RECENSIONI
STORIA DEL P.S. I . NEL CENTENARIO DELLA NASCITA (1993)
PADRE PARTITO CHE PORTI NEVROSI
di Roberto Carifi
(«l’Unità», 15 novembre 1993)
Narrazione in versi, cronaca politica e memoria biografia, Storia del Psi nel centenario della sua
nascita costituisce, insieme ai poemetto Il padre che completa il volume, una specie di chiamata in
giudizio che Ottiero Ottieri notifica a posteriori a paternità e partito.
Un avviso senza troppe garanzie, esplicito e diretto, ironico e doloroso, dove la colpa sembra
perpetuarsi in quel debito, impagabile che costituisce l'essenza della nevrosi.
Perché questa è ancora, come lo è sempre stata, la vera protagonista della scrittura di Ottieri, nevrosi
coatta, depressiva, fobica, insomma quell'universo mentale sottoposto all'onnipotenza dei pensieri che
il filosofo Karl Jaspers definiva «la tregenda dell'ossessivo»
Occorre assumere come chiave di lettura Il pensiero perverso, lo stesso che dava il titolo alla prima
raccolta di Ottieri, la circolarità dell'idea che ricade su se stessa come un cane che si morde la coda,
poiché tanto il padre, quanto il partito rappresentano l'autorità trasgredita dalla circolazione del
desiderio, dal flusso di una ruminazione psichica inutile e dispendiosa, esattamente come l'eiaculazione
notturna che instaura definitivamente la relazione fra piacere e colpa («Nonostante la tavola perdevo, /
con quello spiacevole piacere»). Ha ragione Valerio Magrelli nel sottolineare che nel libro «regnano le
figure del partito e il padre. Regnano, tuttavia come l'autorità può regnare in Ottieri, ossia con
compassione, ironia, nostalgia». Aggiungiamo che il racconto di Ottieri, come in certe costruzioni
freudiane, logora il nome del-padre, produce smagliature nella stoffa apparentemente compatta della
Legge, fa irrompere sullo sfondo della crisi di partito la crisi dell'identità patema e perciò della propria.
Il declino del partito («Il mito del neo-socialismo, / come successo / del potere nel sesso, / nella
moneta, nella potenza pura, / è caduto») procede parallelamente a quello del padre («Mio padre era un
uomo duro / ma che piangeva spesso / perché era depresso») e i due poemetti insieme istituiscono il
luogo di una finalità perseguitata dalla serpe «della malinconia e mania».
Ma se mettiamo in relazione il proletariato coatto e sradicato («Pei manicomi grigi/erra il proletariato»)
e il figlio che sembra morto, prigioniero di idee fisse nel fondo del suo letto, abbiamo di fronte un
delirio tutto sommato eversivo, rivendicativo, una sfida lanciata alla storia del padre-partito che ha
finito per tradire le sue energie migliori.
A parte certe sequenze che ci asciano perlomeno per plessi, come il riferimento a Pasolini il cui «valore
era la stupenda / miniatura dell'amore / e il michelangiolesco modo della fellatio e della
masturbazione», il libro di Ottieri può anche essere letto come l'apologia di un materialismo basso,
trasversale e disgregante, alla faccia del «satrapo Asdrubale» (Craxi), «colui cui non importa/ che cosa
organizza/ ma l'organizzazione, /sui binari di ferro /delle leggi economiche imperiture».
Rispetto al potere economico, anche nella versione craxiana, il pensiero perverso obbedisce almeno a
una logica non accumulatoria, predilige la circolazione del desiderio, anche sé deformato nel sintomo,
piuttosto che quella delle merci. Il proletario e il figlio riemergono sullo sfondo di una storia familiare
che li ha traditi, figure sghembe e allucinate, portatrici di una salutare povertà che il compagno
Asdrubale, «amato dal milanese management, /meno dai poveracci», avrebbe meglio compreso se
almeno una volta avesse letto le pagine dei Manoscritti dove Marx definisce il denaro «universale
mezzana di uomini e popoli».
