UNA IRATA SENSAZIONE DI PEGGIORAMENTO (2002)

UN CASO CLINICO CHE FA TREMARE
di Giuliano Gramigna
(«Corriere della Sera», 23 giugno 2002)

Come la talpa proverbiale (marxiana, shakespeariana?), Ottiero Ottieri è impegnato ostinatamente a
scavare nel suo cumulo di materia psichica: eccone il prodotto più recente, Una irata sensazione di
peggioramento, romanzo pubblicato da Guanda (184 pagine, euro 13,50). In effetti, “scavare” è il
verbo meno adatto a definire la qualità del suo lavoro narrativo, gli effetti sul lettore. Ottieri è il nostro
scrittore contemporaneo che con più perspicacia, anche teorica, e novità abbia maneggiato
letterariamente il tema della nevrosi, riproducendo nel cursus narrativo la qualità autentica
dell’inconscio, la fluidità. Il nevrotico, mi è capitato di dire, è greve, lamentoso, monotono; la nevrosi,
o se si vuole l’inconscio in atto, fluida, inventiva, mai identica a se stessa.
Così, anche questa Irata sensazione di peggioramento, come altri libri di Ottieri, da Contessa, a La
psicoterapeuta bellissima, a Cery è il referto di un’avventura analitica, ma trasforma la propria
ripetitività fattuale, clinica nell’invenzione di un ritmo strutturale, insomma letterario. Si licet, se Freud
ha preso in prestito dalla letteratura la forma romanzesca del caso, Ottieri –il paragone non disgrada per
eccesso– assume necessariamente il “caso clinico” come macrocellula del proprio narrare.
“Io sono molto più famoso come nevrotico che come letterato” annota Ottieri nel suo libro,
naturalmente prendendosi gioco del lettore prima che di sé: verità apparente che maschera o svela la
realtà sostanziale, il rapporto particolare fra materia autobiografica e storia narrata: “io sono quel lui
che si stravolge e soffre nelle pagine” – e che qui sarà la “terza persona” Pietro Mura, scrittore in
pendolarismo terapeutico fra Milano e Torino, per via di una depressione, o forse paranoia, speziata da
un dongiovannismo fantastico e frenetico, che lo spinge verso l’assistenza dell’analista, Caterina, e la
fidanzata di costui, Oliva, seducente poetessa (in erba); ma meglio sarebbe dire verso tutte le donne di
tv e pubblicità.
Non conta fare un’analisi clinica circostanziata del caso Mura, piuttosto proiettare il caso sullo schermo
del romanzo (Ottieri richiama a sé e il lettore alla romanzocentrica disciplina” quando la storia
minaccia di sfuggirgli di mano). “Ma come narrare fatti, azioni per di più con dialoghi brillantissimi,
sorprendenti, esplosivi – per noi che siamo così attaccati alle Idee?” Il narratore si duplica, anzi triplica,
in se stesso, in Pietro Mura e in chi deve ascoltare, seguire sotto la macchina romanzesca il flusso
dell’inconscio. Perché, malgrado i felici intrecci fra fasi patologiche, follie erotiche, polemiche
politiche spietate nell’ultimo terzo del libro, come peraltro tipicamente in altre opere di Ottieri, è quello
che si muove, che corre via, a designare il vero soggetto di Una irata sensazione di peggioramento.
Ho scritto al principio che “scavare” è verbo troppo pesante, prevaricatore: non si scava nell’inconscio,
come la talpa nel mucchio di terriccio. Trovo incidentalmente in una pagina del libro due verbi più
confacenti al movimento, al fluire via – carattere compositivo fondamentale di questo Ottieri:
“tremare”, “tremolare” e credo indichino il modo con il quale il narratore presta orecchio al “testo
inconscio” che fluisce sotto (dentro) il racconto per dire così evidente, nel quale Ottieri poi scaraventa
anche il suo gusto del catastrofismo (che sarebbe un altro indizio da convocare utilmente nel discorso
critico su questa narrativa).
Il lettore appena attento non mancherà di notare che il romanzo non si chiude. Non voglio
semplicemente dire che non conclude, a livello di aneddoto romanzesco, di contenuti, la vicenda di
Pietro, di Caterina, di Oliva e tanto meno la questione della “guarigione” (o “peggioramento”) del
protagonista. Voglio dire che l’ultima pagina lascia un buco a livello proprio struttural-linguistico.
Non si tratta di una mera astuzia letteraria, una variante del gidiano “potrebbe continuare”. Quel buco,
quel vuoto sarà una proiezione, nel progetto letterario, della fin troppo famosa degnità analitica circa
l’analisi “interminabile”? Ma le agudezas di Ottieri narratore (di Ottieri nevrotico) sono probabilmente
più acuminate. Il “romanzocentrismo”, la forma ad anello del romanzo incorpora, comprende anche
questa apertura, attraverso cui qualcosa scappa via. Ottieri non offre soddisfazioni troppo facili ai suoi
lettori.

OTTIERI, L’ULTIMO ASSALTO
di Giulio Ferroni
(«l’Unità », 26 luglio 2002)

Ho appena finito di leggere l’ultimo libro di Ottiero Ottieri, Una irata sensazione di peggioramento
(Guanda, pagine 184) e mi appresto a scriverne una recensione per l’Unità, quando mi
giunge fulminea, assurda, casuale, la notizia della morte dell’autore, che della morte parla spesso nel
libro e che tra l’altro già nel 1997 aveva pubblicato un libro intitolato De Morte: fulminea, assurda, mi
prende davvero una sensazione di radicale peggioramento, con lo sgomento di trovarmi di fronte ad
una combinazione micidiale, ad uno di quegli incroci del destino tanto rari quanto ineluttabili, che
rivelano nel modo più sottile e lacerante la crucialità di una lettura nel suo stesso svolgersi, il suo
metterci in causa nel nostro stesso essere nel mondo, in una determinatissima situazione.
Questo libro di Ottieri è del resto uno di quelli che suscitano immediatamente una spinta a riconoscere
una situazione, ad immergersi in un dialogo: che scatenano un’aspirazione allo scambio, che fanno
direttamente percepire la presenza di un autore che parla, che respira e vive, che nella sofferenza
afferma una volontà di vita, cerca e difende un valore per sé e per il mondo. Tanto più raggelante per
chi l’ha appena letto è allora l’immediata notizia della sua morte: si sente troncata per una tremenda
forza esterna quella spinta che aveva guidato l’atto della lettura; e la lettura stessa appena conclusa
appare mutata di senso. Si sente di non poterne più parlare nel modo e nei termini in cui ci si
apprestava a farlo. Le parole del titolo (Una irata sensazione di peggioramento) diventano più
perentorie: l’ira e la rabbia che il libro contiene si riversano su noi che restiamo e siamo trascinati come
da uno sprofondare della realtà e della nostra capacità di comprenderla, dalla sensazione di un
definitivo venir meno dei mezzi stessi per reagire al peggioramento.
Certo, a ripensare all’intera esperienza di Ottieri, alla sua attività di intellettuale e scrittore, al suo anche
doloroso percorso umano, sentiamo di riconoscere il diagramma di una razionalità sconfitta: a un certo
punto della sua vita egli ha condiviso quell’orizzonte “olivettiano” che è stato essenziale per tanti nostri
importanti scrittori (da Volponi a Fortini a Giudici), incontrandosi con un progetto “positivo” di
società, nel tentativo di dirigere il nostro paese, tra anni ’50 e ’60, verso un modello industriale
moderno, razionale, aperto, problematico. Di questo progetto, della situazione in cui si inseriva, degli
acquisti e delle contraddizioni che essa comportava, delle modificazioni che ne conseguivano nel
tessuto sociale, civile e antropologico, egli ha dato una rappresentazione davvero essenziale, intensa,
immaginosa, aggressivamente critica, in alcune delle sue prime opere (memorabili, tra tutte,
Donnarumma all’assalto, 1959, e La linea gotica, 1963), in cui l’esigenza di una razionalità
“progressiva” si scontrava appunto con l’emergere di un sotterraneo malessere, con la verifica
dell’alterarsi del colore e del senso stesso della realtà, con l’avvertimento di un “disumanizzarsi” e
derealizzarsi del mondo, a cui invano reagiva la vitalità, l’energia, la forza autentica di un universo
“popolare” che Ottieri sentiva insieme estraneo e vicino. Ma sullo sguardo sulle contraddizioni dello
“sviluppo” industriale del nostro paese (sguardo che sarebbe interessante confrontare con quello
diverso ma forse convergente di Paolo Volponi) si è sovrapposta assai presto l’esperienza della
sofferenza psichica, che ha condotto Ottieri ad interrogare in modo più violento il volto sempre più
sfuggente della realtà esterna e nello stesso tempo ha dato luogo ad una debordante volontà espressiva,
con un’insistenza ossessiva a cui egli stesso ha affibbiato giocosamente il termine di “graforrea”.
Di questa invadente e scatenata volontà espressiva Una irata sensazione di peggioramento costituisce
come il punto di arrivo, la sintesi ora definitiva, l’accelerazione esaltata, disperata e trionfante nella
ricerca di un’esibizione di sé insieme dolente ed ironica, riservata ed impudica, delicata e aggressiva,
mirante a sconvolgere gli equilibri del mondo visto e vissuto, a scagliarsi contro l’oscena
preponderanza della realtà apparentemente “normale”, contro le sue incorreggibili storture.
Quest’ultimo libro viene dopo una fitta serie di altri libri di Ottieri rivolti a dar voce al personale
malessere psichico e a trasformarlo in occasione di invenzione, di gioco, di manipolazione infinita, di
contatto con le cose e con le persone: libri-pastiche, romanzi poemi e poemetti, il cui culmine è forse
costituito da quel libro totale, zibaldone, menippea interminabile divagazione grottesca e carnevalesca
che è Il poema osceno (1996). Attraverso la tematica della malattia, parlando più direttamente di sé,
Ottieri è venuto a toccare visceralmente la malattia del paese Italia e del mondo l’insieme della sua
opera si rivela allora come un entretien infini, un continente dai mille tentacoli, che registra la malattia
dell’io e quella del mondo, dell’individuo che si muove tra paesaggi urbani, reticoli stradali, luoghi
separati di soggiorno e di cura, cercando l’impossibile salute propria del mondo: e in tanti segni,
imponenti e meschini, tragici e ridicoli, nella malattia propria scopre il volto rovesciato di ciò che è
diventato un paese dominato, dopo tante sconfitte, speranze, dai modelli televisivi e pubblicitari
insidiato da una deformazione che appare condensata nell’aria, che corrode le sue apparenze più
evanescenti ed effimere, come la sua più consistente materia fisica. Ma ho parlato anche di gioco:
Ottieri non si è posto mai come un assorto sacerdote della sofferenza: ha affrontato la malattia e la
scrittura della malattia con un ironico e autoironico spirito beffardo, estraendone paradossi e
combinazioni abnormi; ha liquidato ogni patetismo del dolore, ricavando da quella sua ossessione
scrittoria delle scaglie di desiderio, irresistibili e disinvolte combinazioni erotiche, in un divagante
“dongiovannismo” letterario (e recitando la parte di un don Giovanni eternamente malato, eternamente
sconfitto ed eternamente trionfante: nei suoi libri ultimi lo stesso mondo delle istituzioni mediche e
cliniche è stato investito dall’avvolgente respiro di un eros, che il malato scambia in varia misura con
dottoresse, infermieri, inservienti, degenti). Una irata sensazione di peggioramento narra, in terza
persona, la vicenda di un personaggio in gran parte autobiografico, Pietro Mura, scrittore alcolista con
gravi crisi depressive, romano che abita a Milano, che all’inizio degli anni ’90 si reca periodicamente a
Torino per farsi curare dal dottor Carlo Migliorini, uno psicanalista che gli somministra una sostanza, il
GHB, “l’estasi liquida”, che lo allontana provvisoriamente dall’alcol, ma crea una nuova forma di
dipendenza, a cui si lega il continuo oscillare del malato tra entusiasmo e depressione, ma sempre più
cadendo in quella sensazione di peggioramento che da titolo al libro (peggioramento a cui ironicamente
si oppone il nome stesso del medico, Migliorini). In un sottile gioco di stacchi e di sovrapposizioni tra
la voce del narratore (chi scrive) e quella del personaggio (che spesso vengono a confondersi in un noi
che ingloba in sé anche lettore possibile), il protagonista, “eterno moribondo” che “teneva molto alla
vitalità e alla vita”, si sposta continuamente tra Milano e Torino: e in tutto il corso del romanzo Milano
rappresenta la dissoluzione di ogni razionalità, il trionfo dell’Italia più cieca ed egoista, insieme
sguaiata e plastificata, sotto il dominio di una finzione che ha inquinato anche il colore del suo cielo;
ecco cosa è diventato quel cielo già manzoniano: “Non esiste in nessuna parte del mondo un cielo finto
come quello di Milano. I sindaci che si susseguono lo tinteggiano con scarti di vernici che si fanno
mandare a barili da una fabbrica puzzolente di porto Marghera, che inquina a morte tutta la favolosa
Laguna…”. La Torino distesa e razionale, degli Einaudi e degli Agnelli, promette oasi di pace e
distensione, non solo per i colloqui – duello con Migliorini, ma anche per la relazione che ben presto
Pietro imbastisce con l’assistente del medico, la giovane dottoressa Caterina. Ma nel racconto al
succedersi dei viaggi tra Milano e Torino e al sovrapporsi e scontrarsi delle due città si intreccia un
movimento del tempo: si va e si viene dall’inizio degli anni ’90 a quello del nuovo millennio, con le
varie fasi di vicende pubbliche che hanno portato al trionfo di un ben noto cavaliere e di un mondo
verso cui Pietro (e il narratore) manifestano più volte il loro odio. Questo odio dà luogo ad uno
sprezzante sarcasmo, a rancorosi e pungenti giochi di parole, ad accorate denunce della condizione del
nostro paese: e ce n’è per tutti, anche per molta sinistra, da parte di chi qui si definisce “un gauchista e
un gaddista” (ma tra tutti gli strali spiccano quelli rivolti contro Bossi e Cossiga, con uscite travolgenti
ed esilaranti). Nell’affollarsi della realtà virtuale, nel trionfo indecente del pensiero unico televisivo,
per l’impenitente malato di “casanovismo oculare o dongiovannismo virtuale” resiste solo l’attrazione
delle apparizioni sul video di variegate bellezze femminili: immagini di inappagamento, di eros
inarrivabile, di giovinezza perduta, e insieme di degradazione, di volgarità, di insipida banalità. Pietro è
del resto involto in un groviglio di paradossi e contraddizioni, e lo sa benissimo: vorrebbe invadere il
mondo, amarlo e distruggerlo, amare tutte le donne e cercare la giustizia, l’autenticità, la solidarietà tra
gli esseri che meritano il nome di “umani”. Odio assoluto e amore assoluto: con una interrogazione
continua, più o meno esplicita, sul senso stesso della cura analitica, sulle interferenze tra la cura e i
desideri, tra il modello “positivo” e “migliorativo” proposto dal medico e cercato dal paziente, e il
consumarsi della vita individuale (lo spettro della follia e quello della morte, che più volte insidiano il
personaggio), il peggiorare dell’universo sociale e politico. Sospeso tra peggioramento e rimedio (altra
parola che si affaccia significativamente nel libro), Ottieri testimonia qui con vigore (e con tratti di
corrosione linguistica che fanno pensare ad un Céline quasi disteso, più cordiale, svagato e intenerito)
una profonda passione della realtà e della vita, nella cocciuta (aggettivo suo) speranza di un rimedio
non falso, non illusorio, nella frana dell’esistenza e della realtà. Peccato davvero non aver potuto dirgli
quanto essenziale e quanto importante sia questo libro e tutta la sua opera per chi al peggioramento
tenta comunque di resistere.

