I DIVINI MONDANI (1968)

L’ETICA DELL’”HIGH LIFE”
di Vittorio Spinazzola
(«Vie Nuove», 26 settembre 1968)

Per molti connazionali fu una vera emozione quando alcune settimane fa si sparse la voce che Brigitte
Bardot, la grande Brigitte, si era fulmineamente innamorata di uno sconosciuto italianuzzo, il Luigi
Rizzi di Milano o di Genova. L’idillio finì presto e tempestosamente: ma non prima che la stampa
d’informazione ne avesse divulgato i connotati esemplari del personaggio. Non ha sangue nobile, non è
un campione sportivo né un divo dello spettacolo, si tratta solo di un giovanotto che ha abbastanza soldi
per non far niente fingendo di lavorare, ideologicamente tutto impegnato in quella suprema fatica che è
la battaglia sessuale.
Ecco, una figura del genere introduce abbastanza bene alla lettura dell’ultimo libro di Ottiero Ottieri, I
divini mondani (Bompiani). Esso è dedicato ai dominatori della cronaca rosa: aristocratici con quattro
quarti di sangue blu, ma anche indossatrici di bassa nascita, industriali poco affaccendati coi consigli
d’amministrazione e belle puledre dedite all’arte, mettiamo, o alla sociologia o magari aspiranti alla
carriera cinematografica. Comune a tutti è la convinzione che un’occupazione piacevolmente redditizia
sia indispensabile al prestigio personale. Così vuole l’etica della nuova mondanità internazionale, che
mostra di prenderla rigorosamente sul serio. Il racconto si svolge come una cronaca obiettiva,
impersonale: non c’è trama, solo un succedersi di cocktails, pranzi in piedi, pranzi seduti, pranzi in
piedi seduti, defilès, “cacciate” al fagiano o al cinghiale e tanti tanti brancicamenti con donne. Non ci
sono protagonisti o meglio sono tutti interscambiabili anche se domina il campo un Orazio proprietario
di una fabbrica di apparecchi igienici, tutto proteso a introdurre il bidet nel grande mercato
anglosassone. Il fatto è che in questo mondo fasullo non possono esserci vere e proprie individualità
perché ogni persona, pur liberissima di sé è in realtà schiava di un codice di comportamento non meno
rigido di quelli cui obbedivano i dignitari di corte del Re Sole. Le “creature” vengono sedotte sempre
con la stessa tecnica, le feste vengono condotte secondo identici rituali; infine, tutti parlano allo stesso
modo, secondo le norme di un linguaggio inderogabile. Ottieri reinventa molto felicemente questo
particolare gergo, evitando di cadere nella banalità della caricatura e fermandosi su una caratteristica
essenziale: la presunzione di dir tutto con poche parole eleganti e icastiche, salvo poi rovesciarsi nel
luogo comune o cascare nella tronfiaggine ridicola. Ma la comicità dei Divini Mondani non è solo un
fatto di linguaggio: questo modo di esprimersi è intimamente connaturato al ritmo di vita seguito da
gente, quanto più sfaccendata, tanto più febbrilmente, ansiosamente assorta nel rincorrere i suoi
passatempi. Così il racconto assume l’andamento di un balletto sincopato, eseguito da maschere senza
volto e senza interiora. Magari qualcuno si stupirà che una materia così futile abbia interessato lo
scrittore di La linea gotica e Donnarumma all’assalto, libri tra i più significativi della recente
“letteratura industriale”. E può darsi che I divini mondani vada catalogato tra le opere minori, i
cosiddetti divertimenti d’autore. Certo si tratta di un divertimento riuscito in modo quasi impeccabile.
Ma poi quando mai la futilità è stata un fenomeno poco importante? Personaggi come quelli di cui
parla Ottieri ce li vediamo proposti ogni giorno a modelli di vita. L’ideologia del benessere, del tempo
libero, dell’eterna vacanza ha in loro la più efficace incarnazione mistica. Altro che fantasmi
inoffensivi! Sono una realtà con cui ogni lettore di rotocalchi e fumetti è indotto a fare i conti.

DIVINI MONDANI E GIOVIN SIGNORE
di Mario Soldati
(«Il Giorno», 23 ottobre 1968)

Le nozze di Jackie e di Onassis riconducono naturalmente l’attenzione su “I divini mondani”,
miniromanzo di Ottiero Ottieri, apparso soltanto all’inizio della scorsa estate e subito dimenticato o non
abbastanza apprezzato forse per il pedantesco pregiudizio che “era un libro troppo breve”. Eppure si
tratta, nei suoi limiti, di un’operetta riuscitissima, che ritrae con la “high fidelity” di un registratore ma
anche con la secca ironia di un perfetto montaggio della colonna registrata, quell’ambiente dello
snobismo cosmopolita che, in fondo, i nostri scrittori conoscono poco, giudicando sommariamente o
fingendo di disprezzare, mentre la verità è che lo invidiano e, allo stesso tempo, non lo invidiano
abbastanza per superare la propria invidia e per sobbarcarsi alle pazienti, quotidiane fatiche di
frequentarlo come, per esempio, fece a suo tempo Proust frequentando il Cotè des Guermantes.
“Nella stanza da bagno immensa, del tutto nera, le rubinetterie dorate, una sottile musica si spandeva da
un grammofono vigilato da una ragazza graziosa. Un uomo in camice bianco a mezze maniche stava, le
braccia conserte, davanti allo stipite destro di una porta chiusa sul corridoio;Un’altra donna, in camice
nero, stava davanti allo stipite sinistro della medesima porta; un uomo cinquantenne, in calzoni grigio
scuri rigati e giacca nera, straordinariamente signorile, occupava lo spazio tra il lavandino e la porta, in
piedi. L’autista occupava il vano della finestra. Pietro sedeva sul cesso, brillante, nero…In silenzio,
dalla porta sulla camera, comparve Orazio. Di fronte allo specchio posto sopra il lavandino prese a
schiumarsi il viso con grande minuzia… Solo la impalpabile musica occupava la stanza nera dove tutti
attendevano in un profondissimo silenzio spasmodico… Indicò col dito la signorina del grammofono
comandando: “Avanti”. Esplose un disco in prosa […]”.

L’IRREALTÀ QUOTIDIANA (1966)

L’IRREALTA’ QUOTIDIANA
di Geno Pampaloni
(«Il Resto del Carlino», il 9 luglio 1966)

Il libro di Ottiero Ottieri (L’irrealtà quotidiana, ed. Bompiani) è probabilmente la novità più rilevante
di questa fiacca stagione letteraria. E, comunque, è la definitiva conferma di uno scrittore acutamente
problematico, il libro che meglio ne esprime la natura complessa, la delicata sottigliezza intellettuale, e
la capacità di incarnare le ambiguità contemporanee con tutto il loro peso esistenziale e culturale. Non
tutte le tappe del lavoro di Ottieri, così ricco di divagazioni e di sperimentazioni, erano state sinora
convincenti: dal primo romanzo ancora post-ermetico (Memorie dell’incoscienza, 1954) al bel romanzo
di fabbrica (Tempi Stretti, 1957) alla diaristica tessuta di sociologia e stretta attorno ai nodi della
società industriale (Donnarumma all’assalto, 1959; La linea gotica, 1962), al racconto di registrazione
comportamentistica (L’impagliatore di sedie, 1964). E, in questi ultimi anni, sinceramente, avevo
creduto che Ottieri si stesse perdendo dietro le mode, che sprecasse il suo ingegno con un po’ di
leggerezza. Ma dopo questo libro devo riconoscere che ha avuto ragione lui, e che le linee del suo
lavoro hanno trovato un esito coerente, Ne L’irrealtà quotidiana, egli ha rifuso tutte le sue esperienze,
le ha radicalizzate, ne ha fatto una vicenda drammatica e reale, come dicono, “romanzesca”.
Vorrei qui notare come, dopo il Croce, le novità di genere letterario non siano mai grandi novità; e non
darei quindi troppo rilievo al fatto, da altri apprezzato, che si possa parlare, a proposito di questo libro,
l’architettura solida e fluente delle sue linee è una delle riprove più concrete della sua riuscita. Anche là
dove appaiono più tecniche, letterariamente più aride, queste pagine tengono sempre il passo, e il
lettore le accompagna. Il “romanzo” che c’è dentro funziona. Più interessante ancora mi sembra notare
che, sempre rimanendo nell’ambito dell’autobiografia, e cioè dell’esperienza diretta, Ottieri è riuscito a
ttrasformare il tema consueto della confessione nel tema dell’indagine. Da un capo all’altro del libro,
con tenacia umiltà e rigore, egli cerca veramente di dirci “chi è”.
Il protagonista del libro, il personaggio che dice “io “, è persona di conoscenza. La sua storia privata e
pubblica non si discosta troppo da quella di infiniti altri personaggi che hanno attraversato, nella nostra
letteratura, gli stessi tempi e le stesse avventure. Lo conosciamo alla perfezione; dall’infanzia difficile
al crollo dei valori nel corso della guerra, al soprassalto della Resistenza, alla rivolta contro i padri,
all’infatuazione socio-marxista, sino al nuovo ingranaggio, affascinante e repulsivo, dell’alienazione. Si
può dire che gran parte della nostra narrativa dell’ultimo ventennio non abbia fatto altro che
raccontarcene la storia. E poiché la fantasia di nessun poeta è riuscito a staccarlo da noi, a dargli un
nome preciso, è divenuto, codesto personaggio, folla un po’anonima, compagno di strada.
Ottieri non tenta neppure di definire poeticamente il suo personaggio, nebbioso e irrinunciabile come
tanti altri. Ma ci fa registrare sul suo conto alcune differenze importanti. Gli lascia, come a tutti i suoi
confratelli, la vocazione di confessarsi, ma porta la confessione fino in fondo, lo fruga con gli strumenti
più aggiornati di ricerca, e arriva al limite di una conoscenza senza indulgenze.
Le pagine iniziali del libro, nelle quali il personaggio è visto immerso Nel suo sentimento di irrealtà,
che gli acuisce la sensibilità e al tempo stesso gli toglie il gusto di vivere; o quelle finali sul “male”, che
egli vive in quanto è sul punto di smarrIrsi, di divenire un puro momento della sorte, lo specchio
disperato e convulso di una realtà nemica, sono tra le più originali del libro, e lasciarono un’emozione
profonda. Il giuoco dei sentimenti, la conoscenza, la stessa vita morale divengono per il personaggio di
Ottieri un itinerario scosceso e misterioso tra gli ineffabili, alle cui rive sciabordano paurose le
vibrazioni di quel “silenzio irrecuperabile” ove il male è presente con la sua selvaggia minaccia.
Inoltre Ottieri non dà al suo personaggio un vero e proprio ideale di vita, non gli affida un messaggio,
non lo piega verso un esito edificante. Il suo problema egli lo limita alla salvezza, alla “salute”
etimologica, che è un valore primario in sé, perché salvaguarda la sua cellula di umanità, unico
contributo possibile all’equilibrio del mondo. Egli gli dà non un ideale ma una cultura e una
metodologia (la compresenza indispensabile di Marx e Freud) e fa le parti molto giuste nel distribuire
la quota intellettuale e la quota intellettuale e la quota esistenziale del suo curriculum.
Per il resto, il suo compito non è esortativo ma diagnostico, ed egli insiste a fare il punto con accanita
precisione, a mettere a confronto il suo personaggio con le forze e le inibizioni che, dall’esterno o
dall’interno, lo condizionano. Il processo coincide con il libro, e non sono lasciati margini per altri
elementi di natura meno controllabile.
Ottieri ci parla, correttamente, delle diverse forme che assume oggi l’esigenza di mutazione dei rapporti
esistenti nella società, ma non dei possibili traguardi o modelli di tale esigenza; ci parla dell’impulso
all’utopia, non di un suo qualsiasi disegno. Questo dichiarato, lucido ed estremista soggettivismo crea
nel libro una dimensione onesta, e nel personaggio una gradevole novità. Rispetto ai suoi innumerevoli
confratelli letterari, questo protagonista di Ottieri è, finalmente, un dichiarato Narciso:individuato,
messo a fuoco; e naturalmente, sofferto. Nel libro di Ottieri ci sono parecchie cose opinabili, e alcune
anche che mi sentirei di respingere. Esso è fondato tutto sul presupposto che il marxismo sia stato
assorbito come una necessità nella nostra cultura, e che la psicoanalisi sia il più moderno strumento
d’analisi sull’uomo. L’arte sembra all’autore “indifesa di fronte alla distruzione
dell’autoconsapevolezza” e viva solo sul filo dell’azzardo della sua lotta con la ragione. Il “male” non è
più di natura morale, ma psichica. Si tratta, in questi casi ed in altri, di argomentazioni molto attuali ma
difficilmente verificabili; e c’è una certa facilità, nell’autore, a liquidare come “retorica” aspetti ancora
largamente problematici del sentimento contemporaneo. C’è detto in breve una certa indulgenza verso
lo snobismo. Tuttavia, alla fine del libro (e questa è un’altra conferma della sua creatività) il nostro
dissenso risulta marginale rispetto alla discussione che Ottieri permette di aprire.
Egli riesce a partecipare, nella sua ricchezza di ambivalenze, a specchio fedele di una cultura come la
nostra, priva di vere linee egemoniche, riesce a partecipare sia del tradizionale storicismo (pur
vivacemente aggiornato), sia delle aperture che l’avanguardia, e lo strutturalismo, offrono oggi al
pensiero estetico e critico. L’irrealtà quotidiana è un libro capace di instaurare un dialogo aperto verso
entrambe le direzioni. Il personaggio di Ottieri non è chiuso nella sua generazione, le sue
contraddizioni investono un arco più ampio nel quale due momenti del nostro tempo, oggi a contrasto,
si possono riconoscere, e in qualche modo incontrare. In sostanza, ci dice lo scrittore, il mondo muta
non soltanto nelle sue determinazioni storiche, ma anche, e forse soprattutto, nella soggettività
dell’uomo che le misura. Il rapporto dell’uomo contemporaneo con la complessa mistificazione del
mondo in cui vive, è un rapporto sempre di dare e avere eternamente ambivalente. La precisione con
cui tale rapporto va studiato e còlto è temperata dall’estrema labilità di ogni misurazione . Il relativismo
contemporaneo è la difesa più attuale contro i rischi dello scetticismo, oltre che contro quelli del
fideismo.
Questi dunque mi sembrano i due punti essenziali che raccomandano L’irrealtà quotidiana come un
libro innovatore: l’immagine che dà, concreta e non letteraria, del Narciso contemporaneo, spogliata di
molte sovrastrutture troppo idealistiche, e l’attualità di un’esperienza che coinvolge nei suoi interessi
due generazioni per molti versi oramai molto distanti l’una dall’altra.
Rimangono poi i meriti più squisitamente letterari di Ottieri. Solo un vero ingegno di scrittore poteva
riuscire nell’ardua prova di oggettivare i dati, estremamente soggettivi, di una fantasia che si misura
non nel proprio momento inventivo ma sull’infelicità e sulla malattia che usurano oggi la società e la
persona.