Il SOCIALISMO SENZ’ANIMA VAL BENE UNA SATIRA
di Walter Pedullà
(«Il Messaggero», 6 marzo 1994)
Gli operai di Ottiero Ottieri sono poveri ma hanno l’anima o psiche, come tutti gli altri uomini. Ce
l’hanno da prima che gliela trovasse il Volponi di Memoriale. Il romanzo più celebre sull’alienazione
di chi lavora in fabbrica. Hanno l’anima malata o nevrosi, non meno degli intellettuali, compresi Ottieri
e Volponi, i due narratori che sono andati più a fondo nella psiche e nella nevrosi dei proletari.
Ottieri (come confessa nei due poemi raccolti sotto il titolo Storia del P.S.I. nel centenario della nascita
(Guanda), è stato guidato “laggiù” da due noti psicoanalisti, Mulatti e Perrotti, che erano due socialisti
di sinistra , per i quali sarebbe stato fecondo il matrimonio tra marxismo e psicoanalisi. Ottieri si è
battuto perché agli operai si riconoscesse non solo classe ma anche carattere individuale.
Nelle sue pagine, anche in questi poemetti troverete in mezzo a un’elettricità nervosa che spesso dà la
scossa, alto tasso concettuale e attrezzature intellettuali sofisticate. Ottieri però è capace di immersioni
che non reggono gli scafandri, sicché spesso gli manca l’aria. Che abbia un gran respiro lo attestano i
suoi racconti in versi, dove c’è anche l’affanno (specialmente nel secondo poema, intitolato “Il padre”.
Questo poeta cerca buone ragioni in modo asfissiante.
Si può fare della poesia con la “storia del Psi nel centenario della nascita?” Ottieri l’ha fatto e gli è pure
venuta meglio di tanti saggi sul socialismo italiano dal secondo dopoguerra a oggi, poco meno dei
decenni di sua militanza, suppergiù fino a quando Craxi rese il partito anche troppo prosastico ( Voleva
organizzar sezione come Centro commerciale/…il Partito come Azienda/Punto di vendita.” Ottieri
milita contro il socialismo senz’anima e ne fa la satira. Un poeta satirico con molta autoironia.
Con l’ansia che lo tormenta da una vita, non riesce a tener ferma un attimo la prosa, la frantuma in versi
e versicoli, deve farli suonare tutti. Ottieri le suona con duro sarcasmo al suo vecchio partito, ma attenti
alla musica che intona l’epicedio per il Psi. C’è la malinconia, c’è anche la nostalgia di una grande
utopia.
Il socialismo che ora è prosa è stato poesia. Più “poetici” i socialisti arruffoni dalla Resistenza al
Centrosinistra che non i socialisti arraffoni degli anni Ottanta. La prosa va verso la poesia in un poema,
genere letterario di confine, Ottieri sconfina e “arraffa” una verità da non rimuovere. Nei confronti dei
cugini comunisti “i socialisti oggi / non hanno più complessi?” Allora è la fine “il mito del neo
socialismo/ come successo del potere nel sesso/ nella moneta, nella potenza pura/ è caduto.” E potrebbe
persino scomparire il partito di Turati, Nenni, Pertini e Lombardi. Più bello come mito il vecchio
socialismo.
Una storia “faziosa” e pietosa, sarcasmo e tristezza,il privato che si fa pubblico, la psiche che fa luce
alla ragione,le ragioni dell’irrazionale e la dissennatezza del buonsenso. Il paleo socialista piange la
fine del vecchio socialismo ma non ride della disfatta del nuovo. L’umorismo mostra i denti, il racconto
ha mordente e poi c’è rovello mentale, pungente assillo di spiegazioni. Chi ha orecchio ascolti il ritmo
delle lasse e sentirà risuonare l’”anima”, la psiche di Ottieri. Il secondo poemetto si intitola “Il padre”
e contiene due spregiudicati ritratti dei genitori. Ottieri arriva, tanto dopo Svevo, Gadda , Tozzi, ma
tiene in mano con efficace originalità il testimone della staffetta che cerca nel padre (non escluso il suo
fascismo) la colpa dell’esistenza che viviamo così di corsa.