CERY (1999)

SULLE VETTE DELLA MONTAGNA INCANTATA. LA MALATTIA COME LIBERTÀ.
L’ULTIMO ROMANZO DI OTTIERO OTTIERI
di Enzo Siciliano
(«la Repubblica–Cultura», 25 agosto 1999)

La storia è ambientata in una clinica svizzera per alcolisti nevrotici.
Il luogo si chiama “Cery” ed è il titolo del libro che un po’ rimanda a certe atmosfere di Mann.
Ogni malato ha la propria “montagna incantata”. Molte “montagne incantate” si somigliano, ma ogni
malato è malato a modo suo. Ottiero Ottieri della malattia ha fatto il tema della propria esistenza di
scrittore: ma ogni suo libro di quel tema non è una replica, quanto una interrogazione che ripropone il
perché una malattia, o quella malattia, possa vivere sulla scena del mondo.
La “montagna incantata” di cui Ottieri ci parla oggi è una clinica svizzera per alcolisti nevrotici. Fra
quelle quinte il malato –un protagonista di romanzo che dice “io”– lotta per affermare la propria
indipendenza sia dal male sia dagli stessi medici che lo curano. Essere malato diventa una
rivendicazione di libertà (di indifferenza?) verso la terapia che dovrebbe curare e guarire.
In Cery (Longanesi, pagg. 150, Lire 22.000) –titolo del libro è appunto il luogo dove sorge la clinica in
questione– il malato, stregato da un alcolismo irrefrenabile, è uno scrittore che, contro ogni strategia di
cura, mette in atto (infantilmente?) una controstrategia di pervicace rivolta.
Mille sotterfugi per accaparrarsi un po’ di whisky, altrettanti stratagemmi per soddisfare un infiammato
erotismo che si risolve in una frenetica verbalizzazione scritta.
“In venti anni, o trenta, attraverso mille cocktail, cene, dopocena, esibizioni e appostamenti
pazientissimi in località famose di mare e montagna, con fatica, sopportazione infinita, attese snervanti
per rimanere ultimo, chiudere ogni ruscelletto d’occasioni nella notte, ho cercato di accostare la
bellezza, di conquistare ogni notte una bella, una bellissima, una sventola. Non ci riuscii mai. Ci davo
dentro ma ci stavo di lato. Non ero mondano, né snob. Frequentavo i luoghi dove più frequenti erano le
belle ed erano per antonomasia i luoghi della mondanità in cui abbondavano i principi e i baroni. Non
fui “mondano”, mai. Sono stato sempre un intellettuale, la mia pazzia fu sempre veicolata sul sesso.
L’alcol mi sosteneva nella faticosissima impresa di Tantalo. Un frutto non lo colsi mai, in quel paradiso
infernale dove avrei dovuto divertirmi. Non mi divertii mai, sempre ossessionato e teso. Non ero un
mondano, ero un semplice maniaco”.
Questa lunga lassa va letta come la proiezione fantastica della forma di una malattia che coinvolge
procédées sociali, mondani, e che divora un individuo mosso a far di tutto per salvare nella propria
mente la distanza naturale dall’oggetto che ogni atto conoscitivo comporta.
Lo scrittore, il protagonista di Cery, sta al mondo per conoscerlo, per sperimentarne il peso, la
consistenza attraverso la vita, la propria anzitutto. Dice: “Scrivo unicamente la realtà, né di ricerca, né
di best seller”.
Niente può esser detto più esplicitamente: “Scrivo unicamente realtà”.
Bene. Questo scrivere realtà (nel romanzo, le lettere di corteggiamento amoroso ed erotico) mostra che
la malattia insorge proprio perché appare impossibile scrivere se non si vive in modo pieno ciò che si
vuole scrivere. Ma questo produce poi un paradosso. La narrazione procede secondo una propria
consecutio. E la vita, come procede? Se si scrive, rispetto alla vita si vive sempre “di lato”. Questa
condizione ammala l’anima, fosse pure lo scrivere, il raccontare una salvezza.
Confondersi con l’esistente, renderlo assoluto, pensare che le applicazioni tecniche lo esauriscano per
intero, svuota l’individuo di se stesso, ha sostenuto Heidegger. L’essere invece è “laggiù”; per sfuggire
a una pania simile bisogna spiare quella lontananza, diventarne consapevoli. Abitare una “montagna
incantata”, una clinica, può aiutare: ma anche questo non esaurisce un bel niente.
È in atto la cura? “Le iniezioni venivano annullate dalle idee, dalle visioni del parterre, da donne
magnifiche che popolavano l’Hotel, da principi causeur e charmeur”. Ma, “ogni immaginazione era un
colpo di martello sul cervello, cielo grigio e buio. Ad ogni colpo saltavo, rimbalzavo e non concepivo
che il martello si affievolisse o cessasse. Come un saltimbanco facevo salti sul lenzuolo bianco, teso,
deserto. Le molle scattavano a ripetizione infinita”. Conoscere capire, capire conoscere: è l’ossessione
della narrativa di Ottieri, di tutta la sua letteratura. Le sue radici, robuste, sono in quella magnifica
stagione del nostro romanzo in cui le ragioni dello stile si sposarono al bisogno prepotente di una
ragione che non fosse più “d’arte” e autoreferenziale, ma storica e conoscitiva, una fede che investisse
di sé una società, fosse pure una fede nichilista, ma dove un concetto della vita agisse in modo
dirompente, assoluto.
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Questo vollero, ad esempio, Moravia o Gadda. Lo vollero anche poeti: Montale o Penna, e il caro, vivo
Attilio Bertolucci. Di quella stagione Ottieri risuscita di libro in libro il lucido volere. Non ci viene a
dire, per esempio, che la storia è un incubo da cui vorrebbe essere libero. Ci mette sotto gli occhi altra
lucidità: la propria disperazione, i crudo della propria mania. “La mattina mi svegliavo presto in preda
ad un orror panico. Ero ancora dentro ad un lenzuolo che dava sul grigio e ad una cotenna sporca.
Chiamavo, gridando, muto, atterrito, mio padre lontano, lui che per primo si atterrò davanti al sorgere
tardivo e al dilagare maturo e franco del mio vizio. Non capiva: non capiva nulla dei miei meandri.
Non avevo altro pensiero che correre al bar”.
La viziosa solitudine in cui si sviluppa un così peculiare scrutinio di se stesso – di se stesso scrittore
intellettuale – cerca parole che siano realtà. Il lettore di Cery può chiedersi di quanti apporti
autobiografici si nutra il racconto. Non ci sono finzioni: il libro può essere letto anche come una
confessione a pelle, in presa diretta. Sarebbe sbagliato, però, leggerlo solo per questo verso.
Non c’è fiction senza invenzione, “senza svolte, risvolti e colpi di scena”. Eppure, anche qui, come
sempre, Ottieri non riesce a sottrarsi, pur scrivendo realtà, “alla caccia infuriata di quella felicità dello
scrivere, e dello stile, dietro cui salta agli occhi la felicità del testo”.
Un’accesa fantasia critica che lavora sul lessico, nelle pieghe della sintassi, che incide talvolta su eventi
di cronaca, anche di cronaca politica, e imbeve di sarcasmo gerghi e volti brucianti di concretezza,
esprime naturalmente la possibilità di una distanza, di un altrove, che con forza spietata ogni narratore
chiede a se stesso. L’esperienza sulla “montagna incantata” è dunque fallimentare dal punto di vista
clinico, il malato torna a casa pari pari come quando ne era uscito, la depressione, la malattia
dell’anima ha come sole guarigione la consapevolezza di sé. Per lo scrittore, quell’esperienza è una
rinnovata riprova che il guadagno della parola, il guadagno espressivo e conoscitivo dello stile, costa
un prezzo illimitato di pena. Scrivere è una coazione a vivere. Ogni scrittore ha da salire sulla propria
“montagna”: ogni scrittore è malato a modo suo. Ciascuno, cioè, non può che vivere la propria felicità e
la propria infelicità, se chiede a se stesso, e non può far diverso, di essere. Dunque, che cosa passa di
storia o di oggettività residuale in Cery?
C’è nel libro una scena molto significativa, raccontata con l’estro insidioso, con l’occhiatura ironica
che è di Ottieri fin da Donnarumma all’assalto. È il ricordo di una convention letteraria, una
premiazione. Parlano bionde e ossute signore che fingono d’aver letto libri, critici privi di incertezze,
pance competenti più che intelligenze competenti, eccetera.
Ricopio alcune battute di questa scena: “Ma lei non è matto” disse Aurora. “Non sono matto perché
sono alcolizzato. Curo la follia con l’alcol. È a nasconderlo che mi vergogno”. “La questione
meridionale tu la nomini, non la consideri letterariamente impura” disse il critico. “Non è impura
perché è vera”. “La verità non esiste” commentò il solito critico letterario. “Esiste, esiste” feci, bevendo
un bicchiere tumultuoso. Ahi! Pensai. Questo è il consueto delirio iperfisico. Avevano finito di cenare.
Avrei dovuto muovermi, incontrare letterati, giovinetti, promesse nevrotiche o vecchi pazzi falliti. Ma
io avevo il sedere incollato alla sedia, per paura. Mi toccava sopportare il segreto della disperazione
privata in luogo pubblico”.
Di una società che vive in soggezione delle proprie parole, che trasforma i concetti in smerciabili
luoghi comuni, che vegeta e non vive, incapace persino di spiumacciare i cuscini su cui si addormenta
la sera, Ottieri lascia parlare l’unica verità possibile, la fatua realtà dell’apparire, ne rivela il trucco, ne
isola l’eco di demenza.
Un moralista? Anche. In più di un’occasione, scrivendo di lui, della sua poesia, ho fatto ricorso a
Parini, all’estro satirico dell’autore del Giorno. È della nostra “Notte” il buio di storia dove viviamo,
che Ottieri seziona la sinistra, obliqua comicità: la oggettiva, la stampa indelebile nelle sue parole.

OTTIERI PROVOCA I RICCHI DA UNA CLINICA SVIZZERA
di Giuseppe Bonura
(«L’Avvenire, 11 settembre 1999»)

Narrativa italiana – “Cery”, sberleffo alla società pasciuta. Di recente si è sviluppata una polemica
interessante. Come mai in Italia non c’è una collana di classici come la “Pléiade” francese? Risposta:
perché l’Italia non ha la tradizione della Francia. Parigi è sempre stata il centro del mondo, in tutti i
sensi. In Italia ci sono mille centri, spesso in conflitto tra loro, e così una collana omogenea come la
“Pléiade” non si può fare. Da noi vige l’anarchia delle scelte individuali, e a nostro avviso è un bene
per la creatività. Ma il nostro discorso mirava ad altro. Mentre il secolo sta per andarsene, è ovvio che
si tenti di sistemarci dentro i classici letterari: maggiori, medi e minori. Qualcuno lamenta, per
esempio, che Volponi non abbia ancora un posto tra i classici del Novecento. È una lamentela
legittima. Ma legittima ci sembra anche una nostra privata lamentela, che riguarda Ottiero Ottieri.
Come mai non c’è Ottieri in qualche collana di classici novecenteschi? Mistero.
Forse è lo stesso Ottieri che non vuole diventare un classico. Forse gli sa di passato, di ingessato, di
marmoreo.
Prendiamo il suo recente, bellissimo romanzo: Cery. Nella bibliografia della terza di copertina manca il
titolo del suo romanzo più impressionante: Campo di concentrazione. È una scelta voluta o una
distrazione? Oppure un colpo masochistico? Propendiamo per questa ipotesi. Ottieri è uno scrittore che
non si cura dei posteri, anche se i posteri (fra cent’anni) lo leggeranno per capire il presente. Ottieri è
un masochista imperterrito. Ed è tante altre cose. È uno scrittore che pensa. È un pensatore che scrive.
Da tanto tempo combatte con l’ansia quotidiana, la nevrosi, l’angoscia, il dolore, la sofferenza.
Intendiamoci, il suo copro deve essere una macchina potente e perfetta se resiste a tutte le batoste che
la psiche gli ha inflitto. Il personaggio che abita tutti i suoi romanzi è un giovin-vecchio signore
moderno, amante dell’alcol e della bellezza muliebre, desideroso di conversazioni alate ma anche
capace di penetranti e urticanti giudizi sulla società capitalistica, alla quale del resto egli appartiene.
Questo giovin-vecchio signore moderno ha una moglie che ama, figli e amicizie, ma preferisce passare
quasi tutto il suo tempo in lussuose cliniche per alcolisti, per disintossicarsi e innamorarsi. La
dipsomania (avidità di bere alcol) è il tema fondamentale dei romanzi di Ottieri. Ma sarebbe un tema
banale se intorno non si aggirassero altri temi. (In una recensione prolissa e opaca di Enzo Siciliano
non ne sono stati enumerati nemmeno uno). L’alcolista che parla nei romanzi di Ottieri è un uomo che
vuole essere la cattiva coscienza della società pasciuta e “sana”. Ma vuole esserlo in modo tragicomico.
Sta qui la singolarità della prosa di Ottieri. Il dolore indicibile si tramuta in euforia della scrittura e dei
comportamenti, in un mozartiano sberleffo.
In Cery, in un’asettica e organizzatissima clinica svizzera, il protagonista è in cura per “non”
disintossicarsi. È una sorta di Charlot ebbro che cerca di sfuggire a una normalità odiosa e oppressiva.
Scrive lettere d’amore alle sue vicine di camera, lettere che peraltro non spedisce, e tanto meno fa
recapitare. Ogni tanto viaggia, in città o nel passato, sempre a scopo terapeutico. La tragicommedia del
protagonista è che sa che ogni tentativo di guarigione è inutile. Ci saranno soltanto tregue, intervalli
brevissimi di serenità. Poi si ricade nell’abisso. Ma intanto, con l’esibizione “naturale” della sua
sofferenza, mette in crisi i cosiddetti sani, che sopportano la sofferenza altrui solo se questi sono
rassegnati e non ribelli. Una volta ci è capitato di dire che Ottieri è una sorta di Céline dei ricchi, e qui
lo ripetiamo. La sua prosa è fatta di sincopi, che divertono e fanno angosciosamente pensare.

