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RECENSIONI

CERY (1999)

SULLE VETTE DELLA MONTAGNA INCANTATA. LA MALATTIA COME LIBERTÀ.
L’ULTIMO ROMANZO DI OTTIERO OTTIERI
di Enzo Siciliano
(«la Repubblica–Cultura», 25 agosto 1999)

La storia è ambientata in una clinica svizzera per alcolisti nevrotici.
Il luogo si chiama “Cery” ed è il titolo del libro che un po’ rimanda a certe atmosfere di Mann.
Ogni malato ha la propria “montagna incantata”. Molte “montagne incantate” si somigliano, ma ogni
malato è malato a modo suo. Ottiero Ottieri della malattia ha fatto il tema della propria esistenza di
scrittore: ma ogni suo libro di quel tema non è una replica, quanto una interrogazione che ripropone il
perché una malattia, o quella malattia, possa vivere sulla scena del mondo.
La “montagna incantata” di cui Ottieri ci parla oggi è una clinica svizzera per alcolisti nevrotici. Fra
quelle quinte il malato –un protagonista di romanzo che dice “io”– lotta per affermare la propria
indipendenza sia dal male sia dagli stessi medici che lo curano. Essere malato diventa una
rivendicazione di libertà (di indifferenza?) verso la terapia che dovrebbe curare e guarire.
In Cery (Longanesi, pagg. 150, Lire 22.000) –titolo del libro è appunto il luogo dove sorge la clinica in
questione– il malato, stregato da un alcolismo irrefrenabile, è uno scrittore che, contro ogni strategia di
cura, mette in atto (infantilmente?) una controstrategia di pervicace rivolta.
Mille sotterfugi per accaparrarsi un po’ di whisky, altrettanti stratagemmi per soddisfare un infiammato
erotismo che si risolve in una frenetica verbalizzazione scritta.
“In venti anni, o trenta, attraverso mille cocktail, cene, dopocena, esibizioni e appostamenti
pazientissimi in località famose di mare e montagna, con fatica, sopportazione infinita, attese snervanti
per rimanere ultimo, chiudere ogni ruscelletto d’occasioni nella notte, ho cercato di accostare la
bellezza, di conquistare ogni notte una bella, una bellissima, una sventola. Non ci riuscii mai. Ci davo
dentro ma ci stavo di lato. Non ero mondano, né snob. Frequentavo i luoghi dove più frequenti erano le
belle ed erano per antonomasia i luoghi della mondanità in cui abbondavano i principi e i baroni. Non
fui “mondano”, mai. Sono stato sempre un intellettuale, la mia pazzia fu sempre veicolata sul sesso.
L’alcol mi sosteneva nella faticosissima impresa di Tantalo. Un frutto non lo colsi mai, in quel paradiso
infernale dove avrei dovuto divertirmi. Non mi divertii mai, sempre ossessionato e teso. Non ero un
mondano, ero un semplice maniaco”.
Questa lunga lassa va letta come la proiezione fantastica della forma di una malattia che coinvolge
procédées sociali, mondani, e che divora un individuo mosso a far di tutto per salvare nella propria
mente la distanza naturale dall’oggetto che ogni atto conoscitivo comporta.
Lo scrittore, il protagonista di Cery, sta al mondo per conoscerlo, per sperimentarne il peso, la
consistenza attraverso la vita, la propria anzitutto. Dice: “Scrivo unicamente la realtà, né di ricerca, né
di best seller”.
Niente può esser detto più esplicitamente: “Scrivo unicamente realtà”.
Bene. Questo scrivere realtà (nel romanzo, le lettere di corteggiamento amoroso ed erotico) mostra che
la malattia insorge proprio perché appare impossibile scrivere se non si vive in modo pieno ciò che si
vuole scrivere. Ma questo produce poi un paradosso. La narrazione procede secondo una propria
consecutio. E la vita, come procede? Se si scrive, rispetto alla vita si vive sempre “di lato”. Questa
condizione ammala l’anima, fosse pure lo scrivere, il raccontare una salvezza.
Confondersi con l’esistente, renderlo assoluto, pensare che le applicazioni tecniche lo esauriscano per
intero, svuota l’individuo di se stesso, ha sostenuto Heidegger. L’essere invece è “laggiù”; per sfuggire
a una pania simile bisogna spiare quella lontananza, diventarne consapevoli. Abitare una “montagna
incantata”, una clinica, può aiutare: ma anche questo non esaurisce un bel niente.
È in atto la cura? “Le iniezioni venivano annullate dalle idee, dalle visioni del parterre, da donne
magnifiche che popolavano l’Hotel, da principi causeur e charmeur”. Ma, “ogni immaginazione era un
colpo di martello sul cervello, cielo grigio e buio. Ad ogni colpo saltavo, rimbalzavo e non concepivo
che il martello si affievolisse o cessasse. Come un saltimbanco facevo salti sul lenzuolo bianco, teso,
deserto. Le molle scattavano a ripetizione infinita”. Conoscere capire, capire conoscere: è l’ossessione
della narrativa di Ottieri, di tutta la sua letteratura. Le sue radici, robuste, sono in quella magnifica