POCHE ROSE FRA LE SPINE DEL GRUPPO 63
di Andrea Zanzotto
(«La Stampa», 12 novembre 1983)

Intervento al convegno di Palermo su “Letteratura fra consumo e ricerca” dedicato ai vent’anni del
Gruppo 63.
“Soltanto dall’esterno si sarebbe potuto pensare a “un fatto nuovo” quando clamorosamente i giornali
cominciarono ad occuparsi del Gruppo 63 e dei suoi convegni. Come è noto in esso confluirono, in
modo più o meno convinto, molti che operavano già da anni, isolatamente o a piccoli gruppi, alla
ricerca di “fatti nuovi”, non solo in letteratura. E cioè facevano ricollegandosi ad esperienze analoghe
compiute in vari paesi. “Altri, forse più ossessionati dall’idea che nulla era veramente possibile, che si
era entrati nell’era della convenzionalità coatta, della reversibilità tra “autentico e falsetto”, e convinti
che l’isolamento dentro il “terrore di ogni giorno” (di cui doveva risolversi l’ideologia globale
dell’equilibrio del terrore), era il destino di questi decenni, non sentirono alcuna motivazione ad
inserirsi in “gruppi formalizzati”, preferendo un labile eppure assai resistente reticolo di rapporti
personali, semisilenziosi, ammiccanti, piuttosto “depressi”, lavorando tra infiniti dubbi e insieme, come
in stato di necessità, sotto la sferza, come se ne andasse della loro sopravvivenza fisica e quotidiana,
anche nello spostare una virgola.
Certi comportamenti del “Gruppo 63” e dintorni apparvero improntati a giovanile tracotanza, ad un
certo trionfalismo ingenuo, per quanto devoto ad un mito dell’astuzia e della massima autocoscienza
raziocinante, del “saperla più lunga degli altri”.
“Il lavoro teorico del Gruppo apparve comunque vivace, anche se non certo esplosivamente nuovo;
quanto alla bravura nella “fiction”, molti componenti ne avevano già dato prova e ne diedero conferma,
anche scomparsi i gruppi. La questione della conflittualità a proposito di un fantomatico potere
letterario è talmente irrilevante che non val la pena di soffermarcisi.”
“Oggi è ormai chiarissimo ciò che lo era assai meno decenni fa: e allora non si osava dirlo, non si osava
“saperlo”, si temeva di morirne ammettendolo. Oggi è scontato che tutto è immobile e glaciale pur
essendo in ebollizione e sanguinante entro il quadro della sovraccennata reversibilità tra convenzionale
e autentico. Ogni opzione, od optional letterario o culturale, viene ammessa in quanto post-moderna o
a.-moderna, para-moderna, iper o ipo-moderna e per ciò stesso modernissima. Tutto è ammonticchiato
e appiattito su un orizzonte carcerario a somiglianza della sagoma cartonacea, della corazzata felliniana
(nel film E la nave va), ma non per questo meno minaccioso, eppure tutto è sculettante e saliente entro
le prospettive di un teleschermo, come in una sfilata di moda adeguatamente sponsorizzata.
“Da tempo si è dentro quell’”al di là” in cui ortodossia ed eresia si riconoscono nell’identità di una
stessa persona, pur continuando a confliggere. E psichiatra e paziente si scambiano cortesemente i ruoli
in un liscio, che è tale anche quando prende le forme del più assatanato rock. Tutti si sentono sintomi e
ne campano in qualche modo.
“Il libro più violento, sacrificale, intimativo, evidenza e presenza di sintomo che sia apparso in questi
decenni è forse L’irrealtà quotidiana, scritto già nel 1966 da Ottieri, un isolato, un erratico. E doveva
proprio per il suo puzzo essere allontanato.
“Ma il libro sintomo per eccellenza, perché divenuto oserei dire per propria inerzialità, testo in quanto
“oggettalità semovente”, entro i tessuti socio-culturali che lo attendevano, e che esso ha rivelati, è
quello di Eco, Il nome della rosa è l’Ufo, il detector, il “non si sa bene che sintomo”, di cui non si può
saper bene “di che sia sintomo”, ma che lavora, lavora attraverso i continenti. E questo libro non viene
forse in qualche maniera dal Gruppo 63?”

OTTIERO ALL’ASSALTO
di Massimo Onofri
(«Diario della Settimana», 20-26 febbraio 2003)

[…] Mi fermo al 1966 quando viene pubblicato, appunto L’irrealtà quotidiana, di Ottiero Ottieri, tra
tutti questi anomali, forse il campione d’eccentricità: “saggio romanzesco”, come lo definiva il
risvolto di copertina dell’edizione Bompiani, e vincitore per la saggistica del Premio Viareggio dello
stesso anno, ma contro il parere di alcuni giurati che ne contestavano l’ascrizione al suddetto genere
letterario.
UN BUON RITORNO. L’irrealtà quotidiana, con una partecipata introduzione di Giovanni
Raboni, torna in libreria dal 26 febbraio per l’editore Guanda, impegnatissimo in questi ultimi anni
nella pubblicazione di tutte le opere di Ottieri: ed è evento, a un anno e mezzo dalla scomparsa dello
scrittore nato nel 1924, da non lasciarsi sfuggire. Ha ragione Raboni, quando individua a quest’altezza
un “autentico punto di non ritorno” nella storia di Ottieri: “Da quel momento in poi, voglio dire,
nessuno dei suoi libri – dai più apparentemente “narrativi” ai più apparentemente “teorici”, da quelli in
prosa a quelli in versi (quella sua prosa, quella sua versificazione rese diversamente ma in egual misura
inconfondibili da un’insaziabile motilità, da un’inquietudine ritmica e sintattica e microfigurale che non
conosce né concede requie) – sarebbe più stato classificabile dentro un unico genere, tutti avrebbero
condiviso (ciascuno, si intende, a suo modo, con una sua diversa coloritura, o meglio, una sua svolta,
un suo scarto timbrico e tonale) la sorte non meno inebriante che rischiosa d’una doppia o tripla o
multipla appartenenza: racconto, trattato, diario, confessione, pamphlet….-fino, in prospettiva, a un
vero e proprio sgretolamento, a una vera e propria dissoluzione, non programmatica, certo, ma proprio
per questo così effettiva e radicale, di qualsiasi vecchia e finanche, perché no?novissima convenzione
formale”.
E dire che solo tre anni prima Ottiero aveva congedato La linea gotica, che, lavorato su una materia
analoga a quella del già celebrato Donnarumma all’assalto (1959), aveva costituito l’oggetto di
un’appassionata discussione sui rapporti tra letteratura e industria, quelli che molto avevano interessato
il Vittorini e il Calvino del Menabò.
Non solo:il decennio s’era pure aperto nel nome di Alberto Moravia, autore di un romanzo come La
noia (1960) che aveva provocato, quanto a temi come alienazione e depersonalizzazione, un animoso
dibattito. Quel Moravia che nell’ Irrealtà quotidiana, proprio Ottieri convoca tra i suoi interlocutori
privilegiati: insieme al Sartre di L’essere e il nulla (1943). Intendo dire con questo che c’erano tutte le
premesse perché il libro di Ottieri fosse troppo sbrigativamente rubricato, come in parte avvenne,
sull’agenda di quel freudo-marxismo che aveva trovato, o stava per trovare, un successo facile e
popolare nei libri del più commerciale e commercializzabile dei francofortesi, il Marcuse di Eros e
civiltà (1955) e ancor più, di L’uomo a una dimensione (1964).
Non voglio certo sostenere qui che Ottieri non abbia operato sotto il cielo della nobilissima
costellazione novecentesca che ha avuto come sue stelle fisse Marx e Freud: basterebbe pensare solo a
quanto l’abbia occupato, proprio nell’Irrealtà quotidiana, un concetto come quello dell’Entfremdung,
nel parossistico tentativo di trovare un punto di congiunzione tra le alienazione psicologica e quella
sociologica, fatta salva l’intercapedine, tra l’una e l’altra, entro cui si va a collocare proprio il
sentimento d’irrealtà. Né vorrei sottrarre la sua opera alla più generale (e generica) temperie che, in
quegli anni, s’agitava, tra sentimento dell’assurdo e denuncia dell’incomunicabilità, a diagnosticare il
terminale, se non agonico, approdo del personaggio –uomo: perché vi si colloca, questa sua opera, con
esiti tra i più originali.
IL MONDO CHE CAMBIA. Il fatto è però, che L’irrealtà quotidiana è molto altro: per un
discorso serrato che vuole avvalersi, immediatamente, dei più aggiornati risultati delle nuove scienze
sociali. Innanzitutto, una specie di riflessione trascendentale sull’io (corporeo, psichico, culturale,
sociale), che funzioni però, come una peculiarissima camera iperbarica in cui ogni singolo atto
percettivo sia sottoposto a spasmi. Il libro, in effetti, sin dalla prima riga, si congeda da una nozione
meramente cartesiana del pensiero e pare come anticipare, nella rivendicazione della radicale
ambivalenza della mente, nell’individuazione a livello tanto inconscio che conscio d’una vera e propria
bi-logica, certe avventurose e suggestive posizioni di Ignacio Matte Blanco : Il meccanismo (ossessivo)
di questo vecchio dramma della scelta è semplice: appena si decide una via, si finisce anche per
decidere la via opposta. Appena si tocca una cosa o certezza, si rimbalza, per ciò stesso, su un’altra
cosa o certezza che si trova o inventa. Non si è dubbiosi metodicamente ma disperatamente e quindi
non vale la famosa certezza del dubbio; si è dubbiosi in quanto accanitamente ambivalenti e si è
ambivalenti anche verso la propria ambivalenza, Si vogliono due cose sempre ma come volendone una
sola.”
Ecco “Cogito ergo sum”, ma anche (sed etiam) “ergo non sum”. E c’è di più: se è vero che la dialettica
estenuata, estenuante, delle proposizioni (sempre definitorie e mai definitive) delle contraddizioni,
tende a saturare il discorso, mirando utopicamente (distopicamente?) a far coincidere la mente col
cervello. Laddove il termine di saturazione sta semplicemente qui, come ha brillantemente intuito
Raboni, per quello di somatizzazione. Perché questo è stato il tentativo di Ottieri: rapportarsi alla lingua
come se la lingua potesse sovrapporsi al linguaggio del corpo, potesse valere per quel linguaggio, fino a
coincidere con esso. Sta proprio qui, secondo me, al ragione per cui le prove della Neoavanguardia (i
cui adepti sono comunque da contare tra gli interlocutori principali di questo Ottieri) non poterono non
risultargli ludiche, sottratte come sono al dramma gnoseologico ed esistenziale, e consegnate a una
dimensione sostanzialmente formalistica: soprattutto quando “dietro una neo-utopia linguistica”, la
Neoavanguardia rischiava di contrabbandare “una vecchia ansia tanto perfezionistica nel cercare
definizioni del sentimento d’irrealtà, quanto vile nell’affrontare il mondo intimo.” Con Ottieri, occorre
sottolinearlo, siamo subito dentro una regione di perplessa e tormentata filosofia, mai annebbiata dal
volontarismo dell’ideologia, da una tirannia del progetto che potesse fare aggio (come spesso ha fatto
nel Novecento più autistico) sul corpo vivo dell’opera, sulle sue costitutive libertà. Sulla sua più
autentica vocazione autolegislativa: non per niente, l’accanita interrogazione del sentimento d’irrealtà
diventa qui anche una meditazione sul non-essere, sul nulla, sul suicidio, sulla morte. In tal senso, lo
stupefacente e non lontano De morte (1997) affonda senz’altro le sue radici – non solo quanto a temi,
ma anche per la forma in cui è stato concepito – nell’Irrealtà quotidiana.
IL TOTALITARISMO DELL’EGO. Se fossi costretto, però, a indicare uno dei possibili centri di un
libro così poco centrato, non avrei esitazioni: e indicherei il capitolo della quarta pare (Il male)
intitolato L’io e l’io dal 1940 a oggi. Non è difficile ricavarne il capo d’un filo che riannoda L’irrealtà
quotidiana al libro d’esordio di Ottieri, Memorie dell’incoscienza (1954), illuminandolo nella sua più
vera luce egolatrica: mentre lo prolunga verso altri due libri inquietanti, anomali e gravidi d’un tempo
che oltrepassa di molto quello in cui sono stati generati, quali sono Il pensiero perverso (1971) e Il
campo di concentrazione (1972). Tutti insieme, questi libri, aprono un discorso decisivo e per niente
concluso su un altro totalitarismo doloroso del secolo appena trascorso: il totalitarismo dell’Io. Non è
stata, questa feroce tirannia della soggettività, uno dei tratti salienti di quel processo della distruzione
della ragione che Lukàcs voleva ravvisare,già operante, nel razionalismo di Bacone e Galileo fino a
culminare nei campi di sterminio hitleriani? Salvo poi, Lukàcs, cercare salvezza in un altro Leviatano,
ben più pericoloso credo della ratio scientifica: quella ragione dialettica, di matrice hegeliana, cui si
potrebbero imputare, non senza ragione, altri gulag. Ma, anche in questo caso, Ottieri s’è guardato bene dall’assecondare qualsiasi ipotesi di sorti magnifiche e progressive. E contro la tirannia di quella specie
di Re Sole che è stato l’ego novecentesco, ha giocato la sua solitaria carta di regicida, di riottoso e
ostinato monarcòmaco.