UNA TRAGEDIA MILANESE (1998)

METTE PER ISCRITTO IL VUOTO CHE CI DOMINA – “UNA TRAGEDIA MILANESE” L’ULTIMO ROMANZO DELLO SCRITTORE INDAGA IL BUIO MORALE DI UNA VITA PRIVA DI IDEALI
di Ermanno Paccagnini
(«Il Sole-24 ore», 29 marzo 1998)

Licenziato due anni or sono l’opus magnum, ossia le 500 pagine del Poema osceno, Ottieri torna alla
frammentarietà e alla trasversalità stilistica, destreggiandosi tra attraversamento sarcastico-onirico della
realtà e forte urgenza dell’Io. Si riscinde insomma in filoni l’istanza riassuntivamente totalizzante nel
Poema. Ed ecco allora lo sguardo su un milieu sociale fortemente semplificato e tipicizzato, in modo da
maggiormente marcare la rappresentazione: come interesse insomma per l’altro da sé, per l’ambiente
esterno al proprio Io e per una istanza storica e addirittura cronachistica come in questa Tragedia
milanese che, per più aspetti, fa correre il pensiero di Divini mondani, però passati al crogiuolo del
Poema. Oppure, ed è altro aspetto, ecco l’Io introspettivo e interrogativo che si aggira nelle proprie
nevrosi, ma pure nelle riflessioni su momenti o aspetti che per una qualche ragione gli implodono:
come nel De morte dell’aprile 1997, sin dal titolo ricollegantesi al Poema osceno (ne era protagonista
lo scrittore Pietro Muojo) e cadenzato sul dialogo ossessivo con l’“inguaribile male”, dato che “la vita
si celebra sulle sponde della morte”.
Il tutto però non si traduce in semplice bipolarizzazione espressiva, perché anzi in tal senso la scrittura
di Ottieri tende piuttosto a muoversi liberamente in varie soluzioni, ora poematiche e ora da dialogo
pseudofilosofico, ora romanzesche e ora invece di “saggio-romanzo”. Come appunto col De morte,
suddiviso tra una prima parte più riflessiva su morte, peccato, religione, in una tensione tra
accostamento e rimozione di un più deciso affondamento nei problemi della metafisica, e una seconda
con disposizione più propriamente narrativa e dialogico-narrativa. E come con Una tragedia milanese,
che invece opta per una soluzione più ampiamente narrativa, anche se depositata in una struttura
marcatamente dialogica che fa piuttosto pensare a un succedersi di dialoghi inframmezzati da
didascalie: su personaggi, ambienti, situazioni; in cui insomma “tragedia” non viene a indicare non solo
tono e contenuto, ma pure un modo espressivo. Didascalie, va aggiunto, dalla doppia valenza: perché se
talora in esse vale lo sguardo esterno dell’autore, per la maggior parte risultano poi osmotiche ai
personaggi, nel senso di didascalie stilate dall’interno della realtà descritta. Che è la realtà della totale
assenza di senso, vissuta inconsciamente: di un parlare continuo che si traduce in insensato flatus vocis:
in sonorità espresse senza la piena coscienza del loro contenuto, e anzi spesso costruite sull’universo
delle frasi fatte, di provenienza non importa quale (cito a caso da tre diverse tipologie “culturali”: “Me
ne vado laggiù al buio, oltre la siepe”; “Nella malinconia è compresa l’angoscia, quella che somiglia al
marchio rovente di Rovagnati Granbiscotto”; “Senta a destra uno squillo di tromba”; mentre il “come
moderni colombi dal disio chiamati” è da didascalia ironica dell’autore).
La tragedia milanese è infatti un universo di vuoto. Vuotezza di idee e di senso, di atti (anche nel sesso
sublimato o sono eiaculatori precoci) e di parole, peranco anche mal conosciute, ove la maggior
curiosità, stante il segreto della pronuncia, finisce per essere costituita da conversazioni su telefonini.
Tragedia milanese però solo per ambientazione, per via che al centro (in clinica, nella vacanziera villa
in Sardegna o nella “buia e grande casa”) sta Antonio, famoso chirurgo estetico un po’ (tanto)
rincoglionito quanto i personaggi che gli ronzano attorno (play-boy disfatti e logorroici uomini
d’affari), colto in fin di vita dalla coscienza, e dal terrore, di tale vuoto e del suo “buio morale”. La
conseguenza è un universo rappresentato con toni fortemente irritanti e scostanti: perché ciò in cui il
lettore si trova immerso è un universo di parole senza soluzione di continuità su cui i personaggimarionette
fortemente caricati, volutamente caricaturizzati, si appoggiano insensatamente. E da questo
discende pure la stessa struttura del racconto, necessitato a pigiare sul linguaggio e la pronuncia dalla
assenza di interiorità e di psicologie dei protagonisti. Tanto evanescenti e impalpabili, da non saper
cogliere neppure il passare loro accanto di una realtà concreta come la morte.

IL ROMANZO
di Angelo Guglielmi
(«l’Espresso , 14 maggio 1998»)

Milano da odiare Ottiero Ottieri denuncia il libro (e le sue motivazioni) fin dal titolo: “Una tragedia
milanese”. Dunque c’è Milano, “una città concava piena di edifici grigi, priva di paesaggio, di fiume, di
idee”, e c’è la tragedia, quel qualcosa di sinistro che la città esibisce e in cui si esalta. Ed è in questo
autocompiacimento senza rimorso che si accende la furia dell’autore. Milano è una città che possiede
uno straordinario potenziale di energie tuttavia tutto speso a favore della sua degradazione, investito in
irresponsabilità civile e telefonini, in spreco e ottusità morale, ignavia e indifferenza, sesso senza amore
e chiacchiere vacue. Su questa invettiva (che tale è nel cuore di Ottieri) l’autore, se pure in forma di
scrittura narrativa, monta una pièce: mette in scena una serie di quadri in cui rappresenta quella
tragedia. Infatti “Una tragedia milanese” non è propriamente un romanzo: è piuttosto un palcoscenico
su cui alcuni attori, convenzionalmente caratterizzati, si esibiscono in ruoli rigorosamente assegnati.
C’è il grande chirurgo estetico, impegnato a creare bellezze inesistenti e al suo fianco un’amante
diciottenne e una moglie assente; e ci sono un paio di play boy con un corteo di fidanzate e amanti che
intanto possono coesistere (e interscambiarsi) in quanto incapaci di vivere una qualsiasi identità. Tra i
personaggi in scena si sviluppa un dialogo fitto, tanto più roboante quanto più vuoto, che ogni volta si
avventura in riflessioni altre tanto più si fa chiacchiericcio.
Ma ogni pièce vuole una conclusione. E Ottieri non trova di meglio che far impazzire il chirurgo che
nella follia trova la saggezza, trova lo sdegno contro i tanti Pacini Battaglia assunti a simbolo della
città, trova la forza di ribellarsi e urlare: “Che cosa è la vita se ha come unico scopo arricchire e per
arricchire imbrogliare? È più facile capire il cervello delle iene e dei leoni nella savana che queste
scatole nere, false, questi imbrogli continui”.
Non vi è dubbio che un’intensa passione morale attraversa questo libro. Una passione che l’autore ci
chiama a condividere. E forse più che una passione si tratta di una nevrosi (di un disagio incontenibile)
che si accende in Ottieri di fronte alla scena di degradazione che ha di fronte e che infuoca e brucia le
parole (di quel disagio) sottraendole al pericolo dell’espressione retorica e, per contro, conservandole a
una asciutta velenosità. Forse qui e lì ci augureremmo che il fuoco fosse più distruttivo: ma comunque
alte sono le fiamme che scottano.

DE MORTE (1997)

POSSONO GUARDARE LA MORTE GLI OCCHI DELLA VITA?
di Giovanni Giudici
(«l’Unità », 21 maggio 1997 – Il Salone del libro)

A ognuno il suo Anno Mille. A noi toccherà il Duemila che, nella presente cultura laico-scientistica,
non dovrebbe dare luogo a quei fenomeni di panico collettivo e, insieme, di mistico fervore che
precedettero la scadenza del precedente Millennio. In compenso si riapre il discorso su un tema che da
sempre ha sollecitato la riflessione di tutte le culture umaniste in ogni fase della loro storia: se sia, cioè,
proprio da escludere la possibilità che, dopo la morte, un’altra vita ci attende (alla questione è dedicato
il Salone del Libro che si apre domani a Torino). A dispetto di ogni ricorrente velleità suicida, l’homo
sapiens non si rassegna facilmente all’idea di una morte oltre la quale ci sia proprio quell’assoluto
Nulla, che pur tanto seduce i filosofi come Sergio Givone e gli studiosi come Carlo Ossola (adesso
Curatore di una preziosa raccolta di “Antiche memorie del nulla” per le Edizioni di Storia e
Letteratura).
Ogni religione ansiosa di proseliti ha cercato, in effetti, di persuaderci del contrario: della “seconda
vita” che, nell’ortodossia cattolica, inizierebbe appunto dalla “morte corporale” (da interpretare, per i
“Giusti”, come evento gaudioso) ai vari “paradisi” ebraico-cristiano, islamico, induista, buddhista che
dovrebbero ripagarci delle acerbità di questo mondo. Non tutti i “paradisi” sono uguali: all’austera
letizia intellettuale di alcuni (“non è un posto, ma una condizione” si dice giustamente del paradiso
cristiano) fa riscontro la promessa materialistico-edonistica di altri paradisi.
L’uomo di oggi vive almeno una decina di anni in più rispetto ai suoi genitori e magari quindici o venti
rispetto ai suoi nonni o bisnonni: ma quale che sia l’età in cui la morte lo strappi agli affetti terreni
tenderà sempre a considerare prematuro quel fatale evento. Perché? Si possono offrire diverse risposte:
la più probabile è che nel patrimonio caratteriologico della Specie insista, insopprimibile, una domanda
di futuro alla quale il pensiero di tutti i secoli ha cercato una qualche, più o meno appagante, risposta.
Una risposta consolatoria? Non tanto consolatoria (io direi!) quanto strettamente funzionale agli assetti
e istituzioni della vita associata: all’Etica, al Diritto, alle distinzioni dialettiche di giustizia/ ingiustizia,
bene/ male; a tutto quanto, insomma, possa in qualche modo mitigare o correggere la legge dell’homo
homini lupus.
All’idea di Futuro si collega dunque la stessa idea di religione (“religio”) come patto sociale e
riconoscimento di un comune destino umano e, indirettamente, anche quella di concezione del mondo
che le ideologie liberistico-scientistiche hanno cercato in questo secolo di erodere, irridere e sacrificare
sull’altare di nuove divinità: il Mercato, il Consumo.
Ma è a questo punto che l’interrogativo se si sia o meno “immortali” sposta le sue ragioni dal piano
genericamente culturale a un piano politico. Ma, ancora e sempre a questo punto, sarebbe erroneo,
secondo me, porre il problema nei termini, tradizionalmente fideistici, di “credere” o “non credere” in
base a una dimostrabile “verità”, o almeno, plausibilità del “creduto”: per il semplice fatto che la sua
“indimostrabilità” lo metterebbe fuori della portata di un approccio inevitabilmente “antropomorfico”
(quello che ci rende problematica la concezione stessa della Divinità).
Paradossalmente potremmo sfidare ogni umana logica (ed etica) ammettendo di “voler credere” in
alcunché di “non vero”. Fino a tanto può estendersi, del resto e magari in versi, la nostra
immaginazione: O gloria del pensiero/ Credere in ciò che non sia vero
L’IDEA stressa di immortalità (come “nostalgia di futuro” o altro che dir si voglia) partecipa di un
vizio antropomorfico: umane essendo, o comunque relative all’uomo, le dimensioni stesse di spazio e
tempo, in cui la vicenda Vita/Morte si colloca.
E altrettanto potrebbe volersi dire del ricorrente e forse apotropaico discorso sulla “Morte” che è la
parente stretta dell’Immortalità (un esempio ne è “De Morte”, l’eccellente libro di Ottiero Ottieri).
Tant’è vero che, anche nel parlare di immortalità, ci dimentichiamo che stiamo parlando secondo
un’ottica anch’essa antropomorfica: ne parliamo, infatti, da vivi; e con la tentazione di riuscire in
qualche modo a parlare da morti di una vita che non sarà stata più nostra. Ho pensato spesso a certi
versi del poeta americano John Berryman in cui egli immagina di incontrare in qualche “dove”
dell’aldilà gli amici poeti della vita terrena, con essi rimembrando i tempi in cui insieme ambivano a
quella che nel canto XI del “Purgatorio”, Dante chiama “eccellenza” e che nell’inglese diventa
eminence, ma (aggiungendo) “were dissatisfied with that/ and needed more”). La poesia finisce lì e il
Poeta (morto suicida nel 1972) non ci dice se il “qualcosa di più” di chi dichiara il bisogno fosse stato
raggiunto nel suo immaginario aldilà. Nel “Paradiso” di Dante sembrerebbe invece (stando al detto di
re Salomone) che nel giorno del Giudizio gli Spiriti beati ritroveranno “la carne gloriosa o santa” che
avevano sulla terra. E perciò fan festa “ben mostrar disio dÈ corpi morti:/ fosse non pur lor, ma per le
mamme,/ per li padri e per li altri che lor son cari/ anzi che fosser sempiterne fiamme”… ma non è
anche questo un antropomorfico guardare alla morte con gli occhi della vita? e non potrebbe essere
forse la sola possibile “immortalità” del contrario?

