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Luca Scarlini, Il mistero non si sgomina mai, L'Indice dei libri del mese, n.12, 2010
Ottiero Ottieri torna con un opportuno "Meridiano" a lui dedicato e ben curato, con un'introduzione di Giuseppe Montesano (Il poeta osceno), che propone sei opere, scelte tra le molte del suo catalogo, tra prosa e poesia, mischiando generi e forme, nel cuore di una ricerca stilistica personalissima e decisamente à bout de souffle. Sfilano quindi: Donnarumma all'assalto, La linea gotica, L'irrealtà quotidiana, Contessa, Il poema osceno e Cery, titoli che vanno dal 1959 al 1999, delineando un quarantennio di una presenza, appartata eppure nitidissima, nelle lettere italiane postbelliche.
Questo è d'altra parte l'ossimoro che scandisce la ricezione critica dell'autore, come la bibliografia finale consente di verificare puntualmente. I titoli di giornali e riviste ribadiscono spesso questa idea di una figura peculiare. Si va dall'idea di "un alieno tra noi", che compare in un pezzo di Giovanni Raboni ("Corriere della Sera", 2004, anticipazione di un testo poi uscito come prefazione a L'irrealtà quotidiana), al "fuor d'ogni regola" avanzato da Enzo Siciliano ("la Repubblica", 1996), per arrivare a un intervento di Carla Benedetti, Ottieri, notissimo sconosciuto ("La Rivista dei Libri", gennaio 2000), in cui risuona una definizione di Michel Butor adottata dall'autore stesso: insomma un intero armamentario di figure della differenza, del lontano, dell'altro da sé. Nel percorso nazionale novecentesco, evidentemente, l'autore delle proprie nevrosi è assai meno diffuso che altrove; tanto stupore non si sarebbe dato in Francia, dove molti hanno declinato la loro identità "patografica" (un termine adottato in un suo scritto da Emanuele Trevi), con figure a diverso titolo sintoniche con Ottieri, come Nicolas Genka (L'epimostro) o Pierre Guyotat (di cui ora Medusa manda finalmente in libreria la prima traduzione italiana, quella del Coma). Da noi cercare di scrivere in questa direzione sembra suscitare sospetto (basti pensare al destino per lungo tempo di Dino Campana o alla tardiva ricezione di un autore del calibro di Emanuele Carnevali), altrove è pratica accettata più facilmente, come spiega l'esistenza del meraviglioso Musèe de l'Art Brut di Losanna, in cui si conservano opere di persone che hanno per i più diversi motivi, come avrebbe detto Schopenhauer, "interrotto il rosario apparentemente immutabile dei giorni".
Il primo romanzo del volume, che fece inserire lo scrittore nel filone della cosiddetta "letteratura industriale", risulta in questo senso profetico: nato dal diario del lavoro come psicotecnico nello stabilimento Olivetti di Pozzuoli, Donnarumma gioca con notevole intuizione sulla psicologia della vita d'industria, raccontando le aspettative dei moltissimi aspiranti operai che si presentano a sostenere un colloquio attitudinale di cui non capiscono il senso, ma che deciderà in un tempo brevissimo del destino loro e della loro famiglia, suscitando reazioni anche violente. L'andamento segue la struttura dei giorni di fabbrica, secondo il meccanismo di un diario tenuto, in tempo reale, nel 1955; le domande, secondo gli aggiornati manuali americani, spaziano da un argomento all'altro, innescando sequenze memorabili, come quella che vede in imbarazzo un ammiratore di Esther Williams, che non riesce a ricordare il nome della sua beniamina. La moderna psicotecnica risulta infine per chi la pratica "immorale", perché "potrebbe essere neutra, ma si colora del luogo dove si svolge", visto che "selezione scientifica e disoccupazione si negano". I vetri scintillanti delle nuove imprese Olivetti "dal volto umano", che vorrebbero interrompere gli esiti più tremendi dello sfruttamento, si colorano quindi di nuovi e più sofisticati mezzi di coercizione, che fanno deflagrare il disagio. Forse proprio questa capacità di insistere sugli elementi meno prevedibili del dialogo all'interno dell'alienante luogo di lavoro spiega il meccanismo di una scrittura che alterna occasioni narrative e riflessioni sociologiche.