L’IMPAGLIATORE DI SEDIE (1964)

HILAROTRAGOEDIA E ROMANZO FILMICO
di Paolo Milano
(«L’Espresso», 12 luglio 1964)

[…] Cineromanzi, se non sbaglio, si chiamano certe narrazioni, di solito molto dozzinali, modellate
sulla trama di un film di gran successo. Il nuovo libro di Ottiero Ottieri (L’impagliatore di sedie,
Bompiani ed.) è l’opposto di un cineromanzo, essendo un romanzo espresso in forma cinematografica.
La “Breve storia” del suo libro, che l’autore ci confida in una prefazione è suppergiù questa.
Lavorando come sceneggiatore “per il più interessante regista italiano”, Ottieri era stato colpito da un
elegante morbo che egli chiama “alienazioe da sceneggiatura”, cioè “dal desiderio di mettersi in
proprio, … di correre l’avventura di quel mestiere poetico-organizzativo, creazionne artistica solitaria
contemporanea all’uso estroverso dell’esistenza degli altri, che è la regia d’autore”.
L’esperienza registica essendogli per il momento negata, e la sua ambizione di narrare essendo
d’altronde sempre viva, Ottieri ha optato per un compromesso: quello di stendere una “sceneggiatura in
una lingua diciamo letteraria,….in modo che le pagine, pur rimanendo tagliate per il cinema, avessero
una loro autonomia” romanzesca. “L’impagliatore di sedie” è il frutto di questa decisione.
La storia è quella di una settimana (lavorativa e sentimentale) di Carlo Armani, dirigente industriale a
Milano, e di un suo week end erotico-mondano a Roma. La donna di Carlo è una signora
presumibilmente affascinante, Teresa, immensamente indecisa sull’abbandono della vita borghese per i
rischi di un amore totale. Su un binario parallelo, negli stessi giorni, corre la vicenda di una segretaria
psiconevrotica, Luciana, che si batte sempre più stancamente contro l’impulso di uccidersi. Uno
psichiatra, alcuni “play-boys” e una “squillo” di alto bordo completano il “cast” poco peregrino.
A me sembra altrettanto difficile giudicare “L’impagliatore di sedie” come film che come romanzo. Le
sequenze cinematograficamente promettenti (tutto il tema, ad esempio, dell’”amore in macchina”, coi
dialoghi dei due amanti invischiati negli ingorghi del traffico, e poi la sosta nel “posteggio erotico”),
sono nient’altro che una cambiale spiccata sull’arte di un eventuale regista.
Mentre le pagine letterarie e descrittive (ad esempio, le varie fasi della disperazione di Luciana) non
riescono veramente romanzesche, poiché l’autore, per dovere cinematografico,vi si limita alle azioni, ai
gesti e alle battute di parlato,abolendo la coscienza, cioè l’anima di ogni romanzo. L’errore di Ottieri,
in questo suo “Impagliatore”, mi pare equivalente a quello dell’ultimo Antonioni, sebbene sia di segno
opposto: Antonioni si illude di poter fare psicologia romanzesca in forma cinematografica, mentre
Ottieri si affanna a strutturare un romanzo nei modi propri del cinema.
E l’impagliatore di sedie? È un personaggio minimo ma simbolico, che appare per qualche istante, un
dolce artigiano, anche lui piagato da una psicosi.

L’INDUSTRIA DIVORZIA DALLA LETTERATURA
di Carlo Salinari
(«Vie Nuove», 6 agosto 1964)

Il recente romanzo di Ottieri (L’impagliatore di sedie, Milano, Bompiani) mi ha interessato molto.
Non tanto per la sua resa artistica che è certamente inferiore a quella di precedenti opere dello stesso
autore, quanto per la ricerca di contenuto e di forma che l’Ottieri vi compie e che, a mio parere, è
suscettibile di notevoli sviluppi. Cominciamo dal contenuto (e il lettore mi scusi questa drastica
schematizzazione di cui mi servo per chiarezza di esposizione). L’Ottieri ci dice nell’introduzione al
libro che egli da qualche tempo si sente sciolto dal “matrimonio fra letteratura e industria” che aveva
celebrato negli anni passati, che anzi “la letteratura legata in maniera diretta ai temi della vita
industriale” dopo essere stata persino di moda gli sembra terminata e che ora si sente attirato da “trame
più intime, individuali e libere dal condizionamento sociologico”, addirittura dai temi eterni
dell’amore, della speranza, dell’amicizia e così via. E appunto un romanzo d’amore vorrebbe essere
questo Impagliatore di sedie, un romanzo d’amore che tuttavia, per la vocazione realistica d’Ottieri,
diventa un romanzo dell’impossibilità dell’amore, in una società alienata, perché l’amore si rivela
“l’inarrivabile traguardo d’un uomo e d’una società utopisticamente guariti”. Il romanzo ci narra così
dieci giorni di vita di alcuni personaggi: Carlo, direttore d’azienda milanese, diviso fra l’efficienza
produttiva, le attrattive della dolce vita (e a Roma egli passa un lungo weekend) e la vaga aspirazione a
un grande amore; Teresa incerta fra l’amore per Carlo e la comoda situazione che le offre il marito;
Luciana che la solitudine, l’incapacità di comunicazione, la mancanza di un amore vero conduce
sull’orlo della pazzia.
Dicevo che il contenuto mi interessa perché io non ho mai creduto che per scrivere un romanzo sulla
civiltà industriale si dovesse necessariamente parlare di una fabbrica, delle sue macchine, del taglio dei
tempi e così via. E non ho mai creduto che per scrivere un romanzo realista fosse indispensabile
rappresentare operai e contadini, scioperi o occupazioni di terre, lotte politiche o sindacali. Non ho mai
creduto, cioè, che l’arte potesse conoscere, con i suoi mezzi, la realtà del nostro tempo prescindendo
dal nesso insolubile che esiste fra eventi collettivi e sentimenti individuali, fra vita sociale e
comportamento privato. Anche una storia d’amore, dunque, può racchiudere, come in un nocciolo, il
significato e le tendenze della nostra epoca: o in senso negativo, con l’impossibilità che essa si realizzi
in un ambiente in cui anche la passione amorosa si muove fra i due estremi dello snob e della follia, o
in un senso positivo con la riconquista di un sentimento autentico, di un rapporto sincero e completo fra
due persone che è obbiettivo non
secondario di quel nuovo umanesimo a cui aspira una gran parte degli uomini. Il libro di Ottieri,
tuttavia, è interessante anche dal punto di vista della forma. Perché ci troviamo di fronte a un testo
letterario che ha l’andamento di una sceneggiatura cinematografica. Naturalmente della sceneggiatura
non ha l’approssimazione linguistica (perché non prevede che la parola sia completata dalla mimica
dell’attore) e, in più di una sceneggiatura, ha una minuta descrizione di ambienti e gesti. Il racconto,
così viene ad essere formato da dialoghi e da lunghe didascalie. Della sceneggiatura, però, ha la
divisione per scene e il passaggio rapido da una scena ad un’altra e talvolta il contrappunto fra varie
scene. E del cinema ha, in molti casi, la tecnica stessa della rappresentazione. Si veda, ad esempio,
questo tentativo di Carlo di voltare a sinistra con la sua macchina: “ma di fronte gli corrono addosso
per punirlo decine di macchine colpendolo coi fari, da dietro lo incalza di lampeggiamenti un torrente
di macchine da cui cominciano a levarsi quei colpettini di claxon che preludono al gran
concerto…Girato di traverso ora è accerchiato. Si impegna con cento occhi per sgomitolare
l’imbroglio. Il guantone bianco di un vigile avanza oltre il parabrezza”. Tuttavia la cosa più importante
è che dal cinema l’Ottieri ha preso la rappresentazione per linee esterne dei personaggi e dei loro
pensieri, la rappresentazione, cioè, solo attraverso le loro parole, i loro gesti, le loro azioni. Una tecnica
del tutto contraria al monologo interiore, sulla quale varrebbe la pena insistere (Ottieri, invece,
annunzia già un romanzo condotto per linee interne).
Perché le grandi tappe del realismo, sia pure nei modi diversi suggeriti dai tempi diversi, hanno sempre
coinciso con ritorni a una tecnica obiettiva: e mai come in questo momento la verifica nell’azione e nel
dialogo del flusso dei sentimenti interni dei vari personaggi potrebbe costituire un argine alle tendenze
irrazionalistiche, alla scomposizione della personalità umana contro le quali deve cominciare a lottare
un’arte veramente d’avanguardia.