OTTIERI, PER VIVERE PARLIAMO DI MORTE
di Giovanni Mariotti
Elzeviro – Un saggio “autobiografico”
(«Corriere della Sera », 9 luglio 1997)

Vi sono argomenti di cui si parla molto, e a cui si pensa poco; altri di cui si parla poco, e a cui si pensa
molto. Qualche volta uno di questi argomenti migra da una categoria all’altra. È il caso del sesso: un
tempo apparteneva alla seconda categoria, oggi appartiene alla prima. Qualcuno ha un’opinione
diversa: pensa che la nostra epoca collochi il sesso al centro di tutto, solo perché lo colloca al centro
della sua chiacchiera; ma sbaglia. La situazione del sesso non è certo così fiorente: diciamo che fa
pensare a quella dei giornali: per assicurare la propria diffusione, anche il sesso ha bisogno di gingilli,
di gadget. E la morte? Si direbbe che alla morte sia accaduto il contrario di quello che nel frattempo
accadeva al sesso: c’è stata un’epoca in cui dava l’impressione di appartenere più alla prima categoria
che alla seconda, mentre oggi appartiene di sicuro più alla seconda che alla prima: se ne parla poco,
pochissimo, molto meno di quanto se ne parlasse una volta; è un argomento su cui il galateo impone di
glissare. Questo silenzio è fonte di un equivoco: si pensa che la gente si sia dimenticata della morte,
visto che evita ogni discorso che la riguardi; ma dimenticarsi della morte non è per niente facile, come
sa chi ha superato una certa età. A questi tentativi abbastanza umani di chiudere gli occhi davanti alla
propria fine sembra del tutto estraneo Ottiero Ottieri, che ha appena pubblicato un libro il cui titolo è
quasi un’insolenza: De morte (ed. Guanda, pp. 128, L. 20.000). “Come esiste una maratona della
danza, io sono un maratoneta della morte. Io mi sono orgogliosamente specializzato”: è il primo tocco
di un autoritratto che si svilupperà in filigrana sino alle ultime pagine. Distinguendo con energia il
saggio da altri generi. Montaigne scrisse, nelle poche righe premesse ai suoi Saggi: “dipingo me
stesso…; sono io stesso la materia del mio libro”; lo stesso si potrebbe dire di Ottiero Ottieri, presente
da un capo all’altro di questo suo saggio. Accade spesso di aspettare con impazienza l’incontro con
qualche vecchio o nuovo amico, e di rimanere delusi. Sarebbe stato bello ragionare insieme della vita e
della morte, come ai tempi del liceo; invece si è finito per parlare di qualche mediocre progetto
lavorativo, di vacanze, di ristoranti; e forse l’amico è rimasto deluso per le nostre stesse ragioni. Ogni
discorso che riguardi questioni generali sembra misteriosamente precluso all’età adulta. Proprio per
questo appare stranamente giovanile l’ostinazione con cui Ottieri sullo sfondo di una città (Milano) e di
un ceto (quello borghese) innamorati della propria immagine pratica, si intrattiene con se stesso intorno
ai grandi temi, e cerca qualcuno con cui intrattenersi.
C’è qualcosa di seducente, in questo gentiluomo o hidalgo nevrotico alla ricerca di interlocutori,
intermediari, intercessori che gli parlino e lo accompagnino nella sua estrema avventura: preti, giovani
donne, psichiatri, filosofi o le attraenti infermiere che assicurano il servizio nelle cliniche di lusso. Con
un candore fiducioso di cui io non sarei mai capace, Ottieri si rivolge a figure che custodiscono
istituzionalmente un sapere (religioso, psicologico, filosofico o altro) relativo alla morte. È attirato dai
sistemi, ma i suoi pensieri non hanno niente di sistematico, e si esprimono in modo intermittente,
aforistico. E tuttavia un genere tendenzialmente scultoreo, qual’è l’aforisma, non può appagare la sua
perpetua mobilità e inquietudine: per questo ogni sua frase è seguita da aggiunte, correzioni, messe a
punto. Ne risulta uno stile mosso, mai rotondo, ricco di scatti e di brusche franchezze.
Ho molta comprensione per chi si sforza di dimenticare che la morte esiste, e di non metterla in conto;
ma non ignoro le molte buone ragioni per tuffarsi a capofitto nei pensieri che ruotano intorno a un
avvenimento così rilevante. Ai suoi mentori Ottieri chiede quale intervallo di tempo sia ragionevole
dedicare ogni giorno a quel genere di immersione; non più di un’ora gli rispondono: protratti oltre i
sessanta minuti, i ruminamenti sulla morte si trasformano in sintomi di uno stato depressivo. Ma è una
prescrizione che Ottieri non ha nessuna intenzione di seguire. “Il pensiero della morte”, dice, “è un
sintomo tipico del pensiero della depressione, ma il senso della morte è il più indispensabile al senso
della vita”. Una prova di quest’affermazione può essere il suo libro, che è un saggio sulla morte, e
sprizza vita da ogni poro.

IL POEMA OSCENO (1996)

SESSO, PERVERSIONI, VANITÀ TOTALE
di Giuseppe Bonura
(«Il Giorno», 17 marzo 1996)

Leggo e seguo Ottiero Ottieri da anni e ogni volta mi sorprende. Segno che la sua vitalità di scrittore
rilutta fortemente a incanalarsi in una cifra stilistica. Questo sconcerta i suoi critici, ma i suoi lettori
dovrebbero essergliene grati. Con Ottieri non ci si annoia mai, anche se bisogna subito aggiungere che
il divertimento letterario si accompagna quasi sempre a un’acuta percezione della sofferenza umana.
Ormai sulla settantina, Ottieri è fra i nostri maggiori scrittori viventi. È un narratore, ma è anche un
poeta, sebbene a mio avviso la forza del narrare assorba gli slanci lirici, riducendoli a episodi ironici.
Leggendo la sua scheda biografica, ci si accorge che Ottieri è nato a Roma. Ed è questo un dato che
non finirà di rendermi perplesso, poiché io identifico Ottieri con Milano. Quando mai ci sono state le
industrie a Roma? E infatti Ottieri ha cominciato con l’indagare il mondo dell’industria in tutti i suoi
aspetti, compresa l’alienazione. Ottieri è stato, con Volponi, l’inventore della narrativa industriale, o
meglio di fabbrica, avendola conosciuta dal di dentro, in tempi in cui sembrava il perno del mondo, un
microcosmo di vetro che riflettesse l’intera società con le sue divisioni in classi sovrapposte. Poi dalla
fabbrica è passato all’introspezione psicologica, o psicoanalitica. Una lunga e tormentata trivellazione
nei meandri della coscienza, e quindi dell’inconscio, questo pozzo di San Patrizio delle fantasie e delle
nevrosi. Libri memorabili Ottieri ha ricavato dall’indagine del suo Io sepolto e pulsante di dolore.
Talora ha dato l’impressione di cullare le sue angosce come una mamma cullerebbe il suo bambino. In
altri termini, c’è in Ottieri un narcisista tenace, che però soffre veramente, e questo fa la differenza. In
un certo senso la sua sensibilità è rimasta sempre quella di un adolescente viziato, però la
consapevolezza di questa condizione privilegiata, coniugata alla malattia nevrotica, gli ha permesso di
tenere lo sguardo anche fuori di sé, nella società, nel mondo. Anzi, il tema principale di Ottieri è
proprio il rapporto fra malattia individuale e malattia sociale. Non a caso il protagonista di questo
romanzo, Il poema osceno, si presenta con un’intenzione a dir poco eroicomica: “Vorrei dare un colpo
al sesso e un colpo alla nazione”. Come si può vedere, siamo nei dintorni della poetica di Pasolini. Ma
in Ottieri c’è senso del limite e dell’umorismo, per non parlare poi dell’ironia, che accompagna tutto il
poema con una musica di sottofondo. Pietro, il protagonista, è un anziano poeta, che ha già visto molto
e scritto molto. Ama circondarsi di giovani uomini e di giovani donne. Ama essere al centro di ogni
situazione, sebbene prenda in giro bellamente il suo narcisismo. Il sesso è la sua ossessione, ma
attraverso il sesso e le sue perversioni e le sue astute manovre, Pietro “legge” anche la società, dove le
perversioni non sono meno grandi e gratuite. “Immondo milanese clima/ che produci destra
funesta/funaresca”. Non lasciatevi impressionare dai moltissimi versi disseminati in questo poema. Non
siamo in presenza di un’opera di poesia, bensì di un coacervo narrativo, che ingloba diversi generi: dal
copione teatrale della sceneggiatura cinematografica, dal saggio alla poesia, dal romanzo
all’autobiografia, e chi più ne ha più ne metta.
Sesso e morte formano un connubio indissolubile, che lega e avvolge i diversi. In ogni pagina c’è il
nucleo di un romanzo imperniato sull’attrazione fisica e sulla coscienza della vanità di tutto.

LA VITA È UN OSSIMORO
di Silvio Perrella
(«L’Indice», Giugno 1996)

Se vi appassiona il romanzesco, se nei libri cercate una storia, un plot, Il poema osceno, l’ultimo libro
di Ottiero Ottieri, non è un libro per voi. Eppure, qualunque lettore, anche in assenza di tessiture
romanzesche, non potrà non notare come Ottieri riesca a formulare straordinarie sequenze di parole,
laddove pensavamo che il silenzio fosse inespugnabile. Ottieri riesce anche a dire “anche ciò che per
natura si negava a essere detto”, ha sostenuto Andrea Zanzotto. È come se fosse il ritmo a guidarlo; un
ritmo scandito dalla rapidità fluente dei versi e dalla inarrestabile progressione dei dialoghi. Versi e
prosa dialogica si alternano e si intrecciano lungo le ben cinquecento pagine di questo libro. Ottieri,
ancora una volta, dopo il diario narrativo di Donnarumma all’assalto (1959), il saggismo narrativo de
L’irrealtà quotidiana (1966), e la poesia scenica degli ultimi poemetti – da L’infermiera di Pisa (1991)
a Diario di un seduttore passivo (1995) – si pone deliberatamente fuori dai generi. Anche se si potrebbe
immaginare Il poema osceno come una satira menippea.
La percussiva voce dominante del libro è quella di Pietro Muojo, il quale, stimolato anche dalla sorella
Vera, aspira a diventare un poeta civile. Pietro è un bisessuale che non si dimentica mai dell’esistenza
pulsante del sesso; ha una corte di giovani amici e amanti: Lorenzo, Luigi, Samantah, Barbara…, e con
loro intesse fittissime conversazioni e coiti.
Sembra, come una creatura di Beckett, un poeta immobile; scopriamo, invece, che ha corso molto, e
non solo dietro le parole. Pietro ci tiene a farci sapere che “pensa fiducioso all’aldilà senza sminuire
l’aldiqua” e che, dopo essere stato un “vecchio adolescente ora non vive che come uno stoico
bambino”. Ha passione per gli ossimori e, ogniqualvolta gliene scappa uno dalla penna, ce lo segnala.
Pietro è evidentemente un nuovo tono di voce da aggiungere a quella “autobiografia perenne” che
Ottieri non si stanca di orchestrare. L’uso insistito dell’ossimoro credo possa leggersi come una
traduzione letteraria del “bipolarismo”, la parola che gli psichiatri usano per definire i maniacidepressivi;
una delle parole “magiche” adottate da Ottieri. Anche i temi di questo libro sono bipolari e
dunque ossimorici: la vecchiaia di Pietro (ricordo, in questo senso, la sua bisessualità) o di Vera si può
trasformare in improvvisa gioventù; la malattia mentale è anche uno stato di salute (sì “psiche
cottolenghica”, ma anche “vitalità sormontante,/ vitalismo esclamativo”); l’oscenità è anche un
desiderio di normalità (“Egli vuole/ essere normale. È il suo male”); il vivere fisicamente al Nord (a
Milano una “radiografia di una metropoli stecchita”) significa pensare continuamente al Sud (a
Pozzuoli, ad esempio, che “è diventata un tumore immenso, terribile, meraviglioso”); l’irrealtà è una
delle forme della realtà; il disprezzo della letteratura è anche la consapevolezza del suo valore (“Non ho
mai sentito/ fortemente come adesso,/ che la letteratura ha/ un valore, anche se lo nego/ prendendolo in
giro”). E, come abbiamo già visto, bipolare è anche la forma: sia la prosa dialogica (“le righe lunghe”)
sia “smitragliate” di versi (“le righe corte”).
Fermiamoci per un momento sulla malattia mentale; dall’esterno si potrebbe pensare che possa
costituire un limite: è invece un punto di vista globale installato all’interno del dolore. E siccome il
dolore, la sofferenza mentale e corporea sono una fetta sempre più invisibile della nostra vita sociale e
allo stesso tempo dilagante, Ottieri, con il suo sguardo “rasoterra”, riesce a formulare una plausibile
icona dell’umano: “Cerco un mondo dentro il terriccio del mondo”. In quest’ultimo libro, inoltre, la
malattia di Pietro s’incrocia con quella, cronica, dell’Italia: un andirivieni “fra Paese e Io”.
L’istinto satirico di Ottieri coglie quasi con naturalezza le dilaganti brutture morali della vita “civile”
dell’Italia, “una repubblica fondata sulle cambiali”, dove “l’opinione… s’incendia due volte al giorno”
e dove “l’attuale democrazia irreale si nutre di bellicosità lombarda reale”.
Come si sarà capito, Il poema osceno è un concentrato di energia davvero inusuale, dove il poeta ha “il
diritto di delirare”, ma lo fa con consapevole esattezza. L’impressione è che Ottieri abbia voluto
rileggere tutta la sua opera precedente, mettendola a confronto con quella di alcuni suoi coetanei, come
Pier Paolo Pasolini e Paolo Volponi, definiti, insieme a Gramsci, “gli ultimi maestri”. Rileggendo il
senso primario e vitale della sua letteratura, Ottieri sfata luoghi comuni critici (la letteratura
industriale), ironizza su deliranti dibattiti del passato (quello su Metello), descrive con maestria critica
inaspettata opere altrui e sfotticchia quelle di moda oggi. Ottieri, come sempre, scalpita davanti a una
letteratura per letterati e invoca una vita che “deve avere la forma mirabile di un ottonario di Puskin”,
ricordandoci che “la poesia è esatta come un cacciabombardiere”. In questo senso, la sua letteratura
sembra avere le stimmate conoscitive della necessità: “Io non voglio/ fare le cose./ Sono sempre
costretto”. Ed è da questa costrizione che si sprigiona la libertà dell’intera opera di Ottieri, di cui Il
poema osceno sembra essere l’ilare “prologo di un testamento”.

