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RECENSIONI

UNA TRAGEDIA MILANESE (1998)

METTE PER ISCRITTO IL VUOTO CHE CI DOMINA – “UNA TRAGEDIA MILANESE” L’ULTIMO ROMANZO DELLO SCRITTORE INDAGA IL BUIO MORALE DI UNA VITA PRIVA DI IDEALI
di Ermanno Paccagnini
(«Il Sole-24 ore», 29 marzo 1998)

Licenziato due anni or sono l’opus magnum, ossia le 500 pagine del Poema osceno, Ottieri torna alla
frammentarietà e alla trasversalità stilistica, destreggiandosi tra attraversamento sarcastico-onirico della
realtà e forte urgenza dell’Io. Si riscinde insomma in filoni l’istanza riassuntivamente totalizzante nel
Poema. Ed ecco allora lo sguardo su un milieu sociale fortemente semplificato e tipicizzato, in modo da
maggiormente marcare la rappresentazione: come interesse insomma per l’altro da sé, per l’ambiente
esterno al proprio Io e per una istanza storica e addirittura cronachistica come in questa Tragedia
milanese che, per più aspetti, fa correre il pensiero di Divini mondani, però passati al crogiuolo del
Poema. Oppure, ed è altro aspetto, ecco l’Io introspettivo e interrogativo che si aggira nelle proprie
nevrosi, ma pure nelle riflessioni su momenti o aspetti che per una qualche ragione gli implodono:
come nel De morte dell’aprile 1997, sin dal titolo ricollegantesi al Poema osceno (ne era protagonista
lo scrittore Pietro Muojo) e cadenzato sul dialogo ossessivo con l’“inguaribile male”, dato che “la vita
si celebra sulle sponde della morte”.
Il tutto però non si traduce in semplice bipolarizzazione espressiva, perché anzi in tal senso la scrittura
di Ottieri tende piuttosto a muoversi liberamente in varie soluzioni, ora poematiche e ora da dialogo
pseudofilosofico, ora romanzesche e ora invece di “saggio-romanzo”. Come appunto col De morte,
suddiviso tra una prima parte più riflessiva su morte, peccato, religione, in una tensione tra
accostamento e rimozione di un più deciso affondamento nei problemi della metafisica, e una seconda
con disposizione più propriamente narrativa e dialogico-narrativa. E come con Una tragedia milanese,
che invece opta per una soluzione più ampiamente narrativa, anche se depositata in una struttura
marcatamente dialogica che fa piuttosto pensare a un succedersi di dialoghi inframmezzati da
didascalie: su personaggi, ambienti, situazioni; in cui insomma “tragedia” non viene a indicare non solo
tono e contenuto, ma pure un modo espressivo. Didascalie, va aggiunto, dalla doppia valenza: perché se
talora in esse vale lo sguardo esterno dell’autore, per la maggior parte risultano poi osmotiche ai
personaggi, nel senso di didascalie stilate dall’interno della realtà descritta. Che è la realtà della totale
assenza di senso, vissuta inconsciamente: di un parlare continuo che si traduce in insensato flatus vocis:
in sonorità espresse senza la piena coscienza del loro contenuto, e anzi spesso costruite sull’universo
delle frasi fatte, di provenienza non importa quale (cito a caso da tre diverse tipologie “culturali”: “Me
ne vado laggiù al buio, oltre la siepe”; “Nella malinconia è compresa l’angoscia, quella che somiglia al
marchio rovente di Rovagnati Granbiscotto”; “Senta a destra uno squillo di tromba”; mentre il “come
moderni colombi dal disio chiamati” è da didascalia ironica dell’autore).
La tragedia milanese è infatti un universo di vuoto. Vuotezza di idee e di senso, di atti (anche nel sesso
sublimato o sono eiaculatori precoci) e di parole, peranco anche mal conosciute, ove la maggior
curiosità, stante il segreto della pronuncia, finisce per essere costituita da conversazioni su telefonini.
Tragedia milanese però solo per ambientazione, per via che al centro (in clinica, nella vacanziera villa
in Sardegna o nella “buia e grande casa”) sta Antonio, famoso chirurgo estetico un po’ (tanto)
rincoglionito quanto i personaggi che gli ronzano attorno (play-boy disfatti e logorroici uomini
d’affari), colto in fin di vita dalla coscienza, e dal terrore, di tale vuoto e del suo “buio morale”. La
conseguenza è un universo rappresentato con toni fortemente irritanti e scostanti: perché ciò in cui il
lettore si trova immerso è un universo di parole senza soluzione di continuità su cui i personaggimarionette
fortemente caricati, volutamente caricaturizzati, si appoggiano insensatamente. E da questo
discende pure la stessa struttura del racconto, necessitato a pigiare sul linguaggio e la pronuncia dalla
assenza di interiorità e di psicologie dei protagonisti. Tanto evanescenti e impalpabili, da non saper
cogliere neppure il passare loro accanto di una realtà concreta come la morte.


