nel libro di Ottieri, questa scelta appare più un dover essere – che un fatto risolutivo. La critica ai vari
aspetti incontrati da Ottieri nel sistema attuale dell’industria italiana, ha tutta una capillare ma infine
pesante contropartita. Guardando ai casi singoli con un’acuta diligenza, egli raccoglie naturalmente
anche il peggio tra ciò che impressiona, da ogni lato, il suo spirito d’osservazione. La crisi politicosindacale
così preoccupante intorno al 1957 e ’58, per la lotta operaia, soprattutto nell’industria
d’avanguardia, è intimamente avvertita nel diario. Con il suo scrupolo riflessivo sui particolari di ogni
giorno, Ottieri ne aveva annotato da tempo i sintomi, qualche motivo non riducibile alla strategia e
soperchieria padronale; aveva segnato in cenni anche mordenti gli episodi, i discorsi, gli stati d’animo
che a suo giudizio indicavano, da parecchi lati, ragioni di debolezza nel campo proletario, inferiorità
gravi delle sue forze offensive e difensive. Unendo a queste osservazioni i rilievi satirici sugli
individui, gli spunti di critica ideologica o storica rivolti un po’ dappertutto, e il tenace esame di
coscienza a piccoli colpi di bisturi nel proprio io, il conto può risultare stracarico di pessimismo.
La buonafede, in Ottieri, è fuori discussione. Di più: il suo modo di guardare e giudicare è anche un
impegno, un lavoro che si riporta continuamente fuori dai binari obbligati, cercando il senso interno a
un ciclo di esperienze sempre nuove, perché dirette, originali. Fra tante prove ormai di astinenza
dall’impiego preciso della mente sui fatti, esteriori o interiori, di maggior significato moderno,questo
libro accentua il suo valore. Ottieri è insieme uno scrittore vivamente qualitativo, un “moralista” acuto
e un testimone da considerare: non so chi altri metta oggi sulle nostre bilance una tale ricchezza di
questioni da tenere in confronto, da misurare a vicenda, rianimando nel problema operaio molte tra le
connessioni che lo rendono centrale nel nostro tempo. Soltanto, le bilance storiche non sono quelle
dell’orefice e c’è anche una nevrosi, in Ottieri, da razionalista – puritano sul filo d’uno scetticismo, che
gli impedisce d’usare la sottigliezza solo fino al limite delle misure più grandi […].
I 200 sopravvissuti della Fiat
Uno le può trovare in poesia, queste misure più grandi. Gli operai e altri come loro le ritrovano sempre
nel bisogno, nella lotta, nella ricerca delle strade per arrivare più su dei nostri labirinti. Ogni critica
portata fino in fondo è un recupero dell’esigenza di agire, come dicevano già alcuni greci; il
movimento sinceramente illimitato dell’intelletto, a tu per tu con le esperienze concrete, negli uomini
che amano e rispettano la vita torna sempre a incoraggiare le scelte utili per l’azione. Per mio conto
ringrazio Ottieri d’aver messo per ultimo e quasi conclusivo appunto “sociologico”, nel suo diario, a
pag. 278 questo: “Vittoria della FIOM alla Lancia di Torino. Gioia commossa e trattenuta del dottor M.
oggi in ufficio, dopo che m’aveva raccontato dei 200 sopravvissuti della Fiat, di quelli che le hanno
passate tutte in questi ultimi anni, come in una nuova, oscura Resistenza. Ripalpita un fremito politico,
nella confusione dei valori”.
Infatti. E allora la stessa “ via aziendale alla classe operaia”, tra i motivi che onestamente il diario
portava due pagine prima a una denuncia di sbarramento, può dimostrarsi un faticoso procedere in
direzioni aperte.
L’AUTOBIOGRAFIA E LA CRONACA
di Paolo Milano
(«L’Espresso», 1962)
[…] La linea gotica è un taccuino (fra sociologico, psicologico e politico) di un decennio tra il 1948 e il
1958, dai ventiquattro a trentaquattro anni del suo autore, precedente cioè nel tempo quel
“Donnarumma all’assalto” con cui Ottieri tentò per la prima volta il suo peculiare genere letterario, che
sta in bilico tra l’inchiesta sociale e l’autobiografia. (cfr L’Espresso del 2-VIII-1959).