DIARIO DEL SEDUTTORE PASSIVO (1994)

OTTIERI ALL’ASSALTO DELLA PSICHE
di Andrea Zanzotto
(«Corriere della Sera–Terza pagina», 24 marzo 1995)

Borderline. Ossessione, delirio, umorismo nero. “Diario del seduttore passivo”, l’unico poema globale
degli ultimi anni. Dove entra di tutto, dalle colf filippine alle top-model. Avvicinarsi realmente ad
Ottieri è sempre difficile, persino pericoloso. Questo autore sfugge a qualsiasi catalogazione letteraria,
sociopsicologica, filosofica; ha vissuto a fondo esperienze che vanno dall’impegno in una grande
fabbrica ad una paurosa crisi esistenziale, e che lo hanno portato a impantanarsi fino ad anni recenti in
un labirinto di alterazioni psichiche – sempre uguali e sempre diverse. Egli resta come uno scoglio a
parte nella letteratura del secondo Novecento, non solo della nostra. Il suo resistere sull’orlo di un
baratro apportava una incalzante serie di testimonianze, in romanzi, saggi, poesie, nei quali il suo
travaglio personale si presentava minuziosamente indagato ed espresso, e sempre all’interno del fluire
di generali situazioni storiche e culturali mano a mano presentatesi nel tempo. Ottieri, procedendo nel
suo cammino tra stagnazione e scontri col limite, tra “orribile raziocinare” e divagare all’orlo del nulla,
riusciva a dire anche ciò che per natura si negava ad esser detto, come riuscì a ben pochi autori che si
mossero in questo terreno.
Esce ora di Ottieri un nuovo libro di versi, Diario del seduttore passivo (Giunti) che dà la più adatta
occasione anche ad un rapido ripensamento dell’insieme del suo lavoro. E basterà di lui ricordare, dopo
le opere sulla fabbrica (Tempi stretti, Donnarumma all’assalto) il grande saggio confessionale
L’irrealtà quotidiana (1966) che è dotato di una carica esplosiva che non ha perso quasi nulla
nemmeno oggi. In quel libro di meditazioni e dati estremi, ricadenti in disintegrazioni nell’atto stesso di
porsi, viene anche a compiersi, quasi malgrado l’autore, una forma di straordinaria sperimentazione
letteraria, al di fuori di qualsiasi gruppo. Questo si continua nei libri successivi, che documentano i
tortuosi percorsi della malattia “all’interno” di vari metodi di cura, affrontati combattuti o assunti, tra
metodologie psicoanalitiche, soggiorni in “campi di concentrazione” (cui s’intitola un romanzo che
narra gli orrori dolciastri delle cliniche di lusso italiane e straniere) e labili parentesi di remissione.
Ottieri arriva alla poesia “in righe mozze” con Il pensiero perverso (1971), in cui riesce a spiegare in
ritmi roventi e insieme piatti, decalati in se stessi a raso del prosastico, nodi gordiani e incistazioni,
mancamenti di “logica” e ricattature di una tetra e mordente razionalità. Da qualche anno, dopo tante
altre spossanti vicissitudini di una “cura interminabile” e le escursioni, anche di scrittura, entro i miti di
una mondanità giocati tra sarcasmo e necessitata partecipazione, Ottieri, entrando in una felice svolta
del suo modo di essere, che sembra decisiva, ha optato ancora per un’aperta forma di poesia. Ma cos’è
veramente questa sua nuova impresa, che parte dallo scintillante L’infermiera di Pisa (1991), attraverso
Il palazzo e il pazzo (1993) ed altri simili lavori fino a questo appena apparso? Per il malato ma sempre
pugnace Ottieri bisogna lasciar perdere qualunque diagnosi e qualunque pharmacon verbale o chimico
o comportamentale. Tutto gli passa attraverso, anzi fa corpo col male stesso e lo alimenta,
concedendone tuttavia una minima “dislocazione” attraverso la scrittura, l’ostinazione infinita della
scrittura. Ottieri, non convinto affatto che la vita sia un valore, sente tuttavia una “pulsione verso la
vita”, verso qualcosa che si fantasmatizza come “vita”, tale da misurarsi sempre con qualsiasi ostacolo
si opponga. Egli chiamerà in causa l’insaziabilità sessuale o quella droga di vecchissimo stampo che è
l’alcol o la “divinità” dello snobismo (particolare oggetto di odio-amore in relazione al suo status di
appartenente all’aristocrazia). È una situazione che gli consente di ricalcare con infinito distacco, i
canoni quasi di un decadente del secolo scorso, virati in un velenoso acrilico lungo i rituali
dell’assunzione di droghe mediche e colate immani di silenzi e “parole salvatrici”. Ma il vizio (o la
virtù?) primo e inestirpabile di Ottieri è, appunto, quello di ostinarsi. A che? Non è forse l’ossessione la
più impervia delle ostinazioni, e la sua non è talmente “pura” da risultare inaccessibile ad ogni ricerca
di causa? Ma non è forse ostinazione pura la vita stessa (o “vita” come fantasma-ipotesi), al di là di
ogni causa, o causa sui? In questo “stare contro”, “ob”, certamente contro le mille incarnazioni della
morte psichica, ma forse anche contro il suo opposto (la normalità-guarigione-responsabilità), si era
prodotta per Ottieri la glaciazione medusea degli anni giovani inesistenti, o della paralizzata maturità.
Ma fortunatamente a un certo punto anche per Ottieri, come avvenne (diversamente) per Montale, si
rovescia il tappeto, sia per virtù di nuovi farmaci e nuovi metodi di usarli, sia per saturazione e
rivomitatura delle molteplici analisi o dei verdissimi campi concentrazionari, o in certa misura perché
“col tempo” non può non arrivare “il caro tempo senil”, sempre più vertiginosamente scorrevole, con le
sue iridescenze di fogna, con le sue rapide sempre più vicine. In esse ciò che mai si risolse alla fin fine
può anche dissolversi, mentre si presenta se non altro un contraddittorio senso di “libertà da” o di
precarietà assoluta. Con L’Infermiera di Pisa parte un allegretto al vetriolo, trascinando con sé come in
una marcetta vagamente militare, nelle sue sfaccettate e glissanti situazioni ritmiche, i frammenti in cui
si è spezzata la statica crudeltà delle precedenti esperienze dell’autore, intrecciandosi all’insensatezza
particolarmente losca in cui è sfociata la storia del nostro paese nell’ultimo decennio. Tutti i libri
successivi formano delle tappe di un poème interrompu che proprio nelle varie sezioni di questo Diario
del seduttore passivo (una variante musicale di temi kierkegaardiani, in forma di “scherzo”) trova la
sua manifestazione più vocazionale. Il demonio-legione si è sfatto in una legione di folletti, specilli,
coriandoli di fatti e di nomi o anche cognomi di vari numi psichiatrici in voga, tra DSM III o magari IV
ecc. e ricordi di costruzioni psicoanaltiche, belle come castelli pinnacolati offerti da formidabili
disegnatori di fumetti. Ottieri riesce a darci, in versi liberissimi un mini-epos che occhieggia a
Palazzeschi ed insieme al gusto surrealista appunto per i nomi, i cognomi (dei medici) e gli
accostamenti o le “apparizioni” più impensate, da Suzanne Urban col suo inferno esplorato da
Binswanger, a Giovanni Giudici, poeta amico. E se è vero che un continuo persiflage accompagna i
curanti, che, in qualche modo, pur hanno portato Ottieri abbastanza fuori dal pelago, traspare
un’affettuosa riconoscenza per la loro ostinazione-ossessione sanatrice. Così, per altro, si esprime il
quasi onnipotente “angelo supervisore”: “È vera l’una cosa/ e il suo contrario./ Sto scrivendo/ il
Nuovissimo Manuale di Psichiatria./ In esso è detto/ che coloro che vanno/ da Giancarlo,/ divengon
borderline/ da Giovanni Battista/ depressi,/ da Luigi, bramosi./ Il malato è mimetico,/ ha il male/ che il
terapeuta vuole./ No. È il terapeuta/ che cura la malattia/ che il malato vuole./ Tu della tua potenza su
altri/ hai fastidio./ Tu vuoi sentirti l’ultimo/ (e ti senti il primo).
Quanto al “valore poetico” del libro e dei recenti altri appare una maestria sempre più evidente e non
certo “ricercata”, ma quasi “regalata” in cui si avverte, come nel tintinnio di una pianola meccanica
deliziosa-delirante, quello di una froelische Wissenschaft, di un gai saber, di una gaia scienza che non
sa veramente bene che cosa sappia, ma che si accontenta di essere quello che è: forse una suprema
parodia di ogni possibile, e mai verificabile gaia scienza, sconfinante a spallucce nell’umorismo nero.
Ci si para davanti una vera enciclopedia di situazioni umane ben dilagante, oltre il “campo di cura”, in
un’etica (e storiografia) concernenti tutti, anche le colf più o meno filippine e le top-model. Viene
smitragliata una ricognizione che non vorrebbe escludere nulla, dal matto di spirito alla sentenza quasi
oracolare, all’appuntito fatterello giornalistico, fino alle più distrattive evasività; ma tutto, a differenza
dei blob soliti, è tenuto insieme da una mai stanca tessitura metrico-ritmica inglobante, che si fa un
trampolino financo della trasandatezza. Il gioco resta pesante, sotto sotto, per i numerosissimi
riferimenti culturali oppure molto privati spesso appena sfiorati o allusi – che possono sfuggire al
lettore, ma l’attuale modus comporta anche questo, vi si autoderide. E se sono abbastanza radi i giochi
di parole e le impennate del significante, sembra quasi che ciò avvenga per un augurato dilavamento, o
una scomparsa dell’inconscio; ma si avvertono continuamente le spinte delle consonanze-assonanze,
della rima ed eventuale rima interna, mentre le lasse, gli “strofismi”, si rincorrono quasi accavallandosi,
come nella deriva di un’interminabile e scombinata striscia di cardio o encefalo-gramma. E continua è
poi la trasformazione del punto di vista morfosintattico, dell’io in tu o in egli, né la scioltezza
impedisce l’affiorare di figure stracariche come il poliptoto: “Mi offesi: Cara come osi porre/ questa
questione a uno/ che ha questionato tutta la vita/ su questa questione?”. Oppure ecco flash come
“Interpretazione e definizione/ consolano, in mancanza della guarigione”, che ben riassumono i
frequenti problemi del popolo in analisi. O, bello come il frammento di un lirico nippo-greco “il grande
amore a tutti gli amori/ come una lepre attraversa la strada”. Questo, dell’Ottieri più recente, è forse
l’unico poema globale degli attuali anni, germogliato quasi selvaticamente e capace di continuare anche
nel simulare di esaurirsi. Diario di un seduttore passivo: quanti i paradossi e le indicibilità di questa espressione …

CANTARE IL MALE DELL’ANIMA
di Giuseppe Pedriali
(“Il libro della settimana”, «Italia Oggi », 8 aprile 1995)