LA LINEA GOTICA (1962)

OTTIERI E LE ESPERIENZE DI FABBRICA: È INSUPERABILE LA “LINEAGOTICA”?
di Giansiro Ferrata
(«Rinascita», 22 dicembre 1962)

[…] La linea Gotica (Milano, Bompiani), ha proprio una sostanza diaristico-riflessiva a contatto di una
materia profondamente legata al nostro tempo. Ottieri è un “intellettuale” esperto della vita di fabbrica,
per aver lavorato a lungo nel suo cerchio. Narratore forte e preciso in Tempi Stretti, poi in
Donnarumma all’assalto aveva già dato prove del suo interesse per il lavoro industriale, per i problemi
degli uomini dentro o intorno alle fabbriche. Ora ci ha dato un libro che potrebbe chiamarsi, sotto
qualche aspetto, La condizione operaia, ripetendo un titolo famoso di Simone Weil se – oltre un
evidente riguardo per i limiti del proprio campo di prospettiva – non ci fosse qui un più vario contenuto
autobiografico. Il libro ricorda, a volte, in questo senso, il notissimo diario di Alvaro Quasi una vita,
sempre escludendo l’ambizione di gareggiare con altri e accampare qualche motivo di “grandezza”.
“Taccuino 1948-1958” dice il sottotitolo. E quanto all’insegna da lui scelta per il libro Ottieri avverte
nelle prime righe: “una linea gotica, mentale, per me taglia a mezzo l’Italia. Ci vivo a cavallo…Roma è
il mio essere, Milano il mio dover essere….” Significa, come poi vediamo a poco a poco: nato a Chiusi,
fra Toscana e Umbria, cresciuto e anche maturato in modo da sentirsi tuttora un italiano del Centro (su
una linea di tradizione specificata in parte dalle origini nobiliari e provinciali), lo scrittore trova ormai a
Milano l’ambiente tipico per le proprie esperienze di lavoro, per la misura stessa del suo agire e pensare
nei modi più responsabili. Milano diventa qui l’immagine concreta dell’industria, nel rapporto con i
padroni, i dirigenti e gli operai e gli impiegati, i rappresentanti sindacali e gli specialisti in pubbliche
relazioni ecc. ecc.
Un’altra Italia, di là dalla linea gotica personalmente riferibile a Ottieri corrisponde per lui a un
groviglio di radici sue individuali, tra umori, sentimenti, malattie e infine tutti gli elementi più disposti
a riconoscersi nella “letteratura”, sua o di altri. Ma non esiste per fortuna nel libro una stretta
contrapposizione allegorica. L’individuo Ottieri non si rivela escluso, in alcun modo, dagli affetti per
l’Italia del nord, e quando si innamora, o subisce una gravissima malattia e in molte altre occasioni il
suo diario ha una luce intensamente naturale, fuori da qualunque schema. Èsu un piano diverso, è in
una forma molto meno rigida di quella evocata nel titolo (la linea gotica) e resistente invece a forza
d’elasticità, che avviene nel libro una lunga battaglia tra parte e parte del protagonista, senza visibile
conclusione.
La favola d’Achille e la tartaruga
Nelle fabbriche o nelle aziende dove esercita le sue funzioni tecnico-intellettuali, cominciando dalla
pubblicità editoriale e poi entrando in rapporti quotidiani col mondo operaio, l’autore porta sempre un
bisogno di aderenza a “tutti gli aspetti” del trovarsi lì: alla pratica del lavoro, ai motivi che dall’alto o
dal basso influiscono sul lavoro, sulle ideologie, agli atti, ai sentimenti più rappresentativi
nell’ambiente e nel vivo delle sue relazioni.
Mentre durava la guerra, quasi ancora ragazzo, si è distaccato dal fascismo, si è sentito socialista. Nel
’51 non rinnova la tessera del PSI, ma continua a praticare un’ideologia di sinistra, con spiccati
interessi sociologici; resta, anche sentimentalmente, un ribelle al sistema capitalistico, non viene mai
persuaso fino in fondo dalle mediazioni che – nelle forme più “avanzate”- offrono o cercano di attuare
le dirigenze industriali, nell’Italia neocapitalista. La critica di Ottieri si avvicina da questo lato a certe
verifiche del Memoriale di Volponi, non per nulla, tra l’altro, nutrite d’analoghe esperienza nell’Ivrea
olivettiana. È nota la favola d’Achille e della tartaruga. Per quanto corra, Achille, se il movimento
venga inteso come un aggregato di parti scomponibili all’infinito, non raggiungerà mai la tartaruga;
qualche frazione del primitivo distacco, basterà sempre a tenerli separati. Ottieri come Volponi porta a
sentire che il neocapitalismo, per quanto sviluppi l’intento di attrarre a sé il mondo operaio, non potrà
mai ottenere nella misura decisiva un simile effetto. Ma il marxismo trasferito in ”poesia” da Volponi
lascia pur avvertire un’altra distinzione netta, una scelta necessaria (e personalmente già compiuta) tra
lo scopo rivoluzionario e i limiti che vengono frapposti dalle nuove forme capitalistiche, dai
condizionamenti via implicati nella dialettica delle cose e delle forze, degli uomini che le muovono.
Nel libro di Ottieri, questa scelta appare più un dover essere – che un fatto risolutivo. La critica ai vari
aspetti incontrati da Ottieri nel sistema attuale dell’industria italiana, ha tutta una capillare ma infine
pesante contropartita. Guardando ai casi singoli con un’acuta diligenza, egli raccoglie naturalmente
anche il peggio tra ciò che impressiona, da ogni lato, il suo spirito d’osservazione. La crisi politicosindacale
così preoccupante intorno al 1957 e ’58, per la lotta operaia, soprattutto nell’industria
d’avanguardia, è intimamente avvertita nel diario. Con il suo scrupolo riflessivo sui particolari di ogni
giorno, Ottieri ne aveva annotato da tempo i sintomi, qualche motivo non riducibile alla strategia e
soperchieria padronale; aveva segnato in cenni anche mordenti gli episodi, i discorsi, gli stati d’animo
che a suo giudizio indicavano, da parecchi lati, ragioni di debolezza nel campo proletario, inferiorità
gravi delle sue forze offensive e difensive. Unendo a queste osservazioni i rilievi satirici sugli
individui, gli spunti di critica ideologica o storica rivolti un po’ dappertutto, e il tenace esame di
coscienza a piccoli colpi di bisturi nel proprio io, il conto può risultare stracarico di pessimismo.
La buonafede, in Ottieri, è fuori discussione. Di più: il suo modo di guardare e giudicare è anche un
impegno, un lavoro che si riporta continuamente fuori dai binari obbligati, cercando il senso interno a
un ciclo di esperienze sempre nuove, perché dirette, originali. Fra tante prove ormai di astinenza
dall’impiego preciso della mente sui fatti, esteriori o interiori, di maggior significato moderno,questo
libro accentua il suo valore. Ottieri è insieme uno scrittore vivamente qualitativo, un “moralista” acuto
e un testimone da considerare: non so chi altri metta oggi sulle nostre bilance una tale ricchezza di
questioni da tenere in confronto, da misurare a vicenda, rianimando nel problema operaio molte tra le
connessioni che lo rendono centrale nel nostro tempo. Soltanto, le bilance storiche non sono quelle
dell’orefice e c’è anche una nevrosi, in Ottieri, da razionalista – puritano sul filo d’uno scetticismo, che
gli impedisce d’usare la sottigliezza solo fino al limite delle misure più grandi […].
I 200 sopravvissuti della Fiat
Uno le può trovare in poesia, queste misure più grandi. Gli operai e altri come loro le ritrovano sempre
nel bisogno, nella lotta, nella ricerca delle strade per arrivare più su dei nostri labirinti. Ogni critica
portata fino in fondo è un recupero dell’esigenza di agire, come dicevano già alcuni greci; il
movimento sinceramente illimitato dell’intelletto, a tu per tu con le esperienze concrete, negli uomini
che amano e rispettano la vita torna sempre a incoraggiare le scelte utili per l’azione. Per mio conto
ringrazio Ottieri d’aver messo per ultimo e quasi conclusivo appunto “sociologico”, nel suo diario, a
pag. 278 questo: “Vittoria della FIOM alla Lancia di Torino. Gioia commossa e trattenuta del dottor M.
oggi in ufficio, dopo che m’aveva raccontato dei 200 sopravvissuti della Fiat, di quelli che le hanno
passate tutte in questi ultimi anni, come in una nuova, oscura Resistenza. Ripalpita un fremito politico,
nella confusione dei valori”.
Infatti. E allora la stessa “ via aziendale alla classe operaia”, tra i motivi che onestamente il diario
portava due pagine prima a una denuncia di sbarramento, può dimostrarsi un faticoso procedere in
direzioni aperte.

L’AUTOBIOGRAFIA E LA CRONACA
di Paolo Milano
(«L’Espresso», 1962)

[…] La linea gotica è un taccuino (fra sociologico, psicologico e politico) di un decennio tra il 1948 e il
1958, dai ventiquattro a trentaquattro anni del suo autore, precedente cioè nel tempo quel
“Donnarumma all’assalto” con cui Ottieri tentò per la prima volta il suo peculiare genere letterario, che
sta in bilico tra l’inchiesta sociale e l’autobiografia. (cfr L’Espresso del 2-VIII-1959).
Guido Piovene, nella prefazione loda Ottieri per la franchezza con cui in un suo scritto recente, egli
ammetteva d’essere stato fascista, anzi “cocciutamente impermeabile all’antifascismo” fino
all’invasione tedesca e di essere, oggi, meno socialista di dieci anni fa “perché un letterato, anche il più
“engagè”, è sempre un letterato e, e come tanti uomini comuni, subisce i flussi e riflussi della storia”. È
dubbio che di Ottieri vadano lodati questi sentimenti, di là dalla franchezza con cui sono espressi; ma è
certo che “La linea gotica” è un buon resoconto di come “i flussi e riflussi“ della società circostante
abbiano determinato quasi per intero la condotta di un giovane di questi anni, nobile di nascita,
altoborghese di condizione e proletario nei suoi sogni.
La “linea gotica” a cui allude il titolo non è quella che divise l’Italia in due durante la guerra, ma
quella, più ideale che geografica, che distingue l’Italia industriale dall’altra, e l’atmosfera di Roma o
Napoli da quella di Milano, o, più sottilmente, la vita particolare e intima da quella con gli altri e per gli
altri.
Quest’ultimo punto si configura per il protagonista del diario in una serie di dilemmi. Seguire le proprie
aspirazioni letterarie o entrare nel mondo del lavoro e dell’industria? Entrarvi con intenti di scrittore,
con interessi di sociologo o con mire di attivista politico legato al socialismo? Infine, scavare e
affrontare i propri conflitti interiori o invece svalutarne l’importanza e tentare di dimenticarli
nell’azione? Per un certo aspetto, quello privato, il diario di Ottieri è il documentario di una
contraddizione
cronica, cioè di una nevrosi. Lo stesso autore, che ne è consapevole, discute a volte se stesso in termini
scientifici e quasi clinici. Come per tanti intellettuali da mezzo secolo in qua, psicoanalisi e marxismo
sono per Ottieri, la Scilla e la Cariddi del suo cabotaggio ideologico; ma sul terreno della psicologia
egli si sente di casa, mentre la politica resta per lui un dovere, il “rimorso sociale” di un giovane di
famiglia agiata. Di due elementi che si indovinano essenziali nella vita di Ottieri, il suo matrimonio e il
riuscire o meno a mantenersi coi suoi proventi, il diario, tipicamente non fa quasi cenno. Della parte
privata della “Linea gotica”, le pagine belle e schiette sono quelle su una degenza grave, quasi mortale.
C’è poi l’aspetto pubblico del diario, il “taccuino industriale” che ne copre una buona parte:incontri con
dirigenti sindacali o tecnici, interviste con operai o burocrati, ambienti di fabbriche lombarde o
partenopee. Qui Ottieri dimentica il suo “istinto autobiografico” che imperversa ‘semprÈ; o meglio, qui
il suo irreprimibile psicologismo si appunta sugli altri e gli affina lo sguardo. Ne sorgono ritratti
efficaci. Ma nell’ultimo capitolo si legge: “Basta con l’infatuazione sociologica. Più letteratura”. Il
moto alterno ha ripreso, la spirale sempre perpetua.

