RECENSIONI
UNA IRATA SENSAZIONE DI PEGGIORAMENTO (2002)
UN CASO CLINICO CHE FA TREMARE
di Giuliano Gramigna
(«Corriere della Sera», 23 giugno 2002)
Come la talpa proverbiale (marxiana, shakespeariana?), Ottiero Ottieri è impegnato ostinatamente a
scavare nel suo cumulo di materia psichica: eccone il prodotto più recente, Una irata sensazione di
peggioramento, romanzo pubblicato da Guanda (184 pagine, euro 13,50). In effetti, “scavare” è il
verbo meno adatto a definire la qualità del suo lavoro narrativo, gli effetti sul lettore. Ottieri è il nostro
scrittore contemporaneo che con più perspicacia, anche teorica, e novità abbia maneggiato
letterariamente il tema della nevrosi, riproducendo nel cursus narrativo la qualità autentica
dell’inconscio, la fluidità. Il nevrotico, mi è capitato di dire, è greve, lamentoso, monotono; la nevrosi,
o se si vuole l’inconscio in atto, fluida, inventiva, mai identica a se stessa.
Così, anche questa Irata sensazione di peggioramento, come altri libri di Ottieri, da Contessa, a La
psicoterapeuta bellissima, a Cery è il referto di un’avventura analitica, ma trasforma la propria
ripetitività fattuale, clinica nell’invenzione di un ritmo strutturale, insomma letterario. Si licet, se Freud
ha preso in prestito dalla letteratura la forma romanzesca del caso, Ottieri –il paragone non disgrada per
eccesso– assume necessariamente il “caso clinico” come macrocellula del proprio narrare.
“Io sono molto più famoso come nevrotico che come letterato” annota Ottieri nel suo libro,
naturalmente prendendosi gioco del lettore prima che di sé: verità apparente che maschera o svela la
realtà sostanziale, il rapporto particolare fra materia autobiografica e storia narrata: “io sono quel lui
che si stravolge e soffre nelle pagine” – e che qui sarà la “terza persona” Pietro Mura, scrittore in
pendolarismo terapeutico fra Milano e Torino, per via di una depressione, o forse paranoia, speziata da
un dongiovannismo fantastico e frenetico, che lo spinge verso l’assistenza dell’analista, Caterina, e la
fidanzata di costui, Oliva, seducente poetessa (in erba); ma meglio sarebbe dire verso tutte le donne di
tv e pubblicità.
Non conta fare un’analisi clinica circostanziata del caso Mura, piuttosto proiettare il caso sullo schermo
del romanzo (Ottieri richiama a sé e il lettore alla romanzocentrica disciplina” quando la storia
minaccia di sfuggirgli di mano). “Ma come narrare fatti, azioni per di più con dialoghi brillantissimi,
sorprendenti, esplosivi – per noi che siamo così attaccati alle Idee?” Il narratore si duplica, anzi triplica,
in se stesso, in Pietro Mura e in chi deve ascoltare, seguire sotto la macchina romanzesca il flusso
dell’inconscio. Perché, malgrado i felici intrecci fra fasi patologiche, follie erotiche, polemiche
politiche spietate nell’ultimo terzo del libro, come peraltro tipicamente in altre opere di Ottieri, è quello
che si muove, che corre via, a designare il vero soggetto di Una irata sensazione di peggioramento.
Ho scritto al principio che “scavare” è verbo troppo pesante, prevaricatore: non si scava nell’inconscio,
come la talpa nel mucchio di terriccio. Trovo incidentalmente in una pagina del libro due verbi più
confacenti al movimento, al fluire via – carattere compositivo fondamentale di questo Ottieri:
“tremare”, “tremolare” e credo indichino il modo con il quale il narratore presta orecchio al “testo
inconscio” che fluisce sotto (dentro) il racconto per dire così evidente, nel quale Ottieri poi scaraventa
anche il suo gusto del catastrofismo (che sarebbe un altro indizio da convocare utilmente nel discorso
critico su questa narrativa).