Guido Piovene, nella prefazione loda Ottieri per la franchezza con cui in un suo scritto recente, egli
ammetteva d’essere stato fascista, anzi “cocciutamente impermeabile all’antifascismo” fino
all’invasione tedesca e di essere, oggi, meno socialista di dieci anni fa “perché un letterato, anche il più
“engagè”, è sempre un letterato e, e come tanti uomini comuni, subisce i flussi e riflussi della storia”. È
dubbio che di Ottieri vadano lodati questi sentimenti, di là dalla franchezza con cui sono espressi; ma è
certo che “La linea gotica” è un buon resoconto di come “i flussi e riflussi“ della società circostante
abbiano determinato quasi per intero la condotta di un giovane di questi anni, nobile di nascita,
altoborghese di condizione e proletario nei suoi sogni.
La “linea gotica” a cui allude il titolo non è quella che divise l’Italia in due durante la guerra, ma
quella, più ideale che geografica, che distingue l’Italia industriale dall’altra, e l’atmosfera di Roma o
Napoli da quella di Milano, o, più sottilmente, la vita particolare e intima da quella con gli altri e per gli
altri.
Quest’ultimo punto si configura per il protagonista del diario in una serie di dilemmi. Seguire le proprie
aspirazioni letterarie o entrare nel mondo del lavoro e dell’industria? Entrarvi con intenti di scrittore,
con interessi di sociologo o con mire di attivista politico legato al socialismo? Infine, scavare e
affrontare i propri conflitti interiori o invece svalutarne l’importanza e tentare di dimenticarli
nell’azione? Per un certo aspetto, quello privato, il diario di Ottieri è il documentario di una
contraddizione
cronica, cioè di una nevrosi. Lo stesso autore, che ne è consapevole, discute a volte se stesso in termini
scientifici e quasi clinici. Come per tanti intellettuali da mezzo secolo in qua, psicoanalisi e marxismo
sono per Ottieri, la Scilla e la Cariddi del suo cabotaggio ideologico; ma sul terreno della psicologia
egli si sente di casa, mentre la politica resta per lui un dovere, il “rimorso sociale” di un giovane di
famiglia agiata. Di due elementi che si indovinano essenziali nella vita di Ottieri, il suo matrimonio e il
riuscire o meno a mantenersi coi suoi proventi, il diario, tipicamente non fa quasi cenno. Della parte
privata della “Linea gotica”, le pagine belle e schiette sono quelle su una degenza grave, quasi mortale.
C’è poi l’aspetto pubblico del diario, il “taccuino industriale” che ne copre una buona parte:incontri con
dirigenti sindacali o tecnici, interviste con operai o burocrati, ambienti di fabbriche lombarde o
partenopee. Qui Ottieri dimentica il suo “istinto autobiografico” che imperversa ‘semprÈ; o meglio, qui
il suo irreprimibile psicologismo si appunta sugli altri e gli affina lo sguardo. Ne sorgono ritratti
efficaci. Ma nell’ultimo capitolo si legge: “Basta con l’infatuazione sociologica. Più letteratura”. Il
moto alterno ha ripreso, la spirale sempre perpetua.
OTTIERI, GENIO NELLO SCACCO
di Angelo Guglielmi
(«L’Unità», 20 luglio 2001)
Non avevo mai letto La linea gotica perché a quel tempo perso in altri libri e letture. Ottieri era legato
al gran discorso (al dibattito) sulla letteratura industriale del quale (come si vuol dire) non mi poteva
importare di meno. Mi pareva un modo per aggirare il problema della verità della letteratura che certo
sta nello sforzo ”di scoperta …degli altri” (noi dicevamo dell’altro) purchè gli altri non vengano
identificati in una particolare classe sociale nella fattispecie negli operai dell’industria allora ceto
protagonista emergente. Questo ci pareva una pretesa èerdente, frutto di ingenuità etica, di pregiudizio
politico, di semplicismo intellettuale. Di tanto ero, erevamo (io e i miei compagni di pensiero e di
scrittura di allora) convinti oltre ogni discussione e manifestavamo il nostro convincimento con
franchezza fin troppo esibizionista che (confesso) sfiorava la faciloneria.
Leggendo oggi La linea gotica scopro che anche Ottieri era arrivato allo stesso convincimento ma nel
fuoco della battaglia, voglio dire confrontandosi e scontrandosi con quella pretesa che a noi pareva
ingenua.
“Mi piacerebbe scrivere un romanzo che si svolgesse tutto a Dalmine. Un romanzo aziendale puro.