OTTIERI, GENIO NELLO SCACCO
di Angelo Guglielmi
(«L’Unità», 20 luglio 2001)

Non avevo mai letto La linea gotica perché a quel tempo perso in altri libri e letture. Ottieri era legato
al gran discorso (al dibattito) sulla letteratura industriale del quale (come si vuol dire) non mi poteva
importare di meno. Mi pareva un modo per aggirare il problema della verità della letteratura che certo
sta nello sforzo ”di scoperta …degli altri” (noi dicevamo dell’altro) purchè gli altri non vengano
identificati in una particolare classe sociale nella fattispecie negli operai dell’industria allora ceto
protagonista emergente. Questo ci pareva una pretesa èerdente, frutto di ingenuità etica, di pregiudizio
politico, di semplicismo intellettuale. Di tanto ero, erevamo (io e i miei compagni di pensiero e di
scrittura di allora) convinti oltre ogni discussione e manifestavamo il nostro convincimento con
franchezza fin troppo esibizionista che (confesso) sfiorava la faciloneria.
Leggendo oggi La linea gotica scopro che anche Ottieri era arrivato allo stesso convincimento ma nel
fuoco della battaglia, voglio dire confrontandosi e scontrandosi con quella pretesa che a noi pareva
ingenua.
“Mi piacerebbe scrivere un romanzo che si svolgesse tutto a Dalmine. Un romanzo aziendale puro.
Dovrei abitarci un anno. Come? Mi caccerebbero via: Il lavoro non ammette zone morte, contemplative
e ogni stabilimento è una fortezza piena di segreti.” Ma poi non è solo questione di impossibilità pratica
“…la presenza di intellettuali in fabbrica … ha portato alla ridda retorica. Privati del loro terreno usuale,
la cultura…intristiscono, si spengono, oppure reagiscono, cercando il pelo nell’uovo e dando luogo a
una proliferazione di idee che corre più veloce della realtà ed è astratta, scientistica”. La linea gotica
registra (racconta) la sconfitta di Ottieri e della sua scelta interiore per Milano e la classe operaia ma è
proprio nella sconfitta che Ottieri realizza la sua salvezza. È lì che riesce a scrivere un libro
letterariamente importante che non si limita a fornirci un quadro ampio e drammatico del decennio del
boom (1948-1958) – con ii suoi slanci e le sue ipocrisie, le conquiste e le sofferenze, le attese e le
delusioni – ma ci propone un modello letterario e di scrittura di forte potenza e novità. Intanto la forma
del diario che è molto più di un diario avvicinandosi a quella struttura praticata dai moralisti francesi
dei secoli scorsi e più recentemente da Karl Kraus in cui la frammentarietà è la conseguenza non tanto
della successione dei giorni (cui il diario è legato) ma dalla libertà del pensiero che, contraddittoria in
cui viviamo, oggi più di ieri rifiuta gli schemi di svolgimento preordinati e si avventura in
peregrinazioni che comportano un continuo fermarsi e ripartire. Ottieri abbandona Roma (dove vive) e
parte per Milano (“proiettando nel settentrione il mondo del dover essere, del lavoro, dell’impegno
civile, della faccia morale e del collettivismo) e cosa trova? Trova una città nera di lavoro e lucida di
neon, oppressa da metodologie di lavoro ripetitive e fiaccanti e di parole d’ordine sindacali
aprioristiche e di principio, stritolata dalla violenza dei meccanismi capitalistici, affondata
nell’alienazione e nella nevrosi, umiliata da pratiche di compromissione inevitabili e sempre più
frequenti. Vi trova la malattia e attraverso la malattia non la speranza ma l’incontro con la verità.
Ottieri con dieci anni di anticipo, soffrendola in prima persona, realizza quella consapevolezza, quella
capacità di vedere poi diffusamente esplicitata nel Memoriale di Paolo Volponi.
Il romanzo, uscito nel 1962, mette in campo (nel ruolo del protagonista) un operaio (Albino Saluggia) a
simbolo del rapporto alienato tra individuo e strutture produttive. Ma è proprio l’alterazione mentale, il
disordine dei pensieri, provocato da quel rapporto sbagliato, è proprio lo stato malato in cui il
protagonista precipita a liberare lo spazio emotivo, a dare intensità al sentire, consentendogli di cogliere
lampi di irrealtà che, in quanto non osservabili direttamente, sfuggono all’uomo sano. La malattia eletta
a passaggio obbligato della comprensione è la condanna, che, prima dell’operaio, Albino Saluggia,
s’infligge e patisce “Ottiero Ottieri”.
“Capire è star male?Vecchia, antipatica storia.” Salito a Milano per scontrarsi con la realtà lì dove più
preme (nel fervore del lavoro operaio) e nutrirsi della sua eticità Ottiero finisce per avvertirne
l’inadeguatezza (fino all’ipocrisia) e, nel disinganno, scopre che ”per inseguire la speranza devo
alzarmi con la fantasia, in punta di piedi e sbirciare oltre la realtà”.
Furio Colombo, prefando il volume, sintetizza con acutezza la discesa (dopo tanto credere) della
delusione scrivendo: “Classe operaia vuol dire che puoi morire di disperazione e sembrerai soltanto
inadeguato alla mansione.”
Dicevamo che la sconfitta di Ottieri è la sua salvezza: perdendo Ottieri si fa scrittore. E scrittore di
grande talento, che con La linea gotica scrive forse il suo libro migliore. Stupisce il risultato maturo
rispetto alla giovane età in cui lo ha realizzato. Èuno di quei libri alle cui verità (definitive) non ci si
stanca di ritornare. Lo leggo come un libro di massime (di riflessioni ultime) che, pur legate a una
congiuntura storica, la risolvono in gesti e pensieri che misurano (piuttosto) la condizione umana. Né
posso chiudere senza accennare alla scrittura: un intrecci compatto e vigoroso, tenuto in tensione da
continue rotture, delle quali, se nei libri successivi Ottieri sembra abusare, qui sono scanditi nei tempi
(serrati) di un pensiero lucido e sicuro.

I VENDITORI DI MILANO (1960)

I VENDITORI DI MILANO
di Roberto De Monticelli
(«il Giorno», 22 marzo 1960)

Con la commedia di Ottiero Ottieri “I venditori di Milano”, rappresentata ieri sera al Gerolamo, nel
corso dell’interessante stagione di novità italiane, da un gruppo di giovani attori, con la regia di
Virginio Puecher, è la prima volta che vengono portati sul palcoscenico l’ambiente autentico e la
comune fauna di una media azienda industriale milanese di questi anni.
Chi sono “I venditori di Milano”? Coloro che dirigono gli uffici commerciali di una qualsiasi azienda o
comunque vi lavorano o ne dipendono; ma soprattutto, essi costituiscono una singolare, irrequieta,
lucida e insieme torbida, nevrotica, insinuante, allucinata e patetica casta di condannati a una
vocazione: vendere, vendere, non importa che o come, ma vendere. Il ciclo della vita precipita per loro
in questo baratro.
Non potremmo dire- nonostante si tratti di un copione di oltre centottanta, pagine- che accadano molte
cose, che esista una vera e propria vicenda organica. Si tratta piuttosto di uno studio di ambiente e di un
notevole tentativo di linguaggio: rendere cioè, attraverso le forme di un parlare tecnicizzato, funzionale,
vagamente assurdo e insieme banale (che è poi la lingua in uso nell’area del “fatturato mensile”, dello
“stand in fiera”, dei “diagrammi di vendita”) una irrequietezza, una perplessità, in definitiva
un’angoscia tipiche dei nostri giorni e di questa città.
Certo, anche in questo caso –come in quello della recente “Maria Brasca “ di Testori- bisogna
prescindere da quelle che sono le comuni convenzioni del teatro, per cui una commedia deve seguire le
sue brave regolette, al macchinetta dei tre atti funzionare secondo un plausibile gusto sentimentalepiccolo
borghese e la gente uscire di teatro soddisfatta, compiaciuta dopo aver capito tutto, fino
all’ultima virgola,sì che nemmeno un dubbio, una inquietudine, affiori la sua massiccia indifferenza di
fronte ai tentativi nuovi.
Del resto, c’è anche una storia per chi proprio non può farne a meno, e persino d’amore: ed è la storia
di come Lucio Davoli, ingegnere, capo dell’ufficio vendite di una ditta di frigoriferi arrivi a poco a
poco a liberarsi dal complesso della gerarchia, dell’ocscuro legame che nel subcosciente lo vincola -e
lo condiziona- al suo superiore, l’A.D., l’Amministratore Delegato: è una fuga triste, d’altronde, una
rottura amara, che dà nel grottesco. Ma più che questa storia, più che l’ambigua vicenda sentimentale di
questo personaggio con la segretaria dell’Amministratore Delegato, sono interessanti, nella commedia,
le spie calate a indagare un mondo modernissimo, assai aggiornato sulle cosiddette conquiste della vita
attuale, e soltanto apparentemente palese, svelato, in una parola accessibile.
Sesso, psicanalisi, scienza della pubblicità, tran-tran, carrierismo, cortigianeria, solitudine, sentimento
dell’alienazione sono le componenti di quel mondo e i motivi sui quali l’Ottieri svolge queste sue
variazioni dialogate, con indubbia sincerità, acutezza d’osservazione, una tristezza partecipe e insieme
distaccata, critica. I difetti stanno (ed è persino ovvio rilevarlo) nella mancanza di costruzione, nel
modo un po’ farraginoso e confuso con cui questi diversi e interessanti materiali vengono accatastati a
formare un edificio piuttosto grezzo, ancora rudimentale nel suo coraggioso sperimentalismo: nella
difficoltà che la commedia incontra, specialmente nel secondo e terzo atto, a districare le storie interne
di due o tre personaggi principali dall’amara e ricca “causerie” che d’altra parte la sostiene come
ragionamento intellettuale, come cruda e risentita “moralità”. Virginio Puecher s’è trovato davanti a un
testo di difficile realizzazione scenica, per la stessa originalità del tema: ha affrontato l’impresa con
impegno, coadiuvato da una buona scenografia di Carlo Tommasi. A nostro parere, avrebbe dovuto
accentuare il tono di quel mondo particolare, così sidereo e tecnicizzato. Per questo avrebbe avuto
bisogno di un palcoscenico più vasto. Bisogna dare atto al giovane Mario Mariani di un impegno e di
una fatica generosi nel personaggio del protagonista. Ci sono piaciuti il comico Alfredo Bianchini,
Camillo Milli, che avremmo preferito meno macchiettistico, l’intensa Anna Nogara, Silvia Monelli e,
quantunque un po’ troppo bonario, Mario Maranzana. Il pubblico ha seguito con attenzione e ha
vivacemente applaudito tutti e tre gli atti. Una serata inconsueta.

