RECENSIONI
DIARIO DEL SEDUTTORE PASSIVO (1994)
OTTIERI ALL’ASSALTO DELLA PSICHE
di Andrea Zanzotto
(«Corriere della Sera–Terza pagina», 24 marzo 1995)
Borderline. Ossessione, delirio, umorismo nero. “Diario del seduttore passivo”, l’unico poema globale
degli ultimi anni. Dove entra di tutto, dalle colf filippine alle top-model. Avvicinarsi realmente ad
Ottieri è sempre difficile, persino pericoloso. Questo autore sfugge a qualsiasi catalogazione letteraria,
sociopsicologica, filosofica; ha vissuto a fondo esperienze che vanno dall’impegno in una grande
fabbrica ad una paurosa crisi esistenziale, e che lo hanno portato a impantanarsi fino ad anni recenti in
un labirinto di alterazioni psichiche – sempre uguali e sempre diverse. Egli resta come uno scoglio a
parte nella letteratura del secondo Novecento, non solo della nostra. Il suo resistere sull’orlo di un
baratro apportava una incalzante serie di testimonianze, in romanzi, saggi, poesie, nei quali il suo
travaglio personale si presentava minuziosamente indagato ed espresso, e sempre all’interno del fluire
di generali situazioni storiche e culturali mano a mano presentatesi nel tempo. Ottieri, procedendo nel
suo cammino tra stagnazione e scontri col limite, tra “orribile raziocinare” e divagare all’orlo del nulla,
riusciva a dire anche ciò che per natura si negava ad esser detto, come riuscì a ben pochi autori che si
mossero in questo terreno.
Esce ora di Ottieri un nuovo libro di versi, Diario del seduttore passivo (Giunti) che dà la più adatta
occasione anche ad un rapido ripensamento dell’insieme del suo lavoro. E basterà di lui ricordare, dopo
le opere sulla fabbrica (Tempi stretti, Donnarumma all’assalto) il grande saggio confessionale
L’irrealtà quotidiana (1966) che è dotato di una carica esplosiva che non ha perso quasi nulla
nemmeno oggi. In quel libro di meditazioni e dati estremi, ricadenti in disintegrazioni nell’atto stesso di
porsi, viene anche a compiersi, quasi malgrado l’autore, una forma di straordinaria sperimentazione
letteraria, al di fuori di qualsiasi gruppo. Questo si continua nei libri successivi, che documentano i
tortuosi percorsi della malattia “all’interno” di vari metodi di cura, affrontati combattuti o assunti, tra
metodologie psicoanalitiche, soggiorni in “campi di concentrazione” (cui s’intitola un romanzo che
narra gli orrori dolciastri delle cliniche di lusso italiane e straniere) e labili parentesi di remissione.