Pubblicato da Giunti il nuovo libro di Ottieri nella bella ed elegante collana “Mercurio” diretta da Enzo Siciliano.
Sta avendo uno straordinario successo di pubblico il libro di Ottiero Ottieri Diario del seduttore
passivo (Giunti, 155 pagine, 20.000 lire). Straordinario non tanto per il nome (Ottieri è autore di
successo fin dai tempi di Donnarumma all’assalto, del 1959), ma per il fatto che i cinque capitoli di
questo romanzo sono in versi: cinque poemetti intitolati Monica Dreyfus, Lo psicoterapeuta perfetto
malgrado lui, Sotto il martello della rivalità e autostima. Le filippine, Il seduttore passivo, e legati
saldamente tra loro da un autobiografismo facilmente e volutamente riconoscibile. Quasi un diario,
insomma, ma arricchito da tanti e tali coinvolgimenti e modifiche di tono che dopo un poco anche il
lettore non avvezzo a leggere poesia si rende conto soltanto di trovarsi dentro a una storia affascinante
e drammatica, ilare e violenta, a volte cantata a volte urlata. Di sicuro Ottiero Ottieri è rimasto il
narratore che conosciamo, con in più l’urgenza di usare gli strumenti della poesia per una maggiore
incisività, per eliminare quei materiali di sovrastruttura e di imballaggio che anche i migliori romanzi e
racconti necessariamente posseggono.
Mescolando comicità e dolore, Ottieri racconta le quotidiane vicende di un uomo che lotta contro il
mondo intero che vuole salvarlo dall’alcolismo nel quale si è rifugiato, probabilmente per salvarsi dal
mondo intero. L’intelligenza (nonostante il male) del protagonista sovrasta quella dei diversi consiglieri
e dei medici che incontra nelle cliniche specializzare e lussuose, in Svizzera o in Italia. Ne sortiscono
situazioni delle quali Ottieri capta anche l’aspetto grottesco o assurdo: “Professor Cassano,/ ho toccato
con mano/ che l’alcool/ è la rovina/ di tutto./ Perché non mi ha creduto prima?/ Credevo/ che lei fosse
un igienista,/ un vegetariano./ Però ascolti: l’alcolista è tanto,/ in quanto, constatata la rovina,/
continua./ Altrimenti non sarebbe un alcolista…” Lo fanno correre da Milano a Pisa, da Padova a
Losanna, da una clinica che somiglia a un grand hotel a un’altra che ricorda discipline da lager. Ma il
racconto non resta ingabbiato nell’universo concentrazionario della malattia; il protagonista riesce a
innamorarsi (anche se deve dividere la donna con l’alcol, questo amante egoista e privilegiato che
impedisce un totale appagamento dei sensi) e osservare la vita e il mondo, e perfino fare dei bilanci non
soltanto suoi (So perché, o artista italiano,/ sei stato per 50 anni marxista,/ per di più freudiano./ E dillo
una buona volta./ Cessa di farti mangiare/ gli spaghetti in testa./ Tu hai paura/ d’incutere un’ombra di
paura,/ hai paura della tua ragione./ Hai paura della tua convinzione…”).
La presenza del poeta nella società italiana di questi anni è rivelata dall’efficace modernità del
linguaggio e da altri particolari. I nomi di certi personaggi emergono dai versi rafforzandone certi
significati satirici o documentari: ecco dunque Umberto Bossi, Carlo De Benedetti, Achille Occhetto…
Sullo sfondo emergono, volutamente velati o crudelmente illuminati, gli ambienti delle patrie lettere
(“Non si permette nemmeno l’invidia/ per chi vincendo il Premio Strega/ vi trova un’attrice”) o dei riti
mondani dei quali il protagonista assorbe i tic e il gergo. Dopo L’Infermiera di Pisa e Il palazzo e il
pazzo, con Diario del seduttore passivo, Ottiero Ottieri prosegue dunque l’autrobiografia in versi, ma
continua soprattutto un personalissimo discorso poetico iniziato nel 1971 con Il pensiero perverso.
Allora come oggi, ironia e autoironia graffiano a sangue: “Filippo chiese a un’infermiera/ dov’era il bar
/delle modelle a Sarteano./ È bene che disgregazione e ristoro del sé/ non si arrovescino sul testo,/
senza canto”.

LA PSICOTERAPEUTA BELLISSIMA (1993)

L’ IRONIA NEL LABIRINTO
di Silvio Ramat
(«il Giornale», 18 novembre 1994)

Nel nuovo libro di Ottiero Ottieri La psicoterapeuta bellissima (Guanda), scopro una rima-sintomo,
una rima-chiave: «“non faccio paura/tranne che con la malattia/ e la scrittura». Fra “paura” e
“Scrittura”, la “malattia”: motivo antico in Ottieri se pensiamo a Tempi Stretti (1957). Ma allora era
l’alienazione che colpisce chi pratichi fino a restarne stritolato gli ingranaggi del neocapitalismo, una
“macchina” che l’“olivettiano” Ottieri conobbe a fondo negli anni di Ivrea. Oggi il “mostro” di
quell’epoca non c’è più (forse); la malattia ci si annida più addentro. Il reale visibile si produce a Rai
Tre o nella villa di Arcore: il mondo si polverizza in blob, si parla via fax. E quanto al “despota”,
Ottieri più non lo odia né lo teme, anzi gli invidia quell’“autostima” che fa di lui un invitto; e si
domanda: «Perché io che so tanto bene/come stanno le cose/non riesco, non posso/divenire despota?».
Una occhiuta lucidità d’autore governa sia le guardie del corpo -odissea recitata da un «alieno/anziano
e osceno»- sia quella sorta di copione-racconto che apre il libro e gli fornisce il titolo. Fra le due parti, a
far da collante è la morte, o l’idea della morte, prossima: mentre ne Le guardie del corpo, va morendo
anche un canone, un modo d’essere della poesia, negli strappi di un verseggiare ritmato e libero, un po’
alla Palazzeschi, ma volto al tragico. Ne la La psicoterapeuta bellissima , se non ho sbagliato a contare,
muoiono in sette; si fa prima dicendo che non sopravvive che Tomaso, il “filosofo” e marito della
“psicoterapeuta” Giada. Ricalcando magistralmente gli stereotipi del costume e dell’eloquio
fineseculare, Ottieri qui ha mirato alto con la moltiplicazione di quell’uno che è Tomaso in una serie di
doppioni futili e inerti. Non meno fatuo di loro, perfettamente all’altezza dell’intelligenza dei nostri
giorni (ha scritto fra l’altro, un saggio, Per un’Ecologia dell’Azione debole!) Tomaso è senza qualità
nel frasario, nel tradire e nel mentire, nel dare e darsi parole d’ordine… Ma, da ultimo, egli tocca essere
il testimone, talvolta oculare, di tutte quelle morti e se vi reagisce con apparente banalità, come non
intuire però che muore anche lui in ciascuno dei sette decessi ai quali assiste o dei quali riceve notizia
secondo un’irresistibile progressione “comica”?
Rintocca spesso la parola “colpa”; ed esiste addirittura il “Professor Colpa”, un internista a cui si
rivolge Tomaso in una scena esilarante. Il “comico”, lo ha ricordato Giuliano Gramigna, riferendo
appunto di Ottieri, è tra i fondamenti dell’inconscio e ne caratterizza le espressioni. Ne Le guardie del
corpo –che sonno ahimè guardie anche “della psiche”, freudiane o “iperfreudiane”- si tratta di un
“comico” brulicante di “sofferenza” e “dolore”. Chiusi i manicomi con la legge 180, un bravissimo
psicoanalista e psichiatra Giancarlo Zapparoli, ha creato una struttura -un’“Orga”- lodevole negli
intenti, disastrosa negli effetti. Almeno per il protagonista, monologante o invano dialogante con le
“guardie” che lo sorvegliano a domicilio. Non mollano, chiedono di continuo lumi al “Capo”, a
“Giancarlo” che ormai è un “Guardasigilli”, prigioniero della Struttura che lui stesso ha voluto.
Vittima divisa tra i richiami dell’alcol (“modicamente lecito se ipnoconduttore”) e del sesso (vietato)
l’io farnetica, si strazia. Ogni tensione poi gli si polarizza sul nome di Rio, sull’“idea sessuale di Rio”.
Partire? La disintossicazione si ottiene solo per mezzo del viaggio, ma in viaggio non ci si può mettere
se prima non ci si è disintossicati…. Il circolo vizioso non si allarga.
Fra le molte comparse c’è anche il piccolo nucleo familiare: la “sposa”, una figlia, un amletico
nipotino. Da queste zone e da altre riemerge il “chi fui”, si riassume l’utopia dell’ Ottieri di un tempo.
La figlia lo rimprovera: “Tu non sei più un operista/ sei un immobilista.”
A una (distratta) guardia del corpo egli snocciola «la solita storia/che fui /marxista-freudiano/nell’ora
antelucana/del risveglio italiano./Ero in fase espansiva/ l’ideazione era pregna e fuggitiva»…
Convertire l’“Orga” in un’“orgia” di vino, di sesso. Contrattare con il “Capo” -“faxando” o per
telefono- il numero dei bicchieri consentiti. Un calvario, un labirinto cieco. Soffoco, dunque sono:
l’«Angor ergo sum» è davvero il motto appropriato a questa (in breve) epica della pazzia. Peggio che in
un “gabinetto dentistico”, un “trapano” devasta quella “casamatta” o “casa-cantiere” che è l’io.
Lo tormenta, valvola di sfogo e di salute ipotetica, l’irrinunciabile “idea di Rio.” Una “idea ossessiva”:
ne sentono il fracasso tanto la “”sposa” che la “notturna” (guardia). Le fisime prendono consistenza in
uno spaventoso “tum tum” che è quasi l’arrembante musica d’un libro sordo peraltro a ogni sirena
dell’armonia. Un oscuro messaggio a percussione. Un “verso” indecifrabile.
Che con la sua “ben nota ironia” (ma è piuttosto sarcasmo) Ottieri ambisca, e qui glielo rinfacciano, a
diventare il “Forattini della psichiatria”, è palesemente falso. E comunque la «psichiatria» –
l’istituzione- è lei la più forte; sarà lei a fucilare l’alieno incapace di commuovere quella roccia
tagliente che è ormai Giancarlo. A intervalli e fuori da qualunque raggio di riscontro scientificodiagnostico,
può succedere che l’alieno componga frasi assolutamente poetiche e qui si rivela l’intima
unitarietà del libro:
«Passa, come si dice la vita,/ mentre, s’intende, io sono la morte/ o meglio io sono l’arresto della vita/
io sono il rosso al semaforo,/ l’eterna attesa del verde».

BANDINI E OTTIERI, POESIE CLASSICHE. E TRASGRESSIVE
di Paolo Ruffilli
(«la Nuova Venezia », 3 dicembre 1994)

Novità di poesia, in libreria. Escono, quasi contemporaneamente il nuovo atteso libro di Fernando
Bandini (Garzanti) e un altro poema di Ottiero Ottieri, La psicoterapeuta bellissima (Guanda).
[…]
La psicoterapeuta bellissima, dopo Storia del Psi nel centenario della nascita, dopo Il palazzo e il
pazzo e L’infermiera di Pisa, conferma la vena poetica di Ottieri, un romanziere già da tempo avviato
in un viaggio negli abissi della Psiche. Il romanziere porta in dote al poeta il filo del racconto, sia pure
sfilacciato e aggrovigliato nella forma del poemetto di singole stanze collegate fra loro
continuativamente da un corridoio di passaggio e perfino di fuga. D’altro canto il poeta ha assicurato al
narratore una libertà assoluta, superando qualsiasi problema di azione, luogo o tempo; nel flusso
inarrestabile di un continuum ritmico – sintattico che ne è la cifra stilistica. C’è il mondo che Ottieri ha
rivelato nelle precedenti prove poetiche. L’attraversamento dell’alcol come rimedio alla sofferenza
dell’animo, la pronuncia del sesso come costante pratica della trasgressione, la consapevolezza della
divaricazione incolmabile tra il desiderio della mente e la realtà dei sensi. È la registrazione quasi in
presa diretta (sul nastro di un magnetofono) delle riflessioni di chi ha conosciuto tutte le malattie della
volontà e ha provato tutte le possibili cure, quelle costruite “all’europea” sulla parola e sull’anima, e
quelle fondate “all’americana” sulla chimica e sul corpo.
Le stoccate comiche e le impennate tragiche si alternano continuamente in questa dissacrante
confessione di Ottieri; un viaggio al termine della notte, dal quale la mente riaffiora insieme ingenua e
navigata, pura e corrotta, lucida e tenera. E la voce non ha più incrinatura e riesce a pronunciare senza timore e reticenze anche l’impronunciabile, che è poi il vuoto assoluto in cui galleggia la vita del
protagonista narrante, portatore di una pazzia specializzata. Quella pazzia, che come osserva Giuseppe
Conte nell’editoriale, sa regalare ai lettori versi irresistibili e definitivi nella loro essenza caustica.

STORIA DEL P.S. I . NEL CENTENARIO DELLA NASCITA (1993)

PADRE PARTITO CHE PORTI NEVROSI
di Roberto Carifi
(«l’Unità», 15 novembre 1993)

Narrazione in versi, cronaca politica e memoria biografia, Storia del Psi nel centenario della sua
nascita costituisce, insieme ai poemetto Il padre che completa il volume, una specie di chiamata in
giudizio che Ottiero Ottieri notifica a posteriori a paternità e partito.
Un avviso senza troppe garanzie, esplicito e diretto, ironico e doloroso, dove la colpa sembra
perpetuarsi in quel debito, impagabile che costituisce l’essenza della nevrosi.
Perché questa è ancora, come lo è sempre stata, la vera protagonista della scrittura di Ottieri, nevrosi
coatta, depressiva, fobica, insomma quell’universo mentale sottoposto all’onnipotenza dei pensieri che
il filosofo Karl Jaspers definiva «la tregenda dell’ossessivo»
Occorre assumere come chiave di lettura Il pensiero perverso, lo stesso che dava il titolo alla prima
raccolta di Ottieri, la circolarità dell’idea che ricade su se stessa come un cane che si morde la coda,
poiché tanto il padre, quanto il partito rappresentano l’autorità trasgredita dalla circolazione del
desiderio, dal flusso di una ruminazione psichica inutile e dispendiosa, esattamente come l’eiaculazione
notturna che instaura definitivamente la relazione fra piacere e colpa («Nonostante la tavola perdevo, /
con quello spiacevole piacere»). Ha ragione Valerio Magrelli nel sottolineare che nel libro «regnano le
figure del partito e il padre. Regnano, tuttavia come l’autorità può regnare in Ottieri, ossia con
compassione, ironia, nostalgia». Aggiungiamo che il racconto di Ottieri, come in certe costruzioni
freudiane, logora il nome del-padre, produce smagliature nella stoffa apparentemente compatta della
Legge, fa irrompere sullo sfondo della crisi di partito la crisi dell’identità patema e perciò della propria.
Il declino del partito («Il mito del neo-socialismo, / come successo / del potere nel sesso, / nella
moneta, nella potenza pura, / è caduto») procede parallelamente a quello del padre («Mio padre era un
uomo duro / ma che piangeva spesso / perché era depresso») e i due poemetti insieme istituiscono il
luogo di una finalità perseguitata dalla serpe «della malinconia e mania».
Ma se mettiamo in relazione il proletariato coatto e sradicato («Pei manicomi grigi/erra il proletariato»)
e il figlio che sembra morto, prigioniero di idee fisse nel fondo del suo letto, abbiamo di fronte un
delirio tutto sommato eversivo, rivendicativo, una sfida lanciata alla storia del padre-partito che ha
finito per tradire le sue energie migliori.
A parte certe sequenze che ci asciano perlomeno per plessi, come il riferimento a Pasolini il cui «valore
era la stupenda / miniatura dell’amore / e il michelangiolesco modo della fellatio e della
masturbazione», il libro di Ottieri può anche essere letto come l’apologia di un materialismo basso,
trasversale e disgregante, alla faccia del «satrapo Asdrubale» (Craxi), «colui cui non importa/ che cosa
organizza/ ma l’organizzazione, /sui binari di ferro /delle leggi economiche imperiture».
Rispetto al potere economico, anche nella versione craxiana, il pensiero perverso obbedisce almeno a
una logica non accumulatoria, predilige la circolazione del desiderio, anche sé deformato nel sintomo,
piuttosto che quella delle merci. Il proletario e il figlio riemergono sullo sfondo di una storia familiare
che li ha traditi, figure sghembe e allucinate, portatrici di una salutare povertà che il compagno
Asdrubale, «amato dal milanese management, /meno dai poveracci», avrebbe meglio compreso se
almeno una volta avesse letto le pagine dei Manoscritti dove Marx definisce il denaro «universale
mezzana di uomini e popoli».