stagione del nostro romanzo in cui le ragioni dello stile si sposarono al bisogno prepotente di una
ragione che non fosse più “d’arte” e autoreferenziale, ma storica e conoscitiva, una fede che investisse
di sé una società, fosse pure una fede nichilista, ma dove un concetto della vita agisse in modo
dirompente, assoluto.
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Questo vollero, ad esempio, Moravia o Gadda. Lo vollero anche poeti: Montale o Penna, e il caro, vivo
Attilio Bertolucci. Di quella stagione Ottieri risuscita di libro in libro il lucido volere. Non ci viene a
dire, per esempio, che la storia è un incubo da cui vorrebbe essere libero. Ci mette sotto gli occhi altra
lucidità: la propria disperazione, i crudo della propria mania. “La mattina mi svegliavo presto in preda
ad un orror panico. Ero ancora dentro ad un lenzuolo che dava sul grigio e ad una cotenna sporca.
Chiamavo, gridando, muto, atterrito, mio padre lontano, lui che per primo si atterrò davanti al sorgere
tardivo e al dilagare maturo e franco del mio vizio. Non capiva: non capiva nulla dei miei meandri.
Non avevo altro pensiero che correre al bar”.
La viziosa solitudine in cui si sviluppa un così peculiare scrutinio di se stesso – di se stesso scrittore
intellettuale – cerca parole che siano realtà. Il lettore di Cery può chiedersi di quanti apporti
autobiografici si nutra il racconto. Non ci sono finzioni: il libro può essere letto anche come una
confessione a pelle, in presa diretta. Sarebbe sbagliato, però, leggerlo solo per questo verso.
Non c’è fiction senza invenzione, “senza svolte, risvolti e colpi di scena”. Eppure, anche qui, come
sempre, Ottieri non riesce a sottrarsi, pur scrivendo realtà, “alla caccia infuriata di quella felicità dello
scrivere, e dello stile, dietro cui salta agli occhi la felicità del testo”.
Un’accesa fantasia critica che lavora sul lessico, nelle pieghe della sintassi, che incide talvolta su eventi
di cronaca, anche di cronaca politica, e imbeve di sarcasmo gerghi e volti brucianti di concretezza,
esprime naturalmente la possibilità di una distanza, di un altrove, che con forza spietata ogni narratore
chiede a se stesso. L’esperienza sulla “montagna incantata” è dunque fallimentare dal punto di vista
clinico, il malato torna a casa pari pari come quando ne era uscito, la depressione, la malattia
dell’anima ha come sole guarigione la consapevolezza di sé. Per lo scrittore, quell’esperienza è una
rinnovata riprova che il guadagno della parola, il guadagno espressivo e conoscitivo dello stile, costa
un prezzo illimitato di pena. Scrivere è una coazione a vivere. Ogni scrittore ha da salire sulla propria
“montagna”: ogni scrittore è malato a modo suo. Ciascuno, cioè, non può che vivere la propria felicità e
la propria infelicità, se chiede a se stesso, e non può far diverso, di essere. Dunque, che cosa passa di
storia o di oggettività residuale in Cery?
C’è nel libro una scena molto significativa, raccontata con l’estro insidioso, con l’occhiatura ironica
che è di Ottieri fin da Donnarumma all’assalto. È il ricordo di una convention letteraria, una
premiazione. Parlano bionde e ossute signore che fingono d’aver letto libri, critici privi di incertezze,
pance competenti più che intelligenze competenti, eccetera.
Ricopio alcune battute di questa scena: “Ma lei non è matto” disse Aurora. “Non sono matto perché
sono alcolizzato. Curo la follia con l’alcol. È a nasconderlo che mi vergogno”. “La questione
meridionale tu la nomini, non la consideri letterariamente impura” disse il critico. “Non è impura
perché è vera”. “La verità non esiste” commentò il solito critico letterario. “Esiste, esiste” feci, bevendo
un bicchiere tumultuoso. Ahi! Pensai. Questo è il consueto delirio iperfisico. Avevano finito di cenare.
Avrei dovuto muovermi, incontrare letterati, giovinetti, promesse nevrotiche o vecchi pazzi falliti. Ma
io avevo il sedere incollato alla sedia, per paura. Mi toccava sopportare il segreto della disperazione
privata in luogo pubblico”.
Di una società che vive in soggezione delle proprie parole, che trasforma i concetti in smerciabili
luoghi comuni, che vegeta e non vive, incapace persino di spiumacciare i cuscini su cui si addormenta
la sera, Ottieri lascia parlare l’unica verità possibile, la fatua realtà dell’apparire, ne rivela il trucco, ne
isola l’eco di demenza.
Un moralista? Anche. In più di un’occasione, scrivendo di lui, della sua poesia, ho fatto ricorso a
Parini, all’estro satirico dell’autore del Giorno. È della nostra “Notte” il buio di storia dove viviamo,
che Ottieri seziona la sinistra, obliqua comicità: la oggettiva, la stampa indelebile nelle sue parole.