Il lettore appena attento non mancherà di notare che il romanzo non si chiude. Non voglio
semplicemente dire che non conclude, a livello di aneddoto romanzesco, di contenuti, la vicenda di
Pietro, di Caterina, di Oliva e tanto meno la questione della “guarigione” (o “peggioramento”) del
protagonista. Voglio dire che l’ultima pagina lascia un buco a livello proprio struttural-linguistico.
Non si tratta di una mera astuzia letteraria, una variante del gidiano “potrebbe continuare”. Quel buco,
quel vuoto sarà una proiezione, nel progetto letterario, della fin troppo famosa degnità analitica circa
l’analisi “interminabile”? Ma le agudezas di Ottieri narratore (di Ottieri nevrotico) sono probabilmente
più acuminate. Il “romanzocentrismo”, la forma ad anello del romanzo incorpora, comprende anche
questa apertura, attraverso cui qualcosa scappa via. Ottieri non offre soddisfazioni troppo facili ai suoi
lettori.
OTTIERI, L’ULTIMO ASSALTO
di Giulio Ferroni
(«l’Unità », 26 luglio 2002)
Ho appena finito di leggere l’ultimo libro di Ottiero Ottieri, Una irata sensazione di peggioramento
(Guanda, pagine 184) e mi appresto a scriverne una recensione per l’Unità, quando mi
giunge fulminea, assurda, casuale, la notizia della morte dell’autore, che della morte parla spesso nel
libro e che tra l’altro già nel 1997 aveva pubblicato un libro intitolato De Morte: fulminea, assurda, mi
prende davvero una sensazione di radicale peggioramento, con lo sgomento di trovarmi di fronte ad
una combinazione micidiale, ad uno di quegli incroci del destino tanto rari quanto ineluttabili, che
rivelano nel modo più sottile e lacerante la crucialità di una lettura nel suo stesso svolgersi, il suo
metterci in causa nel nostro stesso essere nel mondo, in una determinatissima situazione.
Questo libro di Ottieri è del resto uno di quelli che suscitano immediatamente una spinta a riconoscere
una situazione, ad immergersi in un dialogo: che scatenano un’aspirazione allo scambio, che fanno
direttamente percepire la presenza di un autore che parla, che respira e vive, che nella sofferenza
afferma una volontà di vita, cerca e difende un valore per sé e per il mondo. Tanto più raggelante per
chi l’ha appena letto è allora l’immediata notizia della sua morte: si sente troncata per una tremenda
forza esterna quella spinta che aveva guidato l'atto della lettura; e la lettura stessa appena conclusa
appare mutata di senso. Si sente di non poterne più parlare nel modo e nei termini in cui ci si
apprestava a farlo. Le parole del titolo (Una irata sensazione di peggioramento) diventano più
perentorie: l’ira e la rabbia che il libro contiene si riversano su noi che restiamo e siamo trascinati come
da uno sprofondare della realtà e della nostra capacità di comprenderla, dalla sensazione di un
definitivo venir meno dei mezzi stessi per reagire al peggioramento.
Certo, a ripensare all’intera esperienza di Ottieri, alla sua attività di intellettuale e scrittore, al suo anche
doloroso percorso umano, sentiamo di riconoscere il diagramma di una razionalità sconfitta: a un certo
punto della sua vita egli ha condiviso quell’orizzonte “olivettiano” che è stato essenziale per tanti nostri
importanti scrittori (da Volponi a Fortini a Giudici), incontrandosi con un progetto “positivo” di
società, nel tentativo di dirigere il nostro paese, tra anni ’50 e ’60, verso un modello industriale
moderno, razionale, aperto, problematico. Di questo progetto, della situazione in cui si inseriva, degli
acquisti e delle contraddizioni che essa comportava, delle modificazioni che ne conseguivano nel
tessuto sociale, civile e antropologico, egli ha dato una rappresentazione davvero essenziale, intensa,
immaginosa, aggressivamente critica, in alcune delle sue prime opere (memorabili, tra tutte,
Donnarumma all’assalto, 1959, e La linea gotica, 1963), in cui l’esigenza di una razionalità
“progressiva” si scontrava appunto con l’emergere di un sotterraneo malessere, con la verifica
dell’alterarsi del colore e del senso stesso della realtà, con l’avvertimento di un “disumanizzarsi” e
derealizzarsi del mondo, a cui invano reagiva la vitalità, l’energia, la forza autentica di un universo
“popolare” che Ottieri sentiva insieme estraneo e vicino. Ma sullo sguardo sulle contraddizioni dello
“sviluppo” industriale del nostro paese (sguardo che sarebbe interessante confrontare con quello
diverso ma forse convergente di Paolo Volponi) si è sovrapposta assai presto l’esperienza della
sofferenza psichica, che ha condotto Ottieri ad interrogare in modo più violento il volto sempre più
sfuggente della realtà esterna e nello stesso tempo ha dato luogo ad una debordante volontà espressiva,
con un’insistenza ossessiva a cui egli stesso ha affibbiato giocosamente il termine di “graforrea”.