Il passo diaristico sottoposto poi a numerose rivisitazioni, in un montaggio assai sofisticato e complesso, emerge in modo definitivo in La linea gotica (1962), memorabile immersione nel magma memoriale, nella scansione cronologica di dieci anni, dal 1948 al 1958. Tornano qui i momenti topici di una vita: l'abbandono della famiglia nobile, il tentativo di "andare verso il popolo", avvicinandosi ai partiti della sinistra e la concezione sempre più chiara della propria relazione con la nevrosi, nel lento inizio di un'analisi complessa. Un appunto del 1949 dichiara il campo di gioco in modo chiaro, preciso. "Nella camera della pensione, autocontrollo e follia. Timore di non essere amato. Bisogno di aiuto. Una follia che sta sempre a guardarsi, lasciando fuori un margine di coscienza e controllo. Smanie, come a diciotto anni, regolate da una specie di occhio interno, di termostato, sopra le acque. Cose che nessuno deve sapere, né vedere". Lo scacco della terapia impossibile, l'entrata e uscita dalle cliniche, i medicinali, le tecniche, i dottori diventano i protagonisti assoluti di un terremotato teatro dell'identità, in cui niente è dato per scontato.
Nel 1966 giunge il passaggio a una saggistica pungente, che tesaurizza occasioni narrative, con il notevolissimo L'irrealtà quotidiana, cuore di una riflessione amara e lucida sull'esistenza come specifica forma di inesistenza, in una sintesi spesso di grande incisività, in cui il fantasma del suicidio si agita con kierkegaardiana precisione. Modelli di interpretazione filosofici e psicoanalitici si rincorrono nei giudizi, talvolta straniti, dei recensori, anche se al libro toccherà l'onore del Premio Viareggio per la saggistica.
Manca in questa antologia i Divini mondani (1968), epopea del presenzialismo italico, mirabile macchina celibe linguistica, in cui molto si capisce della passione per il teatro dell'autore (di cui si ricorda la commedia I venditori di Milano, uscita da Einaudi nel 1960) e che prelude alle strutture dialogiche degli ultimi libri. Il libro si propone come una strepitosa scorribanda nei salotti milanesi, tra racconti di vacanze esclusive e amori provvisori, incisi con la nitidezza di un coevo quadro mondano di David Hockney. Queste pagine illustrano un teatro metafisico, in cui va in scena (come accade anche nei titoli seguenti antologizzati) il racconto esclusivo di una difficoltà di relazione con il reale. Nei suoi giovanili studi di specializzazione con Mario Praz, il giovane Ottieri era stato da lui richiesto di tradurre una pièce fondamentale del teatro giacobita, La tragedia dell'ateo di Cyril Tourneur; qui alberga il personaggio tipico di questa produzione: il malcontento, colui che vive in una dimensione diversa della vita, che mal riesce a dare interpretazioni dei segni comuni a quelle degli altri.
Gli ultimi tre libri portano l'analisi e l'autobiografia al centro assoluto del discorso, mentre le terapie si susseguono e il sesso si libera nell'immaginazione. Il ritratto in piedi di Contessa (1975), in cui si parla della nevrosi in termini shakespeariani con un lemma preciso come "distraction", fatale avocazione da sé, si scioglie nella vivacissima dinamica del Poema osceno (1996), lirica immersione in un'iconografia tremenda e gloriosa, che si struttura per dialoghi dalla risonanza quasi platonica, tra identità che divengono attive risonanze di una drammaturgia del pensiero, nella certezza che al centro resti "il mistero, di nuovo, di nuovo. / Il mistero non si sgomina mai. / Spesso attrae". Cery (1999) chiude il giro narrando ancora una volta di cliniche e di disintossicazione alcolica, di analisi, di pillole, di momenti di una quotidianità turbata, asservita a quello che genialmente viene chiamato il "plusdolore", frutto dell'ansia di non essere capiti da chi si ama. Molti hanno individuato una matrice del fare di Ottieri in una dimensione da "pittore materico", e proprio questa, infine, è la sensazione rileggendo questa quarantennale sequenza di sogni e incubi del vivere, in cui le stesse immagini tornano mutate, cambiando sempre di forma, o spogliandosi, come il famoso albero di Mondrian che da realistico diventava sempre più astratto, sotto la lente di un obiettivo spietato.