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RECENSIONI

TEMPI STRETTI (1957)

UN DOCUMENTO DI VITA ITALIANA, TEMPI STRETTI
di Walter Mauro
(«Il Paese», 24 ottobre 1957)

[...] Ottiero Ottieri un giovane scrittore romano, che da una formazione strettamente letteraria è passato
a problemi di “cultura industriale”, lavorando in grandi complessi del Settentrione, con questo libro ci
porta proprio all’interno di questa Milano operaia, delle grandi industrie italiane, mostrandocene la vita
in un momento di trasformazioni, di sviluppi e di difficili lotte sociali.
L’intreccio del romanzo è necessariamente scheletrico e tenue: Giovanni si incontra con Emma, nella
casa di una famiglia amica, e la loro simpatia, lentamente si tramuta in affetto, malgrado che Giovanni
di continuo si senta attratto da una donna di altro ceto. Teresa, con la quale si vede più volte, ora
respinto, ora stranamente allettato. Quest’ultima è moglie di un uomo influente, che comanda e può
aiutare. Ma dopo un penoso distacco, Emma e Giovanni si ritrovano e tutto sembra tornar come prima.
Il carattere stesso di documento, che l’autore ha voluto dare al suo libro, imponeva una trama così esile,
che del resto si regge in piedi benissimo, sostenuta com’è dal clima vigoroso e concitato del mondo
operaio in cui si sviluppa. Anzi, è proprio nelle testimonianze della vita di fabbrica, mi sembra più che
negli scorci patetici e sentimentali, che l’autore rivela notevole forza narrativa: nel contrasto, reso con
sobria evidenza, tra le due fabbriche, l’una organizzata con sistemi tradizionali, l’altra invece che
sperimenta le nuove tecniche, sia meccaniche che “umane”.
[...] In uno dei brani più felici del suo libro l’Ottieri ha voluto mettere in evidenza proprio la lenta
evoluzione per cui si sta passando dalla prevalenza assoluta alla fatica muscolare alla prevalenza della
fatica nervosa, specialmente nei settori in cui le attrezzature hanno subito processi di miglioramento
tecnico: “Qui la sincronia uomo-macchina era perfetta e ambedue correvano di volata, la pressa a
divorare, l’uomo a rifornirla, pedalando sulla leva come uno scatenato ciclista con una gamba sola. Egli
compiva movimenti fulminei, la fronte appena inclinata in avanti, fissando e consumando la strada
invisibile dei pezzi e del tempo. Di rado tirava il fiato e subito giù: afferrare il pezzo con la sinistra,
prenderlo con la pinza tenuta con la destra, deporlo, pedalare. L’importante era che le mani si
muovessero, ognuna per conto suo, che la sinistra non aspettasse la fine delle funzioni della destra, ma
la precedesse.”
La scena dell’incidente è immediata e balzante, resa con una prosa, che fa tornare alla mente certi brani
di Guilloux o meglio di Vailland: “Verso le undici e mezzo dal posto della Dall’Orto fu cacciato un
urlo umano più forte, più acuto dei colpi impastati delle presse e che sovrastò il rumore di tutto il
salone. La Dell’Orto svenne subito ed Emma la vide già per terra. Dopo qualche battito di esitazione, le
macchine del reparto si arrestarono una per una: E in quell’oasi di silenzio la Ratti si precipitò spra la
ragazza caduta che si era mozzata un dito e spargeva un ruscello di sangue. Accorsero il capo-squadra e
un gruppo di operai, i quali sollevarono la Dall’Orto con la testa penzoloni all’indietro, gli occhi
stravolti da morta, trasportandola al pronto soccorso da cui balzò fuori l’infermiera. Emma non si
mosse: si strinse le dita dentro le mani, ficcandosi le unghie nel palmo,immobile sul seggiolino davanti
alla pressa. Nessuno si preoccupava di lei, poiché erano scappati dietro la compagna. Per cinque minuti
buoni non lavorò.”
Altrove, l’autore indugia in qualche “pezzo di colore”: tra i più riusciti, quelli sulla Milano periferica e
domenicale, con la “buona gente” sciamante per le vie di Sesto e di Monza o chiusa in casa, a smaltire
la dura fatica di una settimana di lavoro. E son “carrellate” piene di calda umanità e di dolorosa
partecipazione all’umana sofferenza.
“C’è una tristezza operaia dalla quale non si guarisce che con la partecipazione politica”: è un pensiero
di Navel, che abbiamo trovato ad apertura di libro. E che sembrano proprio questi i poli della vicenda
umana, che vive e si agita in questo romanzo.”