Ottieri arriva alla poesia “in righe mozze” con Il pensiero perverso (1971), in cui riesce a spiegare in
ritmi roventi e insieme piatti, decalati in se stessi a raso del prosastico, nodi gordiani e incistazioni,
mancamenti di “logica” e ricattature di una tetra e mordente razionalità. Da qualche anno, dopo tante
altre spossanti vicissitudini di una “cura interminabile” e le escursioni, anche di scrittura, entro i miti di
una mondanità giocati tra sarcasmo e necessitata partecipazione, Ottieri, entrando in una felice svolta
del suo modo di essere, che sembra decisiva, ha optato ancora per un’aperta forma di poesia. Ma cos’è
veramente questa sua nuova impresa, che parte dallo scintillante L’infermiera di Pisa (1991), attraverso
Il palazzo e il pazzo (1993) ed altri simili lavori fino a questo appena apparso? Per il malato ma sempre
pugnace Ottieri bisogna lasciar perdere qualunque diagnosi e qualunque pharmacon verbale o chimico
o comportamentale. Tutto gli passa attraverso, anzi fa corpo col male stesso e lo alimenta,
concedendone tuttavia una minima “dislocazione” attraverso la scrittura, l’ostinazione infinita della
scrittura. Ottieri, non convinto affatto che la vita sia un valore, sente tuttavia una “pulsione verso la
vita”, verso qualcosa che si fantasmatizza come “vita”, tale da misurarsi sempre con qualsiasi ostacolo
si opponga. Egli chiamerà in causa l’insaziabilità sessuale o quella droga di vecchissimo stampo che è
l’alcol o la “divinità” dello snobismo (particolare oggetto di odio-amore in relazione al suo status di
appartenente all’aristocrazia). È una situazione che gli consente di ricalcare con infinito distacco, i
canoni quasi di un decadente del secolo scorso, virati in un velenoso acrilico lungo i rituali
dell’assunzione di droghe mediche e colate immani di silenzi e “parole salvatrici”. Ma il vizio (o la
virtù?) primo e inestirpabile di Ottieri è, appunto, quello di ostinarsi. A che? Non è forse l’ossessione la
più impervia delle ostinazioni, e la sua non è talmente “pura” da risultare inaccessibile ad ogni ricerca
di causa? Ma non è forse ostinazione pura la vita stessa (o “vita” come fantasma-ipotesi), al di là di
ogni causa, o causa sui? In questo “stare contro”, “ob”, certamente contro le mille incarnazioni della
morte psichica, ma forse anche contro il suo opposto (la normalità-guarigione-responsabilità), si era
prodotta per Ottieri la glaciazione medusea degli anni giovani inesistenti, o della paralizzata maturità.
Ma fortunatamente a un certo punto anche per Ottieri, come avvenne (diversamente) per Montale, si
rovescia il tappeto, sia per virtù di nuovi farmaci e nuovi metodi di usarli, sia per saturazione e
rivomitatura delle molteplici analisi o dei verdissimi campi concentrazionari, o in certa misura perché
“col tempo” non può non arrivare “il caro tempo senil”, sempre più vertiginosamente scorrevole, con le
sue iridescenze di fogna, con le sue rapide sempre più vicine. In esse ciò che mai si risolse alla fin fine
può anche dissolversi, mentre si presenta se non altro un contraddittorio senso di “libertà da” o di
precarietà assoluta. Con L’Infermiera di Pisa parte un allegretto al vetriolo, trascinando con sé come in
una marcetta vagamente militare, nelle sue sfaccettate e glissanti situazioni ritmiche, i frammenti in cui
si è spezzata la statica crudeltà delle precedenti esperienze dell’autore, intrecciandosi all’insensatezza
particolarmente losca in cui è sfociata la storia del nostro paese nell’ultimo decennio. Tutti i libri
successivi formano delle tappe di un poème interrompu che proprio nelle varie sezioni di questo Diario
del seduttore passivo (una variante musicale di temi kierkegaardiani, in forma di “scherzo”) trova la
sua manifestazione più vocazionale. Il demonio-legione si è sfatto in una legione di folletti, specilli,
coriandoli di fatti e di nomi o anche cognomi di vari numi psichiatrici in voga, tra DSM III o magari IV
ecc. e ricordi di costruzioni psicoanaltiche, belle come castelli pinnacolati offerti da formidabili
disegnatori di fumetti. Ottieri riesce a darci, in versi liberissimi un mini-epos che occhieggia a
Palazzeschi ed insieme al gusto surrealista appunto per i nomi, i cognomi (dei medici) e gli
accostamenti o le “apparizioni” più impensate, da Suzanne Urban col suo inferno esplorato da
Binswanger, a Giovanni Giudici, poeta amico. E se è vero che un continuo persiflage accompagna i
curanti, che, in qualche modo, pur hanno portato Ottieri abbastanza fuori dal pelago, traspare
un’affettuosa riconoscenza per la loro ostinazione-ossessione sanatrice. Così, per altro, si esprime il
quasi onnipotente “angelo supervisore”: “È vera l’una cosa/ e il suo contrario./ Sto scrivendo/ il
Nuovissimo Manuale di Psichiatria./ In esso è detto/ che coloro che vanno/ da Giancarlo,/ divengon
borderline/ da Giovanni Battista/ depressi,/ da Luigi, bramosi./ Il malato è mimetico,/ ha il male/ che il
terapeuta vuole./ No. È il terapeuta/ che cura la malattia/ che il malato vuole./ Tu della tua potenza su
altri/ hai fastidio./ Tu vuoi sentirti l’ultimo/ (e ti senti il primo).
