RECENSIONI
MEMORIE DELL’INCOSCIENZA (1954)
UN ESORDIO
di Renzo Tian
(«Il Messaggero», 21 maggio 1954)
Nel primo romanzo di Ottiero Ottieri Memorie dell’incoscienza (comparso nella collezione dei
“Gettoni” di Einaudi), c’è sicuramente una novità, che lo differenzia da molte opere di suoi coetanei: è
una novità non di contenuto, ma di tono e, vorremmo dire, di maniera di considerare il problema del
narrare. Il tema del romanzo è tutt’altro che nuovo: Ottieri ci parla di quel periodo di crisi morale e
spirituale che coincise con i grandi mutamenti operatisi in Italia fra il 1943 e il 1945, e sceglie come
protagonista un ventenne che impersona lo stato di disorientamento e di confusione in cui si trovarono
molti giovani in quell’epoca tormentata. Una libertà che per certuni aveva le sembianze del disordine e
dell’anarchia fece vacillare più di una coscienza: e Ottieri cerca di dirci con franchezza la storia di certi
errori e di certe illusioni che prima di essere condannati hanno bisogno di essere intesi a fondo. Ma,
attenzione, questo non è che uno sfondo e uno sfondo non sempre troppo nitido. Accanto all’analisi
delle reazioni suscitate dagli eventi storici, pubblici, corre parallela la storia privata delle vicende
sentimentali di Lorenzo e qui ci sembra che Ottieri dia la prova migliore delle sue possibilità. Il mondo
dei sentimenti dell’adolescenza, con i suoi trasporti e le sue crisi; il senso di isolamento e di solitudine,
la pena profonda e il desiderio di morte che possono nascere da un amore tenace e mal corrisposto; il
rovello, la disperazione e la paura che si insediano nell’anima al seguito di questi mali – son questi i
temi capaci di ispirare all’Ottieri delle pagine felici e a fargli delineare dei veri e viventi personaggi
femminili. Perciò, pur con gli inevitabili difetti di un libro scritto a ventitre anni e rifatto a ventisette, ci
sembra di poter indicare l’originalità di queste Memorie nell’atteggiamento dello scrittore di fronte alle
cose che ha da narrare: un atteggiamento di umiltà, di rinuncia a voler forzare la mano e dominare a
ogni momento la scena. In troppi nostri romanzi moderni si sente una persona invadente: quella
dell’autore che non sa rinunciare a starsene anche lui sul palcoscenico dove stanno recitando i suoi
personaggi. Se l’espressione “mestiere di scrittore” ha ancora un senso Ottieri ha dimostrato (magari
attraverso certi suoi sbagli) che quel mestiere lo conosce e che ha la sua parola da dire nella narrativa
contemporanea.
MEMORIE DELL’ INCOSCIENZA
di Giacinto Spagnoletti
(«La Gazzetta di Parma», 2 ottobre 1954)
Col lungo gomitolo che è venuto sdipanandosi della memoria degli anni di guerra, la nostra narrativa,
specie quella sperimentale e giovanile, da tempo sta fabbricando una variopinta tela della quale si vede
ogni volta un angolo, balenante trama, disegni e colori differenti. ... Il più calzante esempio, forse il
meglio distinguibile tra i tanti, ce l’offre il romanzo di Ottiero Ottieri Memorie dell’incoscienza
(Einaudi, 1954), il primo libro dell’autore trentenne. L’opera, anche materialmente risulta composta in
due tempi (1947 e 1951) affidata quindi a due precisi momenti di redazione che hanno il vantaggio di
coincidere con due momenti storicamente dissimili, ma si mantiene ciò nonostante, fra realtà e fantasia,
su un piano di evocazione unica. È questo il suo merito. E che l’elemento documentario cui avrebbe
dovuto appoggiarsi la narrazione, sia precipitato, anzi per meglio dire abilmente fatto cadere, dietro
l’ossatura del racconto, indica la maturazione intervenuta fra le due stesure e in fondo il sopravvento
dell’artista sulle velleità anche giustificabili del cronista, come oggi si direbbe, dell’autore di
memoriali. L’intento di giungere, attraverso la disamina d’uno stato d’animo d’adolescente inquieto al
giudizio di un’epoca – quella beninteso trascorsa dal 25 luglio ai grossi contraccolpi drammatici della
sconfitta – ha potuto, ancora una volta essere lucidamente evitato, con la grande soddisfazione di
metterci di fronte a un romanzo dove di quell’esperienza si avverte l’eco profonda, sorda talvolta, senza
l’alone moralistico a cui troppi documenti del genere ci hanno abituato.