Il SOCIALISMO SENZ’ANIMA VAL BENE UNA SATIRA
di Walter Pedullà
(«Il Messaggero», 6 marzo 1994)

Gli operai di Ottiero Ottieri sono poveri ma hanno l’anima o psiche, come tutti gli altri uomini. Ce
l’hanno da prima che gliela trovasse il Volponi di Memoriale. Il romanzo più celebre sull’alienazione
di chi lavora in fabbrica. Hanno l’anima malata o nevrosi, non meno degli intellettuali, compresi Ottieri
e Volponi, i due narratori che sono andati più a fondo nella psiche e nella nevrosi dei proletari.
Ottieri (come confessa nei due poemi raccolti sotto il titolo Storia del P.S.I. nel centenario della nascita
(Guanda), è stato guidato “laggiù” da due noti psicoanalisti, Mulatti e Perrotti, che erano due socialisti
di sinistra , per i quali sarebbe stato fecondo il matrimonio tra marxismo e psicoanalisi. Ottieri si è
battuto perché agli operai si riconoscesse non solo classe ma anche carattere individuale.
Nelle sue pagine, anche in questi poemetti troverete in mezzo a un’elettricità nervosa che spesso dà la
scossa, alto tasso concettuale e attrezzature intellettuali sofisticate. Ottieri però è capace di immersioni
che non reggono gli scafandri, sicché spesso gli manca l’aria. Che abbia un gran respiro lo attestano i
suoi racconti in versi, dove c’è anche l’affanno (specialmente nel secondo poema, intitolato “Il padre”.
Questo poeta cerca buone ragioni in modo asfissiante.
Si può fare della poesia con la “storia del Psi nel centenario della nascita?” Ottieri l’ha fatto e gli è pure
venuta meglio di tanti saggi sul socialismo italiano dal secondo dopoguerra a oggi, poco meno dei
decenni di sua militanza, suppergiù fino a quando Craxi rese il partito anche troppo prosastico ( Voleva
organizzar sezione come Centro commerciale/…il Partito come Azienda/Punto di vendita.” Ottieri
milita contro il socialismo senz’anima e ne fa la satira. Un poeta satirico con molta autoironia.
Con l’ansia che lo tormenta da una vita, non riesce a tener ferma un attimo la prosa, la frantuma in versi
e versicoli, deve farli suonare tutti. Ottieri le suona con duro sarcasmo al suo vecchio partito, ma attenti
alla musica che intona l’epicedio per il Psi. C’è la malinconia, c’è anche la nostalgia di una grande
utopia.
Il socialismo che ora è prosa è stato poesia. Più “poetici” i socialisti arruffoni dalla Resistenza al
Centrosinistra che non i socialisti arraffoni degli anni Ottanta. La prosa va verso la poesia in un poema,
genere letterario di confine, Ottieri sconfina e “arraffa” una verità da non rimuovere. Nei confronti dei
cugini comunisti “i socialisti oggi / non hanno più complessi?” Allora è la fine “il mito del neo
socialismo/ come successo del potere nel sesso/ nella moneta, nella potenza pura/ è caduto.” E potrebbe
persino scomparire il partito di Turati, Nenni, Pertini e Lombardi. Più bello come mito il vecchio
socialismo.
Una storia “faziosa” e pietosa, sarcasmo e tristezza,il privato che si fa pubblico, la psiche che fa luce
alla ragione,le ragioni dell’irrazionale e la dissennatezza del buonsenso. Il paleo socialista piange la
fine del vecchio socialismo ma non ride della disfatta del nuovo. L’umorismo mostra i denti, il racconto
ha mordente e poi c’è rovello mentale, pungente assillo di spiegazioni. Chi ha orecchio ascolti il ritmo
delle lasse e sentirà risuonare l’”anima”, la psiche di Ottieri. Il secondo poemetto si intitola “Il padre”
e contiene due spregiudicati ritratti dei genitori. Ottieri arriva, tanto dopo Svevo, Gadda , Tozzi, ma
tiene in mano con efficace originalità il testimone della staffetta che cerca nel padre (non escluso il suo
fascismo) la colpa dell’esistenza che viviamo così di corsa.

IL PALAZZO E IL PAZZO (1993)

« Il palazzo e il pazzo» poemetto di Ottiero Ottieri
PENA E ORGOGLIO
di Geno Pampalon i
(«il Giornale», 30 maggio 1993)

Dì tutti i libretti in versi scritti da Ottieri, questo mi sembra il più fluido e narrativamente il più ricco.
«Io non sono un poeta maledetto./ La mia vita è maledetta,/ma la scrittura è tardoborghese». D’altra
parte, «Il gioco verbale/è privilegio della malattia mentale/e della pubblicità./non della classe
operaia!/La classe operaia ha sempre /amato poto l’ironia e i doppi sensi».
Ecco un’altra autodefinizione: «Io non sono maturo/quindi non differisco il piacere./Io sono un
tossicomane/quindi voglio/tutto e subito./Esigo ebbrezza istantanea/e duratura». I terapeuti si divertono
«di uno che, matto, ha pure la fissazione/ di esserlo… io mi sento savio/ ma la vita mia/non è spiegabile
che con la follia». «Non sono un uomo bensì un sofferente/ designato non si sa da chi/ a tale ruolo».
Questo libro di Ottieri si presta dunque a due registri di lettura: la condizione del tossicomane, e un tipo
nuovo di poemetto narrativo. Intarsiato di riflessioni, confessioni, lamenti e vampate di orgoglio. È un
genere letterario che Ottieri ha inventato e perfezionato. Di ciò occorre rendergli merito.
Le glosse si intrecciano con il racconto; il poemetto è lucido e allucinato, disperato e girovagante. Ci dà
un personaggio sofferente, la sua pena e il suo orgoglio. Il delirio e il rimorso, la solitudine e l’affollata
compagnia degli incubi. Anche chi si ritiene «sano» è toccato nel profondo dalla veloce fantasmagoria
degli incubi. Credo che Ottieri sia un inventore di forme,come e proprio del poeti originali. E per conto
mio gli dico bravo. Ottiero Ottieri, «Il palazzo e il pazzo». Garzanti, pp. 120, lire 23 000.

QUATTRO MALANDRINI
di Emanuele Trevi
(«Nuovi Argomenti», gennaio-marzo 1994)

Che cos’è un autunno, in poesia? E, nella vita, quando viene un autunno? Più che alla saggezza,
implicante cessazione dello spavento e quindi, con tutta probabilità, un raggelarsi dell’ispirazione,
bisognerà pensare soprattutto ad un grado maggiore di verità depositato nelle figure della lingua.
Hölderlin chiedeva alle Parche questo supplemento autunnale della vita perché in esso giungesse a
compimento pieno la “maturità del cantare”, come traduce Contini. Quando, dentro un destino di
scrittore, riconosciamo l’aria dell’autunno, ci convince un tono di prossimità alla terra, al destino delle
cose, mai così pronunciato in precedenza. Eppure, “maturità” non vuol dire apostasia, il giro di vite non
implica la distruzione del già noto. Dentro un dato tempo (lo aveva capito Vivaldi nelle “Quattro
stagioni”) ci sono tutti gli altri, come memoria e come presagio. Nella loro allegoria circolare, anzi, le
stagioni ci insegnano che memoria e presagio sono due volti dello stesso movimento.
Distanti poche settimane l’uno dall’altro, quattro libri di poesia hanno disegnato una nuova
costellazione autunnale nel cielo della nostra lingua, Si sa, le stelle brillano da sole, e solo all’occhio
dell’uomo è dato disegnare i loro rapporti”. Ma dal momento in cui lo sguardo ha tracciato quella figura
ingannevole, anche questo inganno inizia a far parte della natura. Come la poesia, anche la critica
s’ingegna a trasformare le voci della solitudine nella foresta delle corrispondenze, utopia musicale di
una civiltà dello scambio e dell’ascolto. Personalmente, per quello che oggi può valere una
testimonianza, devo dichiarare che l’adesione a quattro libri è direttamente proporzionale ad una
precedente avversione. […]
[…]”Nel mio palazzo non c’è cazzo/di palafreniere, cameriere, portiere./Io, in quanto pazzo, mi ci
aggiro in mutande”.
“Il palazzo e il pazzo” (Garzanti, Milano 1993) di Ottiero Ottieri, di cui si è citato l’incipit, è un libro
che, assieme all’“Infermiera di Pisa” del 1991 ed a “Sotto i mantello della rivalità e autostima”
(pubblicato sul numero 42 di questa stessa serie di “Nuovi Argomenti”) conferma un tempo felicissimo,
vibrante di invenzione linguistica, di una carriera creativa varia e accidentata, comunque sfuggente a
compromessi definitori. È difficile render conto della strana bellezza di questo poema e della sua
novità. Vorrei soffermarmi, preliminarmente, sulla prensilità di una versificazione molto compromessa
con le tonalità triviali della prosa, tutta orizzontale insomma, priva di ascensione metaforica. Eppure,
questi versi sono la forma “necessaria” di un discorso che, in altro modo, non potrebbe essere proferito.
Circola in loro, al posto dell’estasi del tropo, la grazia saturnina dell’intelligenza. Merce poco amata (e,
in effetti, poco amabile, in linea di principio) in letteratura, e comportante modi praticati oggi da un
numero limitatissimo di ingegni.
“Il palazzo e il pazzo”, del resto, enuncia chiaramente, fra le prime battute, il proprio problema
stilistico.
Che è quello del dissonante accordo di una una vita “maledetta” e di una scrittura “tardo-borghese”.
Questione davvero centrale per Ottieri, che evidentemente non può mutare nè i dati di partenza forniti
dalla vita, né la configurazione della sua scrittura. Come tutti noi, Ottieri vorrebbe essere felice. Come
molti di noi, vorrebbe racchiudere questa felicità nelle forme cristalline ed eteree di un madrigale, di un
acquerello, di una sonatina per clarinetto. Invece il destino gli ha riservato la malattia ed assieme a
quella una lingua e bastarda, deliberatamente incapace di Sublime.
C’è un paragone, ad un certo punto, che illumina molto bene questo nodo: «Come Dante si spostava/ di
corte in corte/ io mi sposto di Divisione Medica in Divisione Medica».
Una vera ossessione dantesca percorre Il palazzo e il pazzo.
Ma è importante capire bene. I lettori di Ottieri conoscono bene l’epica, assieme comica e straziante del
ricovero e dell’assistenza psichiatrici. Anche non conoscendola, basterebbe questo libro a farli edotti.
Ma la minorità espressa dal paragone con Dante non riguarda esclusivamente il piano dell’esistenza. E
non riguarda nemmeno esclusivamente il piano dell’espressione. È una minorità assieme esistenziale e
linguistica. Perché il dramma del pazzo (con conseguenze anche eccedenti il piano della letteratura) è
un dramma strettamente verbale. Di per sé, un pazzo che si aggira nel suo palazzo potrebbe consolarsi
con illustrissimi blasoni gentilizi, quali meglio non si potrebbe desiderare. Si pensa subito a Hölderin-
Scardanelli nella sua torre o agli snervati rampolli di illustri prosapie di certi racconti di Poe. Ma il
pazzo in questione, il pazzo di Ottieri, è incatenato ad una particolare storicità, quella del disincanto
televisivo, del livellamento dei consumi e dei desideri, dell’appiattimento delle lingue. Categoria
sociale fragile, quella del pazzo subisce tragicamente una situazione segnata dall’imbarbarimento
culturale. Perché la lingua che dovrebbe accompagnare il suo destino irripetibile è diventata la lingua
della psichiatria e della psicanalisi, perdendo dignità e potenza descrittiva.
Un gergo settoriale, e dunque di per sé grigio, trasformatosi per sovrappeso in serbatoio di luoghi
comuni giornalistici e cattivissima letteratura.
[…] Oggi, apprendiamo da Ottieri, anche il nesso fra pazzia e originalità è fortemente minacciato. Il
disagio mentale è esiliato dal Sacro. […] Nel mondo in cui migliaia di persone consumano gli stessi
farmaci dai nomi ridicoli e sono inchiodati alla stessa decina di formule diagnostiche, nessun ‘furore’
potrà dirsi ‘eroico’.
È come se la “Sonnambula” di Bellini dovesse incedere accompagnata dagli arrangiamenti musicali di
Sanremo. Al conte pazzo non rimane allora che la mossa ardita e disperata di una grottesca ironia. Il
suo Palazzo, come le pagine del diario del folle di Gogol’, verrà sventrato dalla banalità linguistica e
dalla miseria ideologica del mondo massificato. Ma quella banalità e quella miseria non cadranno in
mani affidabili. In Ottieri, il meccanismo ridondante della ripetizione implica sempre deformazione.
Non solo quello della psichiatria, ma tutti i “grandi racconti” istituzionali (come quelli della politica e
della religione vengono riformulati ed annientati con ironia (uno dei brani più riusciti del poema è il
colloquio fra il conte pazzo e don Isacco: «Don Isacco, lei eccede/ nel rinviare a Gesù./ Se dubito, lei
mi dice/ di far decidere a Gesù./ Se non credo/che stalinismo e nazismo/ siano pari,/ lei mi dice/ di
chiedere lume a Gesù./ Io dovrei disturbare Gesù/ continuamente»). Bisogna chiedersi cosa rimanga del
mondo, al termine dell’ironia. È già molto, che un uomo si riappropri dell’inconfondibile originalità del
suo soffrire. Ma non basta. Il premio dell’ispirazione deve comunque eccedere le mitologie carcerarie
dell’identità, dell’autobiografia.
“Chi soffre non è profondo”, ci avvertiva in “Somiglianze Milo De Angelis, buon lettore dello
“Zarathustra”. Mai come in questo suo libro, Ottieri è aperto alla possibilità che il disagio personale
dell’esistenza si trasformi nel sogno umano della civiltà. Gli ultimi due versi del libro si proiettano sul
futuro della “tensione a Beatrice” e del “dantesco rischio d’esilio”. Cambia, nel momento in cui si
approssima alla fine, il tono emotivo del discorso. Il “lamento” di Ottieri non è rattrappito nello
squallore di un’apologia.
«Non posso fare che quello che faccio,/ non posso essere/ che quello che sono./ Ma accontentarsi è
impossibile». Dentro il lume di questa urbanissima insoddisfazione, chissà se il Palazzo non diventi
anche il luogo di una salute paradossale. A nient’altro servono la tensione faticosa e l’esiliata pazienza
della poesia.