“TEMPI STRETTI” UN ROMANZO NELLA FABBRICA
di Marisa Bulgheroni
(«Gazzetta del Libro», ottobre 1957)

Ogni epoca offre alla propria letteratura nuovi contenuti: il tema della vita in fabbrica, quale si è venuto
articolando in questi anni, con i suoi problemi tecnici e umani, con modi e linguaggio ormai codificati
dagli specialisti, e la dura, incomunicabile realtà umana al di sotto, sta ora filtrando dal documento
sociologico nella narrativa [...].
Tempi Stretti di Ottiero Ottieri, uscito di recente nei “Gettoni” di Einaudi, sembra nascere proprio da
questa alta ambizione: narrare la vita di fabbrica non più come scoperta polemica o dramma sociale o
documento di una esperienza vissuta personalmente, ma come punto poetico, materia di un autentico
romanzo per quello che essa conta ne determinare i suoi protagonisti, nel farne personaggi di una
particolare qualità umana. Per vivere il mondo del quotidiano lavoro operaio nel suo scenario naturale:
la grande città industriale con le sue profonde fratture, i suoi itinerari immutabili, per cui chi vive in
periferia raramente raggiunge i quartieri alti, le eleganze riservate agli abitanti del centro e chi vive nel
centro non si avventura alla periferia se non in cerca di emozioni per una giornata diversa dal solito.
L’alienazione urbana è un prodotto dell’industria, degli strati sociali che essa crea distinti come razze: e
non a caso Ottieri ha scelto come sfondo costante del suo romanzo interni e paesaggio, Milano tra le
nostre città industriali certo la più sorda, quella che reca nella sua fisionomia i segni più profondi
dell’incomunicabilità tra gruppi. Non a caso a tali razze diverse appartengono i personaggi [...].
Giovanni Marini è il tecnico che si è fatto da sé, con la volontà di capire e il gusto dell’intelligenza a
mezzo tra il mondo dei padroni, dei grandi dirigenti che considera con un distacco fatto un po’ di
diffidenza istintiva, un po’ di curiosità,e quello operaio da cui proviene e in cui ha i suoi amici più veri.
Emma è la ragazza “senza una goccia di sangue operaio” e che la necessità costringe a lavorare in una
grande industria meccanica subito vinta dall’allucinante fatica, dalle durezze della fabbrica e insieme
tenace nel ricercare oscuramente una possibilità di sopravvivenza nell’amore, in una vita quotidiana più
piena.
Teresa è la giovane signora ricca che nell’amicizia per Marini avverte un’eventualità di interesse
autentico, ma è incapace di maturare al di là dell’inquietudine, del gioco, di sciogliersi dal benessere
del marito.
Aldo è l’operaio specializzato, affinato dalla partecipazione politica a vivere l’esperienza di fabbrica
con una profondità che la trasforma, con un impegno totale che ne annulla la brutale monotonia [...].
[...] Ottieri ha inseguito la realtà del mondo del lavoro industriale: gli premeva scandagliarla in ogni
direzione, saggiarne le complicazioni interne come si misurano i rapporti di un’architettura, tradurre in
linguaggio letterario la storia della solidarietà e delle slealtà fra colleghi, i pudori e le rivolte di fronte ai
capi, l’ansia allo scoccare di uno sciopero, l’angoscia del grande caldo estivo in una fabbrica e la
leggerezza delle abitudini che rendono sopportabile l’inumano; e ancora i motivi d’interesse
intellettuale che questo lavoro può offrire a un intelletto lucido, capace di liberarsi della schiavitù della
giornata per pensare con coraggiosa invenzione i problemi della fabbrica.
Ottieri ha indicato con chiarezza nella citazione preposta all’inizio del libro il punto più vivo della sua
ispirazione: È la frase di uno scrittore operaio francese George Navel: “C’è una tristezza operaia dalla
quale non si guarisce che con la partecipazione politica”. Questa tristezza mi sembra il tema
letterariamente più risolto del romanzo: rappresentata, come è nella sua atonia, nel mal di testa di
Emma, che non si abitua al ritmo dei tempi sempre più “stretti”, riflessa anche nelle domeniche,
nell’incapacità psicologica a rendere più lunga la breve pausa tra una settimana e l’altra… Certe
pagine, sulle lunghe giornate di fabbrica, sugli intervalli meridiani, tra prati e muri della periferia,
quando si accende un’allegria improvvisa, come una festa di essere all’aria, le mani libere, hanno
un’intensità di ritmo che si ricorda, forse anche perché si avvertono non semplice frutto di una
testimonianza personale, ma intuizione acuta del destino di altri, maturità letteraria.