Ma con tutto il peso e il fastidio della documentazione psicologica che quei trapassi, quelle
contraddizioni e vaghe rivolte comportavano, si poteva fare romanzo a patto che si mantenessero ben
nette e distinte le due serie di “verità” aggallanti: quella di ieri e quella di oggi. Che non venissero
mescolate in un’unica comoda congettura, valida in sede romanzesca e in sede storica. In una nota
giustificativa l’autore, per esempio, dà al termine “incoscienza” un significato particolare e chiama in
causa la psicologia del profondo, indicando nell’incoscienza del suo personaggio “non tanto la
spericolatezza, quanto un’assoluta immaturità psicologica, un male senza colpa, eppure capace delle
conseguenze più disastrose.” E allargando il campo d’osservazione aggiunge: “Tacciare qualcuno o un
intero gruppo di uomini di incoscienza non è propriamente maledirlo, ma respingerlo entro confini
assai stretti, relegarlo e toglierlo quella ingenua potenza che crede esibizionisticamente di avere”. Di
qui poi la conseguenza che, “in questo libro, il fascismo, l’impulso suicida, l’affetto fra fratello e
sorella, o vari e meschini modi di vedere il mondo in alcuni personaggi, sono mossi direttamente dai
fili di un inconscio individuale o collettivo”.
Dunque, come dicevamo, l’autore si è reso conto della necessità di espellere il personaggio dalla sua
storia attuale, teorizzandoci su, ma avremmo preferito nemmeno un rigo di teoria e una maggiore verità
di impostazione nell’ambito dello stesso personaggio troppo pencolante talvolta verso le sue ossessioni
politiche e amorose (sia pure immaturamente percepite) per dirsene ancora immune: il suo racconto si
svolge tra continue comode, sottili indulgenze non solo morali ma sentimentali, psicologiche. Ed è a
forza di tortuose scalfitture inflittesi che ritroviamo alla fine lo stesso irreale giovinetto che conosciamo
all’inizio, durante le torride giornate dell’estate romana.
Nulla ha potuto cambiarlo, e neanche la morte della sorella limpidamente descritta (il finale riecheggia
però stranamente la classica dolente chiusa di Un addio alle armi). Perduto questo gioco sul
personaggio, per fortuna all’autore rimanevano gli altri, da lui più sentiti e magistralmente condotti.
L’atmosfera dell’ozio in campagna, fra le pareti della villa abitata dalla sorella e dagli ufficiali tedeschi,
le calde, pregnanti descrizioni del paesaggio di Roma e di Chiusi inserite negli stati d’animo più
dissimili del protagonista, le figure femminili, soprattutto queste che non si dimenticheranno
facilmente: Katja, Elena, Rita, Isabella. Ed il romanzo vive per tutto ciò e meno per le ansie scontate
del giovane eroe.
Si capisce quanto sia stato difficile per il giovane autore staccarsi da tanta materia e riosservarla:
laddove occorreva uno strappo deciso egli invece ha lasciato sul terreno della rappresentazione mille
fili di impiccio, stregoneschi feticci di una vocazione letteraria forse troppo dottrinalmente compiaciuta
di psicologia.
Ma badando alle qualità di scrittura con cui molto più spesso ha ravvivato il suo racconto - alle pagine
dolorose e riposanti di cui si è detto, alle figure riuscite - non si potrà non riconoscergli un posto, tra i
meno casuali, negli ultimi acquisti della nostra narrativa.