L’ INFERMIERA DI PISA (1991)

LA DEPRESSIONI NEI VERSI DI OTTIERO OTTIERI
UNA MEDAGLIA AL MALORE
di Geno Pampaloni
(«il Giornale », 17 novembre 1991)

Ottieri scelse la malattia a cinque anni, «premendo – il campanello bianco della scura – porta di casa in
noce». Si è poi sottoposto a undici anni di psicanalisi, ha girato per le cliniche, di mezzo mondo, «gran
datore di lavoro. Mantiene psichiatri, psicanalisti, psicologi, assistenti sociali, infermieri, tassisti e
baristi», e merita anche lui una «megaglia al malore». Se non altro per avere scritto sulla malattia
mentale, l’ansia, l’angoscia, lo «spavento globale», «la disperazione (che) sa di carne marcia», di
«nonno infelice della sua gioventù», due libri da collocare nei piani alti della saggistica contemporanea:
L’irrealtà quotidiana, 1966, e Il campo di concentrazione, 1972.
Era stato, agli esordi, uno dei padri putativi della letteratura industriale; Donnarumma all’assalto
(1959), una sorta di diario del periodo in cui era stato incaricato delle assunzioni di operai nella
fabbrica Olivetti di Pozzuoli, gli dette fama e successo.
Poi è stato travolto da altri problemi; e non è detto che lo scrittore non ci abbia guadagnato.
L’infermiera di Pisa è scritto in versi; ma, come ha osservato Raboni, non si tratta in senso proprio di
«poesia», ma «di un particolare, efficacissimo modo di pronunciare la prosa». Ciò che colpisce è la
straordinaria complessità. C’è l’autodenigrazione («porco senile», «vecchio babbeo», «vecchio
giovinetto arrancante») e il non sopito sogno che le donne si posassero sul suo letto come elicotteri, per
possederle con «l’atletico c…» degli anni giovani. C’è l’uso di un linguaggio aulico (frale, volea, il
sentiere e simili) alternato a un vocabolario di colorito popolaresco («ohimena» per ahimè, «scolta» per
ascolta, «smaniato di donne», «invispito» per tornato euforico dopo tante crisi di disforia, la
fotomodella «scaciata» senza classe o stile, lo «sbarbino» cioè l’adolescente smaliziato con l’aria
perbene, il «ficheto», cioè la selva dei sessi femminili); c’è il dolore della malattia («con la sua
sofferenza – avrebbe potuto riempire il mare», «reso moribondo dai fantasmi», «soffiava d’ansia -come
un soffione boracifero… non un uomo egli era, – ma una solfatara. Egli era un vulcano psicolabile – che
durante i secoli eruttava sempre», «mantice dell’ansia», «carcassa di desideri rincalcati», «angor ergo
sum»); e c’è la presenza rassicurante del professor Cassano, il suo «charme acuto o tondo», i suoi
«psicologici acume e ragione», «positivista, trasformista, mago», «toscano e americano, – ma
nell’animo napoletano»; per cui talora «i pazienti – guarivano per non deludere – il suo entusiasmo e la
sua dedizione». Approdato alla clinica di San Rossore nel «mite cielo di Pisa», ormai consapevole,
dopo tante esperienze, che «la clinica è un mondo, e il mondo una clinica», Ottieri si inventa un grande
amore per una infermiera: «libellula», «alto stelo», «magro e casto – culetto a segreti scatti»; simbolo
per lui dell’attenuarsi della sofferenza; passione impossibile, ma possibile speranza.
Dalle molte citazioni il lettore avrà potuto rendersi conto, spero, della libertà fantastica quasi febbrile
che anima queste pagine, più forte e spiegata che negli altri libri; libertà, almeno in certa misura, anche
dalla malattia. Nel fondo della quale possiamo intravedere la complessa ambiguità dell’opera di Ottieri.
Da un lato, infatti, la sofferenza; ma, in contrappunto, il sentimento che essa costituisca un privilegio.
Se egli non conosceva ormai più che «la sua ombra cipressina» e pensava che «tossico è il mondo
perché tossica è la vita», al tempo stesso si sentiva «vittima implacabile» della malattia, custode geloso
della propria « eccelsa arte di soffrire». Il suo narcisismo posa sul confine sfuggente tra disperazione e
liberazione. Ed è, questo, un tema squisitamente contemporaneo; anche se appena accennato, esso dà al
poemetto- diario-lamento-confessione un accento di verità.
Il finale come spesso accade nei libri riusciti bene è significativo e felice. Mentre in cucina l’infermiera
di Pisa rideva spensierata ascoltando i racconti delle colleghe («si torceva- e saltava, si divincolava
sulla sedia bevendo il caffè») io «si ingegnava ad amarla – sino a che risplendesse il sole – sull’ansie e
le gioie, – le speranze e le morti». Foscolaniamente Ottieri, evocando la morte, rientra nella realtà. Se
ne deve concludere che la cura del professor Cassano gli ha fatto bene.

VECCHIO MATTO
di Giuliana Petrucci
( «L’Indice», marzo 1992)
L’infermiera di Pisa è il nuovo poemetto in versi di Ottieri, in cui l’autore prosegue la sua dura ricerca
della guarigione psichica: le tappe, come testimonia gran parte dell’ultima sua produzione, sono quelle
forzate delle cliniche, dove il paziente è ridotto a volontario prigioniero in cambio della speranza di
libertà dal dolore mentale.
È questo un primo, grande paradosso, una trappola alla quale Ottieri, attraverso le molteplici voci dei
suoi personaggi autobiografici, si affida e contemporaneamente si ribella, riaffermando di contro alla
parzialità delle scuole terapiche la totalità dell’individuo, la sua integrità sia pure malata, la sua
assolutezza. Infatti, la depressione non è solo tema dei suoi libri, ma l’oggetto, di cui l’io sofferente,
come altro da sé, spia e coglie i meccanismi strutturali più profondi e paradossali. E qui stanno i
contributi maggiori della scrittura di Ottieri sul piano della conoscenza clinica.
Si rilegga, per esempio, Il campo di concentrazione (1972), resoconto di un ricovero per depressione,
ma soprattutto registrazione in atto dei procedimenti del pensiero depressivo che, nella sua
onnipotenza, scardina il sistema logico del pensiero non malato, rendendolo – vittoriosamente! – o
quanto meno parziale.
[…] Quello che l’autore mette in scacco, in ultima analisi è il dogmatismo delle scuole, delle terapie,
dei metodi, in una sorta di dialogismo “in assenza”, di volta in volta arricchito per dati esponenziali,
con gli addetti ai lavori: ultimo, ne L’infermiera di Pisa, il confronto – scontro nell’approccio al disagio
mentale, tra la psicologia analitica, e alias Freud e nipotini e la nuova psicologia biologica, l’”alchimia
americana”, come l’autore la definisce, praticata nella clinica di San Rossore: tra Giancarlo il
freudiano e Giovanni / sta il vecchio nell’antico / dilemma rinovellato. / Il barone della parola e il
barone / della molecola con le loro schiere, / si scontravano nel cervello, nel corpo / del vecchio come
le contrade sul Ponte di Mezzo».
Ho detto mette in scacco, ma in maniera ambivalente: si opera infatti, sul piano della scrittura, una sorta
di sdoppiamento tra il bisogno dell’io-paziente di attaccarsi a una certezza, sia pure definitoria, del
proprio status patologico, fornita dalla scuola di turno e la rivincita dell’io-narrante che fa vendetta
della babele dei linguaggi tecnici, siano psicoanalitici, psicodinamici, cogni-tivisti, behavioristi o
psicobiologici, riducendoli alle corde strette delle parole ultime o “primarie”: desiderio, bisogno,
amore, morte, dolore ecc. Snodi difficilmente eludibili.
Da questo punto di vista, ne L’infermiera di Pisa, la scelta del “vecchio matto”, raccontato in terza
persona ma che spesso protesta il suo “io”, è estremamente efficace. Sembra qui di essere arrivati a un
punto di non ritorno; infatti non è solo scontro con la malattia, ma anche con la vecchiaia e la morte.
Ancora di più, dunque, la bella favola dell’innamoramento per la giovane infermiera “libellula”, “alto
stelo”, evocata più che descritta, con toni leggeri, quasi incorporei (albero fronzuto solo di ricci neri,/
d’occhi, di naso, di bocca»), nonostante le impennate erotiche del pensiero e della carne, diventa centro
vitale di questo poemetto.
Amore come terapia al dolore, ma, soprattutto, bivalentemente, come contro-terapia alla terapia
prescritta dalla clinica, alimento della sofferenza, ostinato attaccamento all’impossibile, all’utopia:
“indefessa ricerca/ della felicità prima dell’urna/ bambinone alla cerca/ dell’umore lineare,/ utopia del
bipolare”.
L’onnipotenza del “pensiero perverso”, già sperimentata nelle sue contorsioni logiche nel poemetto
omonimo del ’71, funziona in questo caso da lente di ingrandimento per mettere a fuoco quello che la
“normalità” ha accettato, elaborandolo in chissà quali remote stagioni della vita, e che i medici, anche i
nuovi “psicobiologici”, tentano di rimuovere: l’aporia insanabile, lo scacco (dell’esistere a cui l’uomo è
condannato, .quello cioè dell’irreversibilità del tempo (leggi: vecchiaia e morte), nei confronti del quale
l’accettazione del relativissimo “qui e ora” non può tenere.
L’onnipotenza protestata dalla tenera, autoconsolante, autoironica e disperata voce del vecchio diventa
allora una via d’uscita e un cul de sac, negazione del principio di realtà e fonte di perpetua sofferenza:
Voglio la felicità che dipenda/ dall’amore, alla mia età,/ felicità e dolore della terra»… Io voglio
l’ultimo amore/ il resto è silenzio». Bellissime le fughe anelate sul litorale toscano, con lo “stelo
libellula”: Uscito da San Rossore/ sarebbe andato a caccia di lei/ da Boccadarno al Magra,/ da Marina
a Serravezza,/ nella piana, pei monti, /beati per l’aure felici» (si noti la clausola foscoliana e non
l’unica); bellissimi gli scorci paesaggistici dell’odiata-amata Pisa: “via dalla sacra piana/ giacente sulla
sabbia/ fra Arno e Serchio/ lasciare la città ampia e silente/ dove la torre pendente, cadente/ fa da
pendant alla Spina,/ non chiesa ma oggetti/ preziosi deposti”, che aggiungono alla rapidità definitoria
cui la scrittura di Ottieri è familiare, un in più di sentimento e di affetto.
La scrittura di Ottieri è da sempre volutamente atonale, in sintonia con la voce dei suoi personaggi
malati; se ‘potessero si ridurrebbero al silenzio. ma ne L’infermiera di Pisa, la narrazione in versi
accumula accanto alla sordina prosastica leggeri grumi di canto, pur raggelati nelle frequenti pointes da
una sorta di autolesionismo ironico. A questo effetto concorrono contemporaneamente il gioco
molteplice delle rime e delle citazioni e il ritmo che da scansione a grado zero passa agli accenti
dell’endecasillabo pieno. L’infermiera: che sia di Pisa è un caso nella realtà della vita dello scrittore.
Nell’oggettività della serie letteraria però, non si può fare a meno di pensare ai Pisan Cantos di Pound,
e non solo per il titolo ma per la medesima condizione di “prigioniero”, e all’ Alcyone. Un Alcyone
della contemporanea società postindustriale e americana in cui il Superuomo è diventato un “bipolare”,
Ermione un’infermiera con cui tutt’al più ritirarsi in un podere in Sottomonte,/ condurre una vita
selvaggia,/ o inaugurare una pensione / nell’odiata Viareggio» e dove lo smemoramento panico è
conquistato chimicamente con i sali di litio della salatissima clinica di Pisa: è la destra evoluzione del
mondo», così, lapidariamente, il poeta; e in modo più diffuso: Venne dall’America la DEP/ malattia
mentale unificata./ Venne ricca di sigle/ che piacevano all’imperialismo/ che aveva sempre fretta/ … /
Piacevan le sigle/ anche al vecchio operaista,/ di cervello non di tasca,/ cui piacevano i gerghi:/ s’era
per urgente bisogno/ spostato all’Ovest come la Polonia./ Bush portava quattrini,/ Cassano speranza/ e
fede nella possibilità del bene./ Potenza dell’West/ e delle sue parole”.
Il fatto è che Ottieri, passato di necessità alla scrittura della clinica, non ha per questo reciso i fili con la
realtà e la storia, di cui continua a mandarci un messaggio fortemente critico. Il soffrire esistenziale,
patologico e privato è comunque interrelato a un contesto storico-sociale, in cui il soggetto alienato ha,
per fortuna diremmo, le sue pur dolorose utopie: S’ingegnava d’amarla/ sino a che risplendesse il sole/
sull’ansie e le gioie,/ le speranze e le morti»…