Di questa invadente e scatenata volontà espressiva Una irata sensazione di peggioramento costituisce
come il punto di arrivo, la sintesi ora definitiva, l’accelerazione esaltata, disperata e trionfante nella
ricerca di un’esibizione di sé insieme dolente ed ironica, riservata ed impudica, delicata e aggressiva,
mirante a sconvolgere gli equilibri del mondo visto e vissuto, a scagliarsi contro l’oscena
preponderanza della realtà apparentemente "normale", contro le sue incorreggibili storture.
Quest’ultimo libro viene dopo una fitta serie di altri libri di Ottieri rivolti a dar voce al personale
malessere psichico e a trasformarlo in occasione di invenzione, di gioco, di manipolazione infinita, di
contatto con le cose e con le persone: libri-pastiche, romanzi poemi e poemetti, il cui culmine è forse
costituito da quel libro totale, zibaldone, menippea interminabile divagazione grottesca e carnevalesca
che è Il poema osceno (1996). Attraverso la tematica della malattia, parlando più direttamente di sé,
Ottieri è venuto a toccare visceralmente la malattia del paese Italia e del mondo l’insieme della sua
opera si rivela allora come un entretien infini, un continente dai mille tentacoli, che registra la malattia
dell’io e quella del mondo, dell’individuo che si muove tra paesaggi urbani, reticoli stradali, luoghi
separati di soggiorno e di cura, cercando l’impossibile salute propria del mondo: e in tanti segni,
imponenti e meschini, tragici e ridicoli, nella malattia propria scopre il volto rovesciato di ciò che è
diventato un paese dominato, dopo tante sconfitte, speranze, dai modelli televisivi e pubblicitari
insidiato da una deformazione che appare condensata nell’aria, che corrode le sue apparenze più
evanescenti ed effimere, come la sua più consistente materia fisica. Ma ho parlato anche di gioco:
Ottieri non si è posto mai come un assorto sacerdote della sofferenza: ha affrontato la malattia e la
scrittura della malattia con un ironico e autoironico spirito beffardo, estraendone paradossi e
combinazioni abnormi; ha liquidato ogni patetismo del dolore, ricavando da quella sua ossessione
scrittoria delle scaglie di desiderio, irresistibili e disinvolte combinazioni erotiche, in un divagante
“dongiovannismo” letterario (e recitando la parte di un don Giovanni eternamente malato, eternamente
sconfitto ed eternamente trionfante: nei suoi libri ultimi lo stesso mondo delle istituzioni mediche e
cliniche è stato investito dall’avvolgente respiro di un eros, che il malato scambia in varia misura con
dottoresse, infermieri, inservienti, degenti). Una irata sensazione di peggioramento narra, in terza
persona, la vicenda di un personaggio in gran parte autobiografico, Pietro Mura, scrittore alcolista con
gravi crisi depressive, romano che abita a Milano, che all’inizio degli anni ’90 si reca periodicamente a
Torino per farsi curare dal dottor Carlo Migliorini, uno psicanalista che gli somministra una sostanza, il
GHB, “l’estasi liquida”, che lo allontana provvisoriamente dall’alcol, ma crea una nuova forma di
dipendenza, a cui si lega il continuo oscillare del malato tra entusiasmo e depressione, ma sempre più
cadendo in quella sensazione di peggioramento che da titolo al libro (peggioramento a cui ironicamente
si oppone il nome stesso del medico, Migliorini). In un sottile gioco di stacchi e di sovrapposizioni tra
la voce del narratore (chi scrive) e quella del personaggio (che spesso vengono a confondersi in un noi
