RECENSIONI
VI AMO (1988)
OTTIERO OTTIERI: “VI AMO”
di Edoardo Albinati
(«Nuovi Argomenti», apr.-giu. 1989)
È molto bella, nell’ultimo di poesia di Ottiero Ottieri (Vi amo, Einaudi, 1988) l’immagine che lo
attraversa fin dall’inizio e lo compone (in una serie di piccole suites di invocazione e memoria), di un
uomo non più giovane che si rivolge alle più care creature per riassorbirle in sé, per richiamarle dalle
più grandi distanze di spazio e di tempo all’appello del proprio onnipotente narcisismo. È un uomo che
soffre per la disobbedienza delle sue creature. Eppure sembra non voler rispondere della responsabilità
di averle create. I figli, gli amori, i viaggi, gli eventi decisivi di una vita sembrano essere germinati in
un attimo di disattenzione, in una fessura appena percettibile della superficie compatta di una nevrosi al
cui esame, curvo su se medesimo con una lente che ne fa spaventoso l’occhio scrutatore, l’uomo ha
dedicato tutta la vita: per salvarsela, per giustificarla: E mentre era chino su di sé a scrutarsi e a curarsi,
i figli, i libri, le amanti, le città si sono staccati da lui quasi inavvertitamente e si sono allontanati nello
spazio e nel tempo come particelle di un atomo malato non ha più la forza per tenere avvinte al proprio
nucleo. “Tra i montarozzi di neve marcia/ e i lenti spalatori del sud, /io vi amo non voluti figli/ figli non
voluti dei figli”. Proprio nell’esordio del primo dei nove poemetti (bellissimo) è nascosto (e insieme
mostrato, esibito) il segreto della riuscita del libro, e più in generale, del modo poetico di Ottieri: quel
“non-volere”, o piuttosto, “non aver voluto”, attraverso cui il narcisista può passare in rassegna le
figure della vita, riconoscendole per proprie dal marchio delicato che vi ha lasciato impresso (o che
loro hanno lasciato impresso su di lui), e riversarvi allora tutta la sua energia e il suo amore; e insieme
disconoscerle, negare ogni intenzione nei loro confronti, guardarle come accidenti estranei e persino
ostili. Il narcisista (Ottieri) si trova dunque in una condizione di dissidente da se stesso, di ossimoro
vivente (dirò più avanti di cosa viva e come): per cui considera proprio il mondo (e perciò amabile) e
lo amministra con familiarità, come un domaine privato, e al tempo stesso lo sente estraneo (odioso,
minaccioso), quando si stacca dal muro della sua psiche formando un “tutto tondo” che si ribella, si
sottrae alla sua influenza, al suo pervasivo, artistico amore. Allor egli lo disconosce, ritira la firma (e la
paternità) “non vuole” più e “non volendo” comincia a ritrarre le sue creature come esse sono malgrè
lui, circonfuse dall’alone netto e doloroso della loro estraneità. È come se a scrivere fosse allora un
cordone ombelicale reciso: le figure vengono fuori precise e sanguinanti.
Non è più possibile l’amore che confonde, osmotizza: l’amore è proibito, per sempre cloisonnè in un
istante di sbadatezza erotica, perduto tra infiniti altri gesti, è proibito dalla crescita biologica e dalla
massima differenziazione, la morte. Resta padrone del campo un sentimento di passiva, flaubertiana,
comica oggettività, cioè l’atto supremo e il supremo trionfo del narcisista che comincia a restituire sur
place (in realtà a rigettare) quel che non è più suo. E naturale che per Ottieri, come per chiunque abbia
famiglia, siano i figli le figure più vivide di questa parabola che allontana dal narcisista le sue (nonvolute)
concrezioni, e poi gliele rimette sotto il naso cresciute, carnalmente autonome, adulte,
accusatorie: realmente, insopportabilmente “altre” nella loro fluida e smagliante giovinezza (e perciò
fonte di orgoglio, rimorso, eccetera). Ma il bello è che io confini dell’ecosistema narcisistico di Ottieri
non coincidono con l’universo parentale e amoroso (come infatti nemmeno coincidono in Pasolini e
Fortini), il che sarebbe fallimentare a meno di possedere un’anima completamente lirica, di gabbia
usignolesca (e di conseguenza per niente narcisistica): bensì aspirano ad abbracciare, a conquistare il
mondo per farvi una trionfale passeggiata o alla peggio per scegliervi le stazioni del proprio martirio.