Quanto al “valore poetico” del libro e dei recenti altri appare una maestria sempre più evidente e non
certo “ricercata”, ma quasi “regalata” in cui si avverte, come nel tintinnio di una pianola meccanica
deliziosa-delirante, quello di una froelische Wissenschaft, di un gai saber, di una gaia scienza che non
sa veramente bene che cosa sappia, ma che si accontenta di essere quello che è: forse una suprema
parodia di ogni possibile, e mai verificabile gaia scienza, sconfinante a spallucce nell’umorismo nero.
Ci si para davanti una vera enciclopedia di situazioni umane ben dilagante, oltre il “campo di cura”, in
un’etica (e storiografia) concernenti tutti, anche le colf più o meno filippine e le top-model. Viene
smitragliata una ricognizione che non vorrebbe escludere nulla, dal matto di spirito alla sentenza quasi
oracolare, all’appuntito fatterello giornalistico, fino alle più distrattive evasività; ma tutto, a differenza
dei blob soliti, è tenuto insieme da una mai stanca tessitura metrico-ritmica inglobante, che si fa un
trampolino financo della trasandatezza. Il gioco resta pesante, sotto sotto, per i numerosissimi
riferimenti culturali oppure molto privati spesso appena sfiorati o allusi – che possono sfuggire al
lettore, ma l’attuale modus comporta anche questo, vi si autoderide. E se sono abbastanza radi i giochi
di parole e le impennate del significante, sembra quasi che ciò avvenga per un augurato dilavamento, o
una scomparsa dell’inconscio; ma si avvertono continuamente le spinte delle consonanze-assonanze,
della rima ed eventuale rima interna, mentre le lasse, gli “strofismi”, si rincorrono quasi accavallandosi,
come nella deriva di un’interminabile e scombinata striscia di cardio o encefalo-gramma. E continua è
poi la trasformazione del punto di vista morfosintattico, dell’io in tu o in egli, né la scioltezza
impedisce l’affiorare di figure stracariche come il poliptoto: “Mi offesi: Cara come osi porre/ questa
questione a uno/ che ha questionato tutta la vita/ su questa questione?”. Oppure ecco flash come
“Interpretazione e definizione/ consolano, in mancanza della guarigione”, che ben riassumono i
frequenti problemi del popolo in analisi. O, bello come il frammento di un lirico nippo-greco “il grande
amore a tutti gli amori/ come una lepre attraversa la strada”. Questo, dell’Ottieri più recente, è forse
l’unico poema globale degli attuali anni, germogliato quasi selvaticamente e capace di continuare anche
nel simulare di esaurirsi. Diario di un seduttore passivo: quanti i paradossi e le indicibilità di questa espressione ...
CANTARE IL MALE DELL’ANIMA
di Giuseppe Pedriali
(“Il libro della settimana”, «Italia Oggi », 8 aprile 1995)
Pubblicato da Giunti il nuovo libro di Ottieri nella bella ed elegante collana “Mercurio” diretta da Enzo Siciliano.