che ingloba in sé anche lettore possibile), il protagonista, “eterno moribondo” che “teneva molto alla
vitalità e alla vita”, si sposta continuamente tra Milano e Torino: e in tutto il corso del romanzo Milano
rappresenta la dissoluzione di ogni razionalità, il trionfo dell’Italia più cieca ed egoista, insieme
sguaiata e plastificata, sotto il dominio di una finzione che ha inquinato anche il colore del suo cielo;
ecco cosa è diventato quel cielo già manzoniano: “Non esiste in nessuna parte del mondo un cielo finto
come quello di Milano. I sindaci che si susseguono lo tinteggiano con scarti di vernici che si fanno
mandare a barili da una fabbrica puzzolente di porto Marghera, che inquina a morte tutta la favolosa
Laguna…”. La Torino distesa e razionale, degli Einaudi e degli Agnelli, promette oasi di pace e
distensione, non solo per i colloqui – duello con Migliorini, ma anche per la relazione che ben presto
Pietro imbastisce con l’assistente del medico, la giovane dottoressa Caterina. Ma nel racconto al
succedersi dei viaggi tra Milano e Torino e al sovrapporsi e scontrarsi delle due città si intreccia un
movimento del tempo: si va e si viene dall’inizio degli anni ’90 a quello del nuovo millennio, con le
varie fasi di vicende pubbliche che hanno portato al trionfo di un ben noto cavaliere e di un mondo
verso cui Pietro (e il narratore) manifestano più volte il loro odio. Questo odio dà luogo ad uno
sprezzante sarcasmo, a rancorosi e pungenti giochi di parole, ad accorate denunce della condizione del
nostro paese: e ce n’è per tutti, anche per molta sinistra, da parte di chi qui si definisce “un gauchista e
un gaddista” (ma tra tutti gli strali spiccano quelli rivolti contro Bossi e Cossiga, con uscite travolgenti
ed esilaranti). Nell’affollarsi della realtà virtuale, nel trionfo indecente del pensiero unico televisivo,
per l’impenitente malato di “casanovismo oculare o dongiovannismo virtuale” resiste solo l’attrazione
delle apparizioni sul video di variegate bellezze femminili: immagini di inappagamento, di eros
inarrivabile, di giovinezza perduta, e insieme di degradazione, di volgarità, di insipida banalità. Pietro è
del resto involto in un groviglio di paradossi e contraddizioni, e lo sa benissimo: vorrebbe invadere il
mondo, amarlo e distruggerlo, amare tutte le donne e cercare la giustizia, l’autenticità, la solidarietà tra
gli esseri che meritano il nome di “umani”. Odio assoluto e amore assoluto: con una interrogazione
continua, più o meno esplicita, sul senso stesso della cura analitica, sulle interferenze tra la cura e i
desideri, tra il modello “positivo” e “migliorativo” proposto dal medico e cercato dal paziente, e il
consumarsi della vita individuale (lo spettro della follia e quello della morte, che più volte insidiano il
personaggio), il peggiorare dell’universo sociale e politico. Sospeso tra peggioramento e rimedio (altra
parola che si affaccia significativamente nel libro), Ottieri testimonia qui con vigore (e con tratti di
corrosione linguistica che fanno pensare ad un Céline quasi disteso, più cordiale, svagato e intenerito)
una profonda passione della realtà e della vita, nella cocciuta (aggettivo suo) speranza di un rimedio
non falso, non illusorio, nella frana dell’esistenza e della realtà. Peccato davvero non aver potuto dirgli
quanto essenziale e quanto importante sia questo libro e tutta la sua opera per chi al peggioramento
tenta comunque di resistere.