IL ROMANZO
di Angelo Guglielmi
(«l’Espresso , 14 maggio 1998»)

Milano da odiare Ottiero Ottieri denuncia il libro (e le sue motivazioni) fin dal titolo: “Una tragedia
milanese”. Dunque c’è Milano, “una città concava piena di edifici grigi, priva di paesaggio, di fiume, di
idee”, e c’è la tragedia, quel qualcosa di sinistro che la città esibisce e in cui si esalta. Ed è in questo
autocompiacimento senza rimorso che si accende la furia dell’autore. Milano è una città che possiede
uno straordinario potenziale di energie tuttavia tutto speso a favore della sua degradazione, investito in
irresponsabilità civile e telefonini, in spreco e ottusità morale, ignavia e indifferenza, sesso senza amore
e chiacchiere vacue. Su questa invettiva (che tale è nel cuore di Ottieri) l’autore, se pure in forma di
scrittura narrativa, monta una pièce: mette in scena una serie di quadri in cui rappresenta quella
tragedia. Infatti “Una tragedia milanese” non è propriamente un romanzo: è piuttosto un palcoscenico
su cui alcuni attori, convenzionalmente caratterizzati, si esibiscono in ruoli rigorosamente assegnati.
C’è il grande chirurgo estetico, impegnato a creare bellezze inesistenti e al suo fianco un’amante
diciottenne e una moglie assente; e ci sono un paio di play boy con un corteo di fidanzate e amanti che
intanto possono coesistere (e interscambiarsi) in quanto incapaci di vivere una qualsiasi identità. Tra i
personaggi in scena si sviluppa un dialogo fitto, tanto più roboante quanto più vuoto, che ogni volta si
avventura in riflessioni altre tanto più si fa chiacchiericcio.
Ma ogni pièce vuole una conclusione. E Ottieri non trova di meglio che far impazzire il chirurgo che
nella follia trova la saggezza, trova lo sdegno contro i tanti Pacini Battaglia assunti a simbolo della
città, trova la forza di ribellarsi e urlare: “Che cosa è la vita se ha come unico scopo arricchire e per
arricchire imbrogliare? È più facile capire il cervello delle iene e dei leoni nella savana che queste
scatole nere, false, questi imbrogli continui”.
Non vi è dubbio che un’intensa passione morale attraversa questo libro. Una passione che l’autore ci
chiama a condividere. E forse più che una passione si tratta di una nevrosi (di un disagio incontenibile)
che si accende in Ottieri di fronte alla scena di degradazione che ha di fronte e che infuoca e brucia le
parole (di quel disagio) sottraendole al pericolo dell’espressione retorica e, per contro, conservandole a
una asciutta velenosità. Forse qui e lì ci augureremmo che il fuoco fosse più distruttivo: ma comunque
alte sono le fiamme che scottano.