Ed è per questo che voglio segnalare come nelle pieghe delle narcisistiche performance di Ottieri, quale
leggibile testo interlineare, scorrano decenni di vita italiana, fotografati con un iperrealismo la cui
precisione non dà (non dà soltanto) gli effetti prevedibili (e ormai in questo paesi veri e propri optional
del sistema) di satira politico-sociale: ma anzi scavalca il teatrino della satira per andare a cogliere
qualcosa di più intimo e incerto, e in certo senso più difficile e compromettente da confessare della
semplice rabbia: cioè la sensazione che grattando la superficie della nostra vita fatta di feticci e falsi
bisogni e manipolazioni venga fuori un desiderio che segretamente coincide con i tanto deprecati
feticci. …
Voglio dire che il narcisismo di Ottieri (vero e proprio “sistema poetico”, come annunciava l’autore) -
forse già spianando le armi delle sue ragioni contro le accuse di solipsismo che non potevano non
fioccare sulle mura del suo, sbrecciato, fortino- fin dai tempi del Pensiero Perverso), proprio per quella
natura ossimorica pagata esistenzialmente al prezzo più elevato, è in grado di assorbire e nutrirsi di una
quantità impressionante di dati esterni, sociali, sociologici, che non sono però i correlativi oggettivi di
una nevrosi individuale (o viceversa, alla Sanguineti), bensì le forme concrete di una mondanità molto
o poco (e comunque, col passare degli anni, sempre meno) indulgente nei confronti del desiderio ferito
di un uomo che cerca tra loro – tra i figli, tra le donne, nello Stato – il proprio luogo, la propria
consistenza. Così, forse, vanno compresi da un lato la “mondanità” di Ottieri, espressa sempre, in bilico
tra mimetismo satira e rimorso, nei romanzi, e affiorante nelle poesie –appunto per quel dono di
sincerità psichica che affida la sua vergogna all’ipocrisia sociale – quale aspirazione a un legittimo
savoir vivere, alla bellezza fisica (delle donne) e morale (la propria) raggiunta al prezzo di una
fitzgeraldiana perdizione di sé (Mi scegliesti tu sui gradini del Posta/ a Cortina d’Ampezzo luogo
molto/mondano dove i Bellini si alternavano/ alle chiacchiere, alle chiacchiere/ i Bellini… Vi amo, p.
38); dal lato opposto, l’inesauribile politicità del suo discorso, specie quando il suo messaggio
sociologico sa fondersi in sciolte ellissi di ironia sentimentale (“Erano tempi in cui/ una buona metà
della nazione/ giudicava la proprietà un furto/ e la inseguiva senza pietà/ come io inseguivo te,
Elizabeth…”; oppure in questa che mi pare la più disillusa e franca epica della democrazia occidentale
nel dopoguerra: “Rinascevano/ i soldi e il sesso, i due grandi motori/ di una civiltà
susseguente/ all’omicidio e alle antiche/ medievali pratiche di tortura”).
LA POESIA DA’ VOCE ALLA NEVROSI E SUSSURRA I RICORDI
di Maurizio Cucchi
(«La Stampa – Tuttolibri», 22 novembre 1986)
Nel ’71, quando Ottiero Ottieri pubblicò il suo primo libro di poesia, Il pensiero perverso, ci si accorse
subito che i suoi versi avevano poco a che fare con i percorsi vari della poesia di quel periodo.
Sennonché l’impressione che il libro lasciava (e che è pienamente confermata oggi) procedendo nella
lettura, era quella di un’intensità, per intelligenza e dolorosa testimonianza, assolutamente non comune.
E quindi la comunicazione che Ottieri riusciva a stabilire con il lettore era comunque qualcosa di forte
e molto vivo, pur presentandosi quel suo ragionare, discorrere, sentenziare, piuttosto periferico rispetto
alle attese (o alle pretese, o alle abitudini) di linguaggio di un normale lettore di poesia. Quest’anno
Ottieri ha ripreso Il pensiero perverso, assieme al poemetto che seguì nel ’78 (La corda corta)
aggiungendo una nuova ampia raccolta (L’estinzione dello Stato) e versi adolescenziali in un volume
che comprende dunque Tutte le poesie, edito da Marsilio. Il racconto delle nevrosi e della depressione
continua, intrecciandosi ad altri temi (alcuni titoli: “L’ingiustizia sociale”, “Il tiro al fagiano, ovvero Le
Brigate Rosse”, “Il terzo mondo”, “Le fotomodelle”), conservandosi ironia, tensione morale,
“sapienziale saggezza” (parole della postfazione di Cesare De Michelis), in un dire spesso commosso,
sempre vivace di scatti della mente, più articolato, non più magmatico.