OTTIERI PROVOCA I RICCHI DA UNA CLINICA SVIZZERA
di Giuseppe Bonura
(«L’Avvenire, 11 settembre 1999»)

Narrativa italiana – “Cery”, sberleffo alla società pasciuta. Di recente si è sviluppata una polemica
interessante. Come mai in Italia non c’è una collana di classici come la “Pléiade” francese? Risposta:
perché l’Italia non ha la tradizione della Francia. Parigi è sempre stata il centro del mondo, in tutti i
sensi. In Italia ci sono mille centri, spesso in conflitto tra loro, e così una collana omogenea come la
“Pléiade” non si può fare. Da noi vige l’anarchia delle scelte individuali, e a nostro avviso è un bene
per la creatività. Ma il nostro discorso mirava ad altro. Mentre il secolo sta per andarsene, è ovvio che
si tenti di sistemarci dentro i classici letterari: maggiori, medi e minori. Qualcuno lamenta, per
esempio, che Volponi non abbia ancora un posto tra i classici del Novecento. È una lamentela
legittima. Ma legittima ci sembra anche una nostra privata lamentela, che riguarda Ottiero Ottieri.
Come mai non c’è Ottieri in qualche collana di classici novecenteschi? Mistero.
Forse è lo stesso Ottieri che non vuole diventare un classico. Forse gli sa di passato, di ingessato, di
marmoreo.
Prendiamo il suo recente, bellissimo romanzo: Cery. Nella bibliografia della terza di copertina manca il
titolo del suo romanzo più impressionante: Campo di concentrazione. È una scelta voluta o una
distrazione? Oppure un colpo masochistico? Propendiamo per questa ipotesi. Ottieri è uno scrittore che
non si cura dei posteri, anche se i posteri (fra cent’anni) lo leggeranno per capire il presente. Ottieri è
un masochista imperterrito. Ed è tante altre cose. È uno scrittore che pensa. È un pensatore che scrive.
Da tanto tempo combatte con l’ansia quotidiana, la nevrosi, l’angoscia, il dolore, la sofferenza.
Intendiamoci, il suo copro deve essere una macchina potente e perfetta se resiste a tutte le batoste che
la psiche gli ha inflitto. Il personaggio che abita tutti i suoi romanzi è un giovin-vecchio signore
moderno, amante dell’alcol e della bellezza muliebre, desideroso di conversazioni alate ma anche
capace di penetranti e urticanti giudizi sulla società capitalistica, alla quale del resto egli appartiene.
Questo giovin-vecchio signore moderno ha una moglie che ama, figli e amicizie, ma preferisce passare
quasi tutto il suo tempo in lussuose cliniche per alcolisti, per disintossicarsi e innamorarsi. La
dipsomania (avidità di bere alcol) è il tema fondamentale dei romanzi di Ottieri. Ma sarebbe un tema
banale se intorno non si aggirassero altri temi. (In una recensione prolissa e opaca di Enzo Siciliano
non ne sono stati enumerati nemmeno uno). L’alcolista che parla nei romanzi di Ottieri è un uomo che
vuole essere la cattiva coscienza della società pasciuta e “sana”. Ma vuole esserlo in modo tragicomico.
Sta qui la singolarità della prosa di Ottieri. Il dolore indicibile si tramuta in euforia della scrittura e dei
comportamenti, in un mozartiano sberleffo.
In Cery, in un’asettica e organizzatissima clinica svizzera, il protagonista è in cura per “non”
disintossicarsi. È una sorta di Charlot ebbro che cerca di sfuggire a una normalità odiosa e oppressiva.
Scrive lettere d’amore alle sue vicine di camera, lettere che peraltro non spedisce, e tanto meno fa
recapitare. Ogni tanto viaggia, in città o nel passato, sempre a scopo terapeutico. La tragicommedia del
protagonista è che sa che ogni tentativo di guarigione è inutile. Ci saranno soltanto tregue, intervalli
brevissimi di serenità. Poi si ricade nell’abisso. Ma intanto, con l’esibizione “naturale” della sua
sofferenza, mette in crisi i cosiddetti sani, che sopportano la sofferenza altrui solo se questi sono
rassegnati e non ribelli. Una volta ci è capitato di dire che Ottieri è una sorta di Céline dei ricchi, e qui
lo ripetiamo. La sua prosa è fatta di sincopi, che divertono e fanno angosciosamente pensare.