Dovrei abitarci un anno. Come? Mi caccerebbero via: Il lavoro non ammette zone morte, contemplative
e ogni stabilimento è una fortezza piena di segreti.” Ma poi non è solo questione di impossibilità pratica
“…la presenza di intellettuali in fabbrica … ha portato alla ridda retorica. Privati del loro terreno usuale,
la cultura…intristiscono, si spengono, oppure reagiscono, cercando il pelo nell’uovo e dando luogo a
una proliferazione di idee che corre più veloce della realtà ed è astratta, scientistica”. La linea gotica
registra (racconta) la sconfitta di Ottieri e della sua scelta interiore per Milano e la classe operaia ma è
proprio nella sconfitta che Ottieri realizza la sua salvezza. È lì che riesce a scrivere un libro
letterariamente importante che non si limita a fornirci un quadro ampio e drammatico del decennio del
boom (1948-1958) – con ii suoi slanci e le sue ipocrisie, le conquiste e le sofferenze, le attese e le
delusioni – ma ci propone un modello letterario e di scrittura di forte potenza e novità. Intanto la forma
del diario che è molto più di un diario avvicinandosi a quella struttura praticata dai moralisti francesi
dei secoli scorsi e più recentemente da Karl Kraus in cui la frammentarietà è la conseguenza non tanto
della successione dei giorni (cui il diario è legato) ma dalla libertà del pensiero che, contraddittoria in
cui viviamo, oggi più di ieri rifiuta gli schemi di svolgimento preordinati e si avventura in
peregrinazioni che comportano un continuo fermarsi e ripartire. Ottieri abbandona Roma (dove vive) e
parte per Milano (“proiettando nel settentrione il mondo del dover essere, del lavoro, dell’impegno
civile, della faccia morale e del collettivismo) e cosa trova? Trova una città nera di lavoro e lucida di
neon, oppressa da metodologie di lavoro ripetitive e fiaccanti e di parole d’ordine sindacali
aprioristiche e di principio, stritolata dalla violenza dei meccanismi capitalistici, affondata
nell’alienazione e nella nevrosi, umiliata da pratiche di compromissione inevitabili e sempre più
frequenti. Vi trova la malattia e attraverso la malattia non la speranza ma l’incontro con la verità.
Ottieri con dieci anni di anticipo, soffrendola in prima persona, realizza quella consapevolezza, quella
capacità di vedere poi diffusamente esplicitata nel Memoriale di Paolo Volponi.
Il romanzo, uscito nel 1962, mette in campo (nel ruolo del protagonista) un operaio (Albino Saluggia) a
simbolo del rapporto alienato tra individuo e strutture produttive. Ma è proprio l’alterazione mentale, il
disordine dei pensieri, provocato da quel rapporto sbagliato, è proprio lo stato malato in cui il
protagonista precipita a liberare lo spazio emotivo, a dare intensità al sentire, consentendogli di cogliere
lampi di irrealtà che, in quanto non osservabili direttamente, sfuggono all’uomo sano. La malattia eletta
a passaggio obbligato della comprensione è la condanna, che, prima dell’operaio, Albino Saluggia,
s’infligge e patisce “Ottiero Ottieri”.
“Capire è star male?Vecchia, antipatica storia.” Salito a Milano per scontrarsi con la realtà lì dove più
preme (nel fervore del lavoro operaio) e nutrirsi della sua eticità Ottiero finisce per avvertirne
l’inadeguatezza (fino all’ipocrisia) e, nel disinganno, scopre che ”per inseguire la speranza devo
alzarmi con la fantasia, in punta di piedi e sbirciare oltre la realtà”.
Furio Colombo, prefando il volume, sintetizza con acutezza la discesa (dopo tanto credere) della
delusione scrivendo: “Classe operaia vuol dire che puoi morire di disperazione e sembrerai soltanto
inadeguato alla mansione.”
Dicevamo che la sconfitta di Ottieri è la sua salvezza: perdendo Ottieri si fa scrittore. E scrittore di
grande talento, che con La linea gotica scrive forse il suo libro migliore. Stupisce il risultato maturo
rispetto alla giovane età in cui lo ha realizzato. Èuno di quei libri alle cui verità (definitive) non ci si
stanca di ritornare. Lo leggo come un libro di massime (di riflessioni ultime) che, pur legate a una
congiuntura storica, la risolvono in gesti e pensieri che misurano (piuttosto) la condizione umana. Né
posso chiudere senza accennare alla scrittura: un intrecci compatto e vigoroso, tenuto in tensione da
continue rotture, delle quali, se nei libri successivi Ottieri sembra abusare, qui sono scanditi nei tempi
(serrati) di un pensiero lucido e sicuro.