DONNARUMMA ALL’ASSALTO (1959)

DONNARUMMA ALL’ASSALTO
di Carlo Salinari
(«Il Contemporaneo», luglio 1959)

[…] Alla tematica operaia ci riporta il nuovo romanzo di Ottiero Ottieri Donnarumma all’assalto,
Milano, Bompiani, 1959, ma questa volta non si tratta, come in Tempi stretti, della condizione operaia
a cui fa da sfondo senza contraddizione lo squallido paesaggio della periferia milanese.
Questa volta la fabbrica è la nuova Olivetti, impiantata nei pressi di Napoli, in edifici modernissimi e
razionali, con lo sfondo del cielo e del mare meridionali. Il giovane psicotecnico addetto alle assunzioni
si trova di fronte a un problema che la sua scienza non prevede: quarantamila domande per poche
centinaia di posti. Non si tratta, quindi, di vagliare le capacità e le tendenze di un ristretto gruppo di
operai, si tratta di sottoporre all’esame psicotecnico un popolo intero. Di qui e attraverso l’esperienza
umana che si accumula man mano che lo specialista procede nel suo lavoro, la rappresentazione delle
contraddizioni di una società e dei drammi individuali dei disoccupati del mezzogiorno. Non è il caso,
in una rapida rassegna, passare ad analisi approfondita del romanzo.
Ottiero Ottieri è uno scrittore che merita un discorso a parte per le caratteristiche stesse della
problematica e per l’intreccio complicato che in lui si realizza, di una denuncia assai sofferta e di
istanze ideologiche non sempre chiare. Resta il fatto che Donnarumma all’assalto ci ripropone, dopo
Tempi stretti, il problema di un giovane narratore assai dotato, della sua tematica straordinariamente
viva e originale, di un’arte, insomma, con cui bisognerà fare i conti.

DONNARUMMA ALL’ASSALTO
di Ferdinando Virdia
(«La Fiera Letteraria», 26 luglio 1959)

[…] Dell’Ottieri l’editore Bompiani ha pubblicato di recente un nuovo romanzo che riprende da un altro
angolo di visuale (rispetto a Tempi Stretti) gli stessi problemi fondamentali del rapporto fra l’uomo e le
strutture industriali del nostro tempo. Rapporto individuale e rapporto psicologico collettivo:
Donnarumma all’assalto. Condotto in forma di diario esso è chiaramente la testimonianza di
un’esperienza anche più diretta dello scrittore che non fosse il libro precedente e se il titolo non
rivelasse l’esplicita indicazione dell’Ottieri che il libro debba essere letto come un vero e proprio
romanzo, si potrebbe dubitare persino, ma a torto, di trovarci davanti a un puro e semplice studio di
taluni aspetti della società italiana contemporanea, quelli delle reazioni di una zona industrialmente ed
economicamente sottosviluppata nella sua prima fase di trasformazione moderna delle sue risorse e
delle possibilità di occupazione. Protagonista e diarista del romanzo è probabilmente un alter ego dello
stesso autore, un giovane dirigente dell’ufficio che nelle grandi industrie esamina le attitudini
psicologiche di coloro che aspirano ad essere assunti come operai o come impiegati. Lo stabilimento è
stato impiantato da poco in un popolosissimo centro marittimo del Mezzogiorno.
La scelta degli uomini e delle donne da assumere viene compiuta secondo regole inderogabili dopo un
esame delle attitudini di ciascun candidato: assai scarsa in questo senso è l’autonomia dell’operatore
psicologico, il suo giudizio quasi impersonale. Ma di fronte a lui e contro di lui preme la classe degli
aspiranti, ciascuno con problemi personali che rivelano il segno di condizioni particolarissime di vita,
di un individualismo che è assai difficile riportare agli schemi psicologici rigidamente prefissati dagli
studiosi di relazioni umane, così come è difficile riportare agli schemi psicologici del mondo
industriale e operaio settentrionale l’estrema varietà delle situazioni professionali di coloro che
l’ambiente ha condizionato a una sorta di eclettismo sociale.
[…] La fabbrica, la grande fabbrica colpisce soprattutto la fantasia, è l’immagine di un benessere a
portata di mano, visibile ogni giorno in coloro che in essa sono occupati, e soprattutto di un
benessere sicuro; e tuttavia ben pochi di quegli aspiranti si rende conto di come la fabbrica esiga da
loro una trasformazione del loro stesso modo di pensare e agire. […] Il dramma è appunto in questa
impossibilità di un rapporto storico diverso tra l’uomo del sud e le esigenze del suo nuovo sviluppo
industriale, così come esse sono prospettate dagli schemi attuali e il giovane psicologo è la prima
vittima di questo dramma di fronte al quale non può nulla la sua comprensione e la sua pietas. Da tutto
il diario ci si rende conto come egli imposti il suo particolare problema come un vero e proprio
problema morale e nel dramma individuale e collettivo degli aspiranti al lavoro quello stesso della
libertà dell’uomo moderno di fronte alla tirannia inderogabile, perché appunto il problema non si
risolve con la negazione qualunquistica delle esigenze industriali.
La tradizione industriale e operaia delle zone non depresse, con tutte le sue ormai istintive implicazioni
psicologiche è il frutto di condizioni storiche che non si sono create da un giorno all’altro; ma è
possibile tollerare in una nazione uno squilibrio così angoscioso come quello che si presenta nell’Italia
di oggi? E ‘ questo l’interrogativo che circola in tutto il romanzo dell’Ottieri, un romanzo “corale” nel
senso più ampio e più vero di questo aggettivo, nel senso cioè che lo scrittore non ha impostato soltanto
questi problemi in senso sperimentale e saggistico. L’esperienza del sociologo si inserisce
profondamente, è vero, non solo nella scoperta di un mondo e di una società e di contrasti che sono tra i
più angosciosi del nostro tempo, ma direi che essa è la leva che sorregge e solleva la fantasia dello
scrittore. Si è parlato di una sorta di pietas del suo diarista: è appunto una tale attitudine a creare le
prospettive, anche di linguaggio, compiutamente narrative dei singoli “casi” che egli riporta nel suo
diario. Il conflitto, il dramma individuale diventano alla fine conflitto, dramma collettivo, una sorta di
perenne attrito del paese contro lo stabilimento, una perenne rivendicazione del primo contro il
secondo, ed è chiara comunque l’impossibilità di trovare una soluzione. Ma occorre anche aggiungere
che la sua pietas non è mai la testimonianza di una sua accettazione del pittoresco sociale e
sentimentale, tipicamente meridionale, una sorta di abbandono all’immagine, alla sensazione.
Donnarumma all’assalto, essa invece è piuttosto l’espressione di una nuova possibilità di impostazione
di quella narrativa meridionale che troppo spesso negli ultimi anni si è limitata alla sterile protesta
letteraria. Forse il suo difetto è in un’intrinseca difficoltà di una vera e propria presa di posizione dello
scrittore di fronte al conflitto. Èimportante tuttavia che egli abbia messo a fuoco questi nuovi problemi
che saranno forse domani i veri problemi della condizione e della vita meridionale.

OTTIERI E IL ROMANZO
di Arnaldo Bocelli
(«Il Mondo», 6 ottobre 1959)

[…] Al romanzo Tempi Stretti si ricollega Donnarumma all’assalto (Bompiani), ambientato anch’esso
in una fabbrica, esemplare per modernità di attrezzature e razionale bellezza di costruzione, impiantata
da una grande industria del Nord su una popolosa spiaggia del Sud (si tratta evidentemente della
Olivetti di Pozzuoli), anche per avviare a soluzione, seppure in misura minima, il problema, cronico,
della disoccupazione meridionale. E il motivo dominante è appunto il contrasto fra la serenità
dell’ambiente e del lavoro che i molti operai che vi svolgono, e il drammadei loro compaesani che
fanno ressa di fuori, per essere assunti, e vengono invece per necessità di cose, respinti dopo lunghi
esami psicotecnici. Motivo cui si intreccia quello, più vasto e ambizioso, della industrializzazione del
Mezzogiorno, tentata dai “settentrionali” fra l’indifferenza o il sospetto dei “meridionali”, desiderosi, e
ben capaci, di lavorare ma tuttavia come invischiati da una “storica” abitudine alla disoccupazione.
Ora, per seguire più da vicino questi temi, Ottieri ha creduto opportuno di dare al suo racconto la forma
del diario, che finge tenuto dal capo del personale (un personaggio per più versi autobiografico),
umanissimo con i respinti, anche quando, come il Donnarumma del titolo, si mostrano violenti o ribelli.
Senonchè cotesta forma, se in certo senso giustifica la discontinuità del flusso narrativo, non dissimula,
anzi, più che mai sottolinea quel dualismo, specialmente dove, più affiorando il secondo tema, indulge
a veri e propri modi saggistici. Nato da un’esperienza eccezionale, il libro insomma non sa rinunciare a
sfaccettare, descrivere e analizzare questa eccezionalità: con risultati spesso illuminanti, sul piano della
documentazione storica, ma pregiudizievoli ai fini di una rappresentazione o visione poetica di quel
mondo in lenta evoluzione. Ancora una volta quel che manca è il romanzo, come intima compagine e
circolarità di respiro. Eppure delle qualità artistiche di Ottieri sono sicura testimonianza alcuni ritratti di
disoccupati, alcune scene di un bel rilievo drammatico e quasi tutte le notazioni di paesaggio, intense
nella loro sobrietà. Ma quel che soprattutto ci conferma nella fiducia per il suo avvenire, è quel tentare
una tematica nuova, tutta sua; è la volontà, e capacità, di liberarsi da ogni vistoso residuo di
neorealismo, daal quale ha pur preso le mosse (la sua scrittura è scorrevole senza sciatterie, il dialogo
parlato senza ibridismi dialettali), è la profonda serietà delle sue istanze morali e sociali.

QUELLA DOMANDA SENZA RISPOSTA
di Silvio Perrella
(«Corriere del Mezzogiorno», 3 marzo 1999)

Donnarumma all’assalto (1959) ha la forma di un diario: da marzo a novembre vengono scanditi i
tempi di un’esperienza e l’esperienza è subito detta: un uomo che viene dal Nord dell’Italia passa alcui
mesi della sua vita in una città del Sud. Quest’uomo è in una posizione particolare: per lavoro deve
elezionare, usando i metodi della psicotecnica, gli operai da assumere in una nuova fabbrica. E dunque
ha subito un rapporto con gli autoctoni. Un rapporto privo dei soliti pregiudizi. La fabbrica non è una
delle solite: sorge di fronte al mare ed è rispettosa del paesaggio. E anche l’azienda che le ha dato vita è
a dir poco anomala, portatrice com’è di un ‘utopia sociale che si vuole realizzabile. E non è finita,
perché la città del sud ha anch’essa delle sue peculiarità non usuali. Èabitata, ad esempio, da una
“popolazione industriale senza industria”; una popolazione costituita da “pescatori senza barca e
contadini senza terra”. Il mare che dovrebbe costituire la prima risorsa come aveva già capito Anna
Maria Ortese “non serve, è sfruttato, magnifico, nobile e vecchio”; non serve nemmeno, il mare, a
sciogliere l’”abbaglio fisso” che sovrasta il paesaggio. Dell’autore di questo diario sappiamo poco. A
differenza delle persone che incontra non ha un nome, se non la qualifica di “dottore”, affibbiatagli
regolarmente dai suoi interlocutori; viene dal nord (anche se non ci è nato) e lì tornerà, ha una moglie.
Sappiamo però che il Sud lo attrae, perché gli consente di mettere l’una contro l’altra la sua pulsione
razionalizzante e quella anarchica. Alla fine della sua esperienza di selezionatore, poco prima di tornare
a casa, si chiede: “Non si poteva vivere a Santa Maria per sempre?”. Ma prima che la domanda agisca
nella sua mente, il treno è già partito. È una domanda che Ottieri continuerà a porsi per tutta la vita.