Sta avendo uno straordinario successo di pubblico il libro di Ottiero Ottieri Diario del seduttore
passivo (Giunti, 155 pagine, 20.000 lire). Straordinario non tanto per il nome (Ottieri è autore di
successo fin dai tempi di Donnarumma all’assalto, del 1959), ma per il fatto che i cinque capitoli di
questo romanzo sono in versi: cinque poemetti intitolati Monica Dreyfus, Lo psicoterapeuta perfetto
malgrado lui, Sotto il martello della rivalità e autostima. Le filippine, Il seduttore passivo, e legati
saldamente tra loro da un autobiografismo facilmente e volutamente riconoscibile. Quasi un diario,
insomma, ma arricchito da tanti e tali coinvolgimenti e modifiche di tono che dopo un poco anche il
lettore non avvezzo a leggere poesia si rende conto soltanto di trovarsi dentro a una storia affascinante
e drammatica, ilare e violenta, a volte cantata a volte urlata. Di sicuro Ottiero Ottieri è rimasto il
narratore che conosciamo, con in più l’urgenza di usare gli strumenti della poesia per una maggiore
incisività, per eliminare quei materiali di sovrastruttura e di imballaggio che anche i migliori romanzi e
racconti necessariamente posseggono.
Mescolando comicità e dolore, Ottieri racconta le quotidiane vicende di un uomo che lotta contro il
mondo intero che vuole salvarlo dall’alcolismo nel quale si è rifugiato, probabilmente per salvarsi dal
mondo intero. L’intelligenza (nonostante il male) del protagonista sovrasta quella dei diversi consiglieri
e dei medici che incontra nelle cliniche specializzare e lussuose, in Svizzera o in Italia. Ne sortiscono
situazioni delle quali Ottieri capta anche l’aspetto grottesco o assurdo: “Professor Cassano,/ ho toccato
con mano/ che l’alcool/ è la rovina/ di tutto./ Perché non mi ha creduto prima?/ Credevo/ che lei fosse
un igienista,/ un vegetariano./ Però ascolti: l’alcolista è tanto,/ in quanto, constatata la rovina,/
continua./ Altrimenti non sarebbe un alcolista…” Lo fanno correre da Milano a Pisa, da Padova a
Losanna, da una clinica che somiglia a un grand hotel a un’altra che ricorda discipline da lager. Ma il
racconto non resta ingabbiato nell’universo concentrazionario della malattia; il protagonista riesce a
innamorarsi (anche se deve dividere la donna con l’alcol, questo amante egoista e privilegiato che
impedisce un totale appagamento dei sensi) e osservare la vita e il mondo, e perfino fare dei bilanci non
soltanto suoi (So perché, o artista italiano,/ sei stato per 50 anni marxista,/ per di più freudiano./ E dillo
una buona volta./ Cessa di farti mangiare/ gli spaghetti in testa./ Tu hai paura/ d’incutere un’ombra di
paura,/ hai paura della tua ragione./ Hai paura della tua convinzione…”).
La presenza del poeta nella società italiana di questi anni è rivelata dall’efficace modernità del
linguaggio e da altri particolari. I nomi di certi personaggi emergono dai versi rafforzandone certi
significati satirici o documentari: ecco dunque Umberto Bossi, Carlo De Benedetti, Achille Occhetto…
Sullo sfondo emergono, volutamente velati o crudelmente illuminati, gli ambienti delle patrie lettere
(“Non si permette nemmeno l’invidia/ per chi vincendo il Premio Strega/ vi trova un’attrice”) o dei riti
mondani dei quali il protagonista assorbe i tic e il gergo. Dopo L’Infermiera di Pisa e Il palazzo e il
pazzo, con Diario del seduttore passivo, Ottiero Ottieri prosegue dunque l’autrobiografia in versi, ma
continua soprattutto un personalissimo discorso poetico iniziato nel 1971 con Il pensiero perverso.
Allora come oggi, ironia e autoironia graffiano a sangue: “Filippo chiese a un’infermiera/ dov’era il bar
/delle modelle a Sarteano./ È bene che disgregazione e ristoro del sé/ non si arrovescino sul testo,/
senza canto”.