OTTIERO OTTIERI FRA GLI OPERAI MERIDIONALI
di Beniamino Placido
(«la Repubblica», 4 aprile 2004)

Fra le tante guerre che hanno attraversato e straziato il nostro Paese ce ne sono state due che meritano
di essere raccontate insieme:la guerra provocata dal conflitto fra industria e agricoltura, fra lavoro
industriale e lavoro di fabbrica e il suo rovescio. Lo si sapeva sin da prima che il Mezzogiorno agricolo
entrasse in crisi e spingesse una quantità di operai ansiosi verso le fabbriche, che l’industria è diversa
dall’agricoltura. Nell’agricoltura contano le vicende del tempo, le vicissitudini stagionali: la grandine
può rovinare un raccolto così come può fare un’inondazione. Mentre questi due eventi, ed altri
consimili, lascia del tutto indifferente la produzione industriale. Tutto il contrario nelle vicende del
mercato. Qui è l’agricoltura ad essere più protetta, finché i Consorzi agrari esistono e resistono. Sono
loro che dovranno andare ad ammassare i prodotti agrari pagandoli nel frattempo ai contadini per poi
rivenderli con tutta calma sui mercati, quando il momento si fa più opportuno. Poi c’è il lavoro agricolo
e quello industriale, diversissimi l’uno dall’altro. Non lo sapevamo, prima. Pensavamo che il
giovanotto fortunosamente, fortunatamente entrato in una fabbrica di Torino o di Milano facesse
pressappoco lo stesso lavoro del suo amico. Giovanotto anche lui rimasto a lavorare e ad allevare
animali, laggiù nella campagna. Invece era vero e continua ad essere vero, l’opposto. Quanto ai
lavoratori agricoli, sapevamo già delle loro difficoltà: specie nel cercare il posto di lavoro; specie nel
sopportare le prospettive della disoccupazione, sempre in agguato. E poi, di fronte ai cancelli della
fabbrica, spostata dal Nord al Mezzogiorno, ma tuttora chiusi, bisognava imparare a comportarsi di
fronte al “pizzicologo” e all’ingegnere –sociologo che vi avrebbe interrogato in vista di una sospirata,
probabile assunzione. Psicologo era Ottiero Ottieri oppure sociologo, ma fa lo stesso, quando l’Olivetti
lo inviò al Sud a mettere in piedi quella sua nuova fabbrica appena impiantata, in vista del mare di
Napoli. E Ottiero Ottieri affronta i suoi disoccupati del Sud, dove la disoccupazione è un elemento
quasi naturale, riesamina uno per uno (o una per una ) ed espone le sue teorie sulla loro eventuale
assunzione (magari, dottore!Magari!) ascolta le loro reazioni che sono nervose e lunghe e poi giorno
per giorno ce li descrive in questo romanzo: Donnarumma all’assalto. Un classico della letteratura
italiana del dopoguerra (prefazione di Giuseppe Montesano, Garzanti elefanti). Ottiero Ottieri, che è
morto due anni or sono, è naturalmente quello che noi diremmo un umanista e proprio per questo
particolarmente affascinato da una scrittura sobria. A questa sobrietà lo richiamano, lo incoraggiano i suoi verbosi interlocutori, che verbosi sono perché non sanno in che altro sperare, una volta svanita
quella promessa di occupazione.
“Io vi faccio vedere che vi faccio il lavoro di tre operai insieme. Io non ho paura di niente,
nemmeno della meccanica. “
“Lei dove ha lavorato prima?”
“Ho lavorato nei cantieri. Io sono il migliore manuale di Santa Maria:”
“Ma vede, noi adesso non abbiamo bisogno di manovali.”
“E di che cosa avete bisogno, di ingegneri?”
“Non di ingegneri, ma di operai che abbiamo attitudine alla meccanica.”
“Io ce l’ho l’attitudine. Fatemi fare la prova”.
“Ho capito: Che scuola avete fatto?”
“Nessuna scuola. La scuola ce l’ho in testa. A me mi piace di faticare. Io sono alfabeta. Io sono
alfabeta, con sette figli, ma mi piace di faticare, devo mangiare.”
Tutti così i dialoghi di Ottiero Ottieri con i suoi aspiranti all’assunzione in fabbrica, per 253 pagine.
Tutte così o così pressappoco, ma per 253 pagine non ci si stanca mai.

TEMPI STRETTI (1957)

UN DOCUMENTO DI VITA ITALIANA, TEMPI STRETTI
di Walter Mauro
(«Il Paese», 24 ottobre 1957)

[…] Ottiero Ottieri un giovane scrittore romano, che da una formazione strettamente letteraria è passato
a problemi di “cultura industriale”, lavorando in grandi complessi del Settentrione, con questo libro ci
porta proprio all’interno di questa Milano operaia, delle grandi industrie italiane, mostrandocene la vita
in un momento di trasformazioni, di sviluppi e di difficili lotte sociali.
L’intreccio del romanzo è necessariamente scheletrico e tenue: Giovanni si incontra con Emma, nella
casa di una famiglia amica, e la loro simpatia, lentamente si tramuta in affetto, malgrado che Giovanni
di continuo si senta attratto da una donna di altro ceto. Teresa, con la quale si vede più volte, ora
respinto, ora stranamente allettato. Quest’ultima è moglie di un uomo influente, che comanda e può
aiutare. Ma dopo un penoso distacco, Emma e Giovanni si ritrovano e tutto sembra tornar come prima.
Il carattere stesso di documento, che l’autore ha voluto dare al suo libro, imponeva una trama così esile,
che del resto si regge in piedi benissimo, sostenuta com’è dal clima vigoroso e concitato del mondo
operaio in cui si sviluppa. Anzi, è proprio nelle testimonianze della vita di fabbrica, mi sembra più che
negli scorci patetici e sentimentali, che l’autore rivela notevole forza narrativa: nel contrasto, reso con
sobria evidenza, tra le due fabbriche, l’una organizzata con sistemi tradizionali, l’altra invece che
sperimenta le nuove tecniche, sia meccaniche che “umane”.
[…] In uno dei brani più felici del suo libro l’Ottieri ha voluto mettere in evidenza proprio la lenta
evoluzione per cui si sta passando dalla prevalenza assoluta alla fatica muscolare alla prevalenza della
fatica nervosa, specialmente nei settori in cui le attrezzature hanno subito processi di miglioramento
tecnico: “Qui la sincronia uomo-macchina era perfetta e ambedue correvano di volata, la pressa a
divorare, l’uomo a rifornirla, pedalando sulla leva come uno scatenato ciclista con una gamba sola. Egli
compiva movimenti fulminei, la fronte appena inclinata in avanti, fissando e consumando la strada
invisibile dei pezzi e del tempo. Di rado tirava il fiato e subito giù: afferrare il pezzo con la sinistra,
prenderlo con la pinza tenuta con la destra, deporlo, pedalare. L’importante era che le mani si
muovessero, ognuna per conto suo, che la sinistra non aspettasse la fine delle funzioni della destra, ma
la precedesse.”
La scena dell’incidente è immediata e balzante, resa con una prosa, che fa tornare alla mente certi brani
di Guilloux o meglio di Vailland: “Verso le undici e mezzo dal posto della Dall’Orto fu cacciato un
urlo umano più forte, più acuto dei colpi impastati delle presse e che sovrastò il rumore di tutto il
salone. La Dell’Orto svenne subito ed Emma la vide già per terra. Dopo qualche battito di esitazione, le
macchine del reparto si arrestarono una per una: E in quell’oasi di silenzio la Ratti si precipitò spra la
ragazza caduta che si era mozzata un dito e spargeva un ruscello di sangue. Accorsero il capo-squadra e
un gruppo di operai, i quali sollevarono la Dall’Orto con la testa penzoloni all’indietro, gli occhi
stravolti da morta, trasportandola al pronto soccorso da cui balzò fuori l’infermiera. Emma non si
mosse: si strinse le dita dentro le mani, ficcandosi le unghie nel palmo,immobile sul seggiolino davanti
alla pressa. Nessuno si preoccupava di lei, poiché erano scappati dietro la compagna. Per cinque minuti
buoni non lavorò.”
Altrove, l’autore indugia in qualche “pezzo di colore”: tra i più riusciti, quelli sulla Milano periferica e
domenicale, con la “buona gente” sciamante per le vie di Sesto e di Monza o chiusa in casa, a smaltire
la dura fatica di una settimana di lavoro. E son “carrellate” piene di calda umanità e di dolorosa
partecipazione all’umana sofferenza.
“C’è una tristezza operaia dalla quale non si guarisce che con la partecipazione politica”: è un pensiero
di Navel, che abbiamo trovato ad apertura di libro. E che sembrano proprio questi i poli della vicenda
umana, che vive e si agita in questo romanzo.”

“TEMPI STRETTI” UN ROMANZO NELLA FABBRICA
di Marisa Bulgheroni
(«Gazzetta del Libro», ottobre 1957)

Ogni epoca offre alla propria letteratura nuovi contenuti: il tema della vita in fabbrica, quale si è venuto
articolando in questi anni, con i suoi problemi tecnici e umani, con modi e linguaggio ormai codificati
dagli specialisti, e la dura, incomunicabile realtà umana al di sotto, sta ora filtrando dal documento
sociologico nella narrativa […].
Tempi Stretti di Ottiero Ottieri, uscito di recente nei “Gettoni” di Einaudi, sembra nascere proprio da
questa alta ambizione: narrare la vita di fabbrica non più come scoperta polemica o dramma sociale o
documento di una esperienza vissuta personalmente, ma come punto poetico, materia di un autentico
romanzo per quello che essa conta ne determinare i suoi protagonisti, nel farne personaggi di una
particolare qualità umana. Per vivere il mondo del quotidiano lavoro operaio nel suo scenario naturale:
la grande città industriale con le sue profonde fratture, i suoi itinerari immutabili, per cui chi vive in
periferia raramente raggiunge i quartieri alti, le eleganze riservate agli abitanti del centro e chi vive nel
centro non si avventura alla periferia se non in cerca di emozioni per una giornata diversa dal solito.
L’alienazione urbana è un prodotto dell’industria, degli strati sociali che essa crea distinti come razze: e
non a caso Ottieri ha scelto come sfondo costante del suo romanzo interni e paesaggio, Milano tra le
nostre città industriali certo la più sorda, quella che reca nella sua fisionomia i segni più profondi
dell’incomunicabilità tra gruppi. Non a caso a tali razze diverse appartengono i personaggi […].
Giovanni Marini è il tecnico che si è fatto da sé, con la volontà di capire e il gusto dell’intelligenza a
mezzo tra il mondo dei padroni, dei grandi dirigenti che considera con un distacco fatto un po’ di
diffidenza istintiva, un po’ di curiosità,e quello operaio da cui proviene e in cui ha i suoi amici più veri.
Emma è la ragazza “senza una goccia di sangue operaio” e che la necessità costringe a lavorare in una
grande industria meccanica subito vinta dall’allucinante fatica, dalle durezze della fabbrica e insieme
tenace nel ricercare oscuramente una possibilità di sopravvivenza nell’amore, in una vita quotidiana più
piena.
Teresa è la giovane signora ricca che nell’amicizia per Marini avverte un’eventualità di interesse
autentico, ma è incapace di maturare al di là dell’inquietudine, del gioco, di sciogliersi dal benessere
del marito.
Aldo è l’operaio specializzato, affinato dalla partecipazione politica a vivere l’esperienza di fabbrica
con una profondità che la trasforma, con un impegno totale che ne annulla la brutale monotonia […].
[…] Ottieri ha inseguito la realtà del mondo del lavoro industriale: gli premeva scandagliarla in ogni
direzione, saggiarne le complicazioni interne come si misurano i rapporti di un’architettura, tradurre in
linguaggio letterario la storia della solidarietà e delle slealtà fra colleghi, i pudori e le rivolte di fronte ai
capi, l’ansia allo scoccare di uno sciopero, l’angoscia del grande caldo estivo in una fabbrica e la
leggerezza delle abitudini che rendono sopportabile l’inumano; e ancora i motivi d’interesse
intellettuale che questo lavoro può offrire a un intelletto lucido, capace di liberarsi della schiavitù della
giornata per pensare con coraggiosa invenzione i problemi della fabbrica.
Ottieri ha indicato con chiarezza nella citazione preposta all’inizio del libro il punto più vivo della sua
ispirazione: È la frase di uno scrittore operaio francese George Navel: “C’è una tristezza operaia dalla
quale non si guarisce che con la partecipazione politica”. Questa tristezza mi sembra il tema
letterariamente più risolto del romanzo: rappresentata, come è nella sua atonia, nel mal di testa di
Emma, che non si abitua al ritmo dei tempi sempre più “stretti”, riflessa anche nelle domeniche,
nell’incapacità psicologica a rendere più lunga la breve pausa tra una settimana e l’altra… Certe
pagine, sulle lunghe giornate di fabbrica, sugli intervalli meridiani, tra prati e muri della periferia,
quando si accende un’allegria improvvisa, come una festa di essere all’aria, le mani libere, hanno
un’intensità di ritmo che si ricorda, forse anche perché si avvertono non semplice frutto di una
testimonianza personale, ma intuizione acuta del destino di altri, maturità letteraria.

MEMORIE DELL’INCOSCIENZA (1954)

UN ESORDIO
di Renzo Tian
(«Il Messaggero», 21 maggio 1954)

Nel primo romanzo di Ottiero Ottieri Memorie dell’incoscienza (comparso nella collezione dei
“Gettoni” di Einaudi),  c’è sicuramente una novità, che lo differenzia da molte opere di suoi coetanei: è
una novità non di contenuto, ma di tono e, vorremmo dire, di maniera di considerare il problema del
narrare. Il tema del romanzo è tutt’altro che nuovo: Ottieri ci parla di quel periodo di crisi morale e
spirituale che coincise con i grandi mutamenti operatisi in Italia fra il 1943 e il 1945, e sceglie come
protagonista un ventenne che impersona lo stato di disorientamento e di confusione in cui si trovarono
molti giovani in quell’epoca tormentata. Una libertà che per certuni aveva le sembianze del disordine e
dell’anarchia fece vacillare più di una coscienza: e Ottieri cerca di dirci con franchezza la storia di certi
errori e di certe illusioni che prima di essere condannati hanno bisogno di essere intesi a fondo.  Ma,
attenzione, questo non è che uno sfondo e uno sfondo non sempre troppo nitido.  Accanto all’analisi
delle reazioni suscitate dagli eventi storici, pubblici, corre parallela la storia privata delle vicende
sentimentali di Lorenzo e qui ci sembra che Ottieri dia la prova migliore delle sue possibilità. Il mondo
dei sentimenti dell’adolescenza, con i suoi trasporti e le sue crisi; il senso di isolamento e di solitudine,
la pena profonda e il desiderio di morte che possono nascere da un amore tenace e mal corrisposto; il
rovello, la disperazione e la paura che si insediano nell’anima al seguito di questi mali – son questi i
temi capaci di ispirare all’Ottieri delle pagine felici e a fargli delineare dei veri e viventi personaggi
femminili.  Perciò, pur con gli inevitabili difetti di un libro scritto a ventitre anni e rifatto a ventisette, ci
sembra di poter indicare l’originalità di queste Memorie nell’atteggiamento dello scrittore di fronte alle
cose che ha da narrare: un atteggiamento di umiltà, di rinuncia a voler forzare la mano e dominare a
ogni momento la scena. In troppi nostri romanzi moderni si sente una persona invadente: quella
dell’autore che non sa rinunciare a starsene anche lui sul palcoscenico dove stanno recitando i suoi
personaggi.  Se l’espressione “mestiere di scrittore” ha ancora un senso Ottieri ha dimostrato (magari
attraverso certi suoi sbagli) che quel mestiere lo conosce e che ha la sua parola da dire nella narrativa
contemporanea.

MEMORIE DELL’ INCOSCIENZA
di Giacinto Spagnoletti
(«La Gazzetta di Parma», 2 ottobre 1954)

Col lungo gomitolo che è venuto sdipanandosi della memoria degli anni di guerra, la nostra narrativa,
specie quella sperimentale e giovanile, da tempo sta fabbricando una variopinta tela della quale si vede
ogni volta un angolo, balenante trama, disegni e colori differenti. … Il più calzante esempio, forse il
meglio distinguibile tra i tanti, ce l’offre il romanzo di Ottiero Ottieri Memorie dell’incoscienza
(Einaudi, 1954), il primo libro dell’autore trentenne. L’opera, anche materialmente risulta composta in
due tempi (1947 e 1951) affidata quindi a due precisi momenti di redazione che hanno il vantaggio di
coincidere con due momenti storicamente dissimili, ma si mantiene ciò nonostante, fra realtà e fantasia,
su un piano di evocazione unica. È questo il suo merito. E che l’elemento documentario cui avrebbe
dovuto appoggiarsi la narrazione, sia precipitato, anzi per meglio dire abilmente fatto cadere, dietro
l’ossatura del racconto, indica la maturazione intervenuta fra le due stesure e in fondo il sopravvento
dell’artista sulle velleità anche giustificabili del cronista, come oggi si direbbe, dell’autore di
memoriali. L’intento di giungere, attraverso la disamina d’uno stato d’animo d’adolescente inquieto al
giudizio di un’epoca – quella beninteso trascorsa dal 25 luglio ai grossi contraccolpi drammatici della
sconfitta – ha potuto, ancora una volta essere lucidamente evitato, con la grande soddisfazione di
metterci di fronte a un romanzo dove di quell’esperienza si avverte l’eco profonda, sorda talvolta, senza
l’alone moralistico a cui troppi documenti del genere ci hanno abituato.
Ma con tutto il peso e il fastidio della documentazione psicologica che quei trapassi, quelle
contraddizioni e vaghe rivolte comportavano, si poteva fare romanzo a patto che si mantenessero ben
nette e distinte le due serie di “verità” aggallanti: quella di ieri e quella di oggi. Che non venissero
mescolate in un’unica comoda congettura, valida in sede romanzesca e in sede storica. In una nota
giustificativa l’autore, per esempio, dà al termine “incoscienza” un significato particolare e chiama in
causa la psicologia del profondo, indicando nell’incoscienza del suo personaggio “non tanto la
spericolatezza, quanto un’assoluta immaturità psicologica, un male senza colpa, eppure capace delle
conseguenze più disastrose.” E allargando il campo d’osservazione aggiunge: “Tacciare qualcuno o un
intero gruppo di uomini di incoscienza non è propriamente maledirlo, ma respingerlo entro confini
assai stretti, relegarlo e toglierlo quella ingenua potenza che crede esibizionisticamente di avere”. Di
qui poi la conseguenza che, “in questo libro, il fascismo, l’impulso suicida, l’affetto fra fratello e
sorella, o vari e meschini modi di vedere il mondo in alcuni personaggi, sono mossi direttamente dai
fili di un inconscio individuale o collettivo”.
Dunque, come dicevamo, l’autore si è reso conto della necessità di espellere il personaggio dalla sua
storia attuale, teorizzandoci su, ma avremmo preferito nemmeno un rigo di teoria e una maggiore verità
di impostazione nell’ambito dello stesso personaggio troppo pencolante talvolta verso le sue ossessioni
politiche e amorose (sia pure immaturamente percepite) per dirsene ancora immune: il suo racconto si
svolge tra continue comode, sottili indulgenze non solo morali ma sentimentali, psicologiche. Ed è a
forza di tortuose scalfitture inflittesi che ritroviamo alla fine lo stesso irreale giovinetto che conosciamo
all’inizio, durante le torride giornate dell’estate romana.
Nulla ha potuto cambiarlo, e neanche la morte della sorella limpidamente descritta (il finale riecheggia
però stranamente la classica dolente chiusa di Un addio alle armi). Perduto questo gioco sul
personaggio, per fortuna all’autore rimanevano gli altri, da lui più sentiti e magistralmente condotti.
L’atmosfera dell’ozio in campagna, fra le pareti della villa abitata dalla sorella e dagli ufficiali tedeschi,
le calde, pregnanti descrizioni del paesaggio di Roma e di Chiusi inserite negli stati d’animo più
dissimili del protagonista, le figure femminili, soprattutto queste che non si dimenticheranno
facilmente: Katja, Elena, Rita, Isabella. Ed il romanzo vive per tutto ciò e meno per le ansie scontate
del giovane eroe.
Si capisce quanto sia stato difficile per il giovane autore staccarsi da tanta materia e riosservarla:
laddove occorreva uno strappo deciso egli invece ha lasciato sul terreno della rappresentazione mille
fili di impiccio, stregoneschi feticci di una vocazione letteraria forse troppo dottrinalmente compiaciuta
di psicologia.
Ma badando alle qualità di scrittura con cui molto più spesso ha ravvivato il suo racconto – alle pagine
dolorose e riposanti di cui si è detto, alle figure riuscite – non si potrà non riconoscergli un posto, tra i
meno casuali, negli ultimi acquisti della nostra narrativa.

2002 > Un’irata sensazione di peggioramento (Guanda)

2002-una_irata_sensazioneAcquista libro su IBS

 

Milano-Torino e ritorno: un tratto di autostrada che si snoda tra le risaie, un nastro d’asfalto percorso con angoscia e orrore, altre volte con flebile speranza, dallo scrittore Pietro Mura, alcolista in preda a ricorrenti crisi depressive, intellettuale impaziente, duro con se stesso e con la realtà politico-economica che lo circonda. A un estremo dell’anello la “capitale immorale” Milano, governata unicamente dall’”anima” del commercio e del profitto, oppressa da cieli plumbei e uniformi, stagnante. Dall’altro invece Torino, cieli alti e luminosi, in cui trova un nuovo medico e la speranza di una nuova cura, nella quale riconosce anche una possibile storia d’amore. Su questo percorso di andate e ritorni, ossessivamente circolare, si snoda la vicenda esile e intensa di una guarigione forse impossibile, che a volte pare addirittura non necessaria, tanta è invece l’urgenza che il racconto attribuisce alla ricerca delle radici della malattia.

Su tutto si fa strada in modo impercettibile ma inesorabile, la sensazione che la follia e l’ossessione appartengano prima di tutto al mondo e alla cronaca, che ci siano ragioni politiche e sociali più forti ancora di quelle interiori, che violenza e caos siano soli il lascito amaro di un paese illiberale, di logiche di mercato inumane eppure apparentemente da tutti condivise. E’ l’ultimo libro di Ottieri, un libro estremo e forse terribile: nella precisione meticolosa con cui scandaglia il male del suo protagonista, nella scrittura aspra e affilata che detta i ritmi compulsivi della circolarità e della dipendenza, riconosciamo non solo il suo disagio interiore ma anche il nostro difficile sopravvivere in un paese in cui la barbarie si presenta con il volto dell’ovvio, dell’inevitabile; e la sua analisi è spietatamente verticale, giunge al cuore della banalità, della fatica individuale e collettiva, ne esplora i silenzi e le paure, lascia quasi con terrore che ne emergano le contraddizioni e ci consegna infine il profilo livido di una quotidianità allucinata.

1999 > Cery (Guanda)

1999-ceryAcquista su IBS

La necessità, la sofferta urgenza che scandisce le pagine di questo libro è la lucida consapevolezza che la depressione provoca la massima delle sofferenze mentali ed è al contempo, anche sofferenza fisica e come tale viene pienamente vissuta da chi ne è colpito. Ma c’è anche altro, una sorpresa che nasce fuori dalla pagina, nella lettura di un libro così intenso e partecipe: lo stupore di chi è “normale” nell’accorgersi che non c’è compiacimento del dolore in chi si porta dentro il ‘male oscuro’, al contrario, c’è la voglia, la fretta di guarire cui fa eco un insopprimibile desiderio di vivere.

Ad accompagnare il lettore in questo territorio di confine è il protagonista del libro, un intellettuale milanese di mezza età, alcolista, che si trova ‘rinchiuso’ in un ospedale svizzero per seguire un programma che lo liberi e che lo aiuti a placare l’ansia, l’angoscia cui egli applica la solita autocura sbagliata e quindi tragica, l’alcol.Intorno a lui ci sono i medici e gli altri pazienti, soprattutto donne, specialmente le donne che su di lui esercitano attrazione. Della loro vita vorrebbe sapere tutto: i desideri, gli amori, le delusioni e un istinto che non può domare lo spinge a iniziare un gioco di seduzione che segnerà l’inizio di una serie di